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giovedì 22 ottobre 2020

DIRIGENTI E INCLUSIONE SCOLASTICA

Il ruolo del dirigente scolastico per la qualità dell’inclusione scolastica: 

la percezione degli insegnanti

- Pasquale Moliterni, Università di Roma -

Una scuola inclusiva è frutto della sensibilità e dell’impegno inclusivo di ciascun operatore scolastico e in primis del dirigente scolastico (DS). È insufficiente, infatti, formare i docenti in vista della promozione di processi inclusivi nella scuola, se in tale direzione non vengono altresì orientati e formati i DS (Sergiovanni, 2002; Serio & Moliterni, 2006; Crispiani, 2010; Paletta, 2015; Unesco, 2015; Ianes e Cramerotti, 2016; Canevaro, 2019). 

Per promuovere una società inclusiva è necessario che tutti i soggetti sociali siano orientati e formati in tal senso. Ciò significa promuovere sensibilità e competenze inclusive negli operatori di prima linea, come gli insegnanti e gli operatori sportivi, i quali però devono poter trovare intorno a sé un tessuto professionale capace di sostenere la costruzione di contesti inclusivi. Gli operatori devono poter trovare innanzitutto nei DS i soggetti capaci di favorire le migliori condizioni di lavoro per rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona, come sancito dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione della nostra Repubblica. 

Il processo educativo è, dunque, frutto delle sinergie che si sviluppano all’interno di una complessità istituzionale e sociale, che vede la scuola parte di tale sistema, come evidenziato da Ludwing von Bertalanffy (1971) con la sua teoria generale dei sistemi. Ma la scuola a sua volta costituisce un sistema altrettanto complesso che, attraverso l’azione di tutti gli operatori, deve onorare la propria specifica missione, didattico-formativa, alla luce di opzioni valoriali che diano senso e significato al processo educativo. 

Tali opzioni chiamano in causa una più ampia corresponsabilità educativa tra scuola, famiglia e società, alla luce dei principi-valori della Carta Costituzionale Italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nonché della Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con disabilità del 2006. È necessario pertanto sviluppare sensibilità e sinergie sia all’interno di ogni singola organizzazione sociale, sia tra le varie organizzazioni che concorrono alla concrezione di processi inclusivi. Una società inclusiva è frutto, infatti, della costruzione di un ecosistema educativo che vede in gioco i soggetti dei tre sistemi (formale, non formale e informale) nella costruzione di comportamenti ed atteggiamenti positivi verso sé, verso gli altri e verso il mondo (cfr. Moliterni, 2013, p.247 e segg.). 

L’educazione è un processo complesso che sollecita e accompagna lo sviluppo dell’essere umano durante l’intero arco ed in ogni contesto di vita (life-long-wide education); richiede attenzioni ed impegno continuo da parte di tutti i soggetti in azioni di corresponsabilità educativa (Moliterni, 2009), a cominciare dalla famiglia e dalle esperienze quotidiane di vita per proseguire nei contesti via via più formalizzati, come la scuola. Questa, in particolare, ha il compito di sostenere il processo educativo di ciascuna persona, nessuna esclusa, nell’incontro con una cultura accessibile, al fine di promuovere comportamenti positivi e consapevoli nella relazione con sé, con gli altri e con il mondo. Ogni esperienza culturale mira ad innervare, infatti, processi formativi ed educativi che si sostanzino di conoscenze significative utili a promuovere comportamenti di umanizzazione consapevole (Favorini & Moliterni, 2015). 

La scuola, già a partire dalle prime esperienze formalizzate degli asili-nido e delle scuole dell’infanzia, così come previsto anche dalle disposizioni sul cosiddetto 0-6 (decreto legislativo n. 65/2017), deve dunque proporre esperienze conoscitive utili a sviluppare abilità e competenze che consentano alla persona di acquisire progressivamente autonomia personale attraverso la graduale conoscenza, comprensione e rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente circostante. …..

 

Leggi: DIRIGENTE E INCLUSIONE



giovedì 23 luglio 2020

TUTTI SIAMO DIRIGENTI, TUTTI SIAMO RESPONSABILI !


Essere classe dirigente

 per ripensare il futuro

Intervista di Rocco Gumina
 a  Ernesto Oliviero

Dopo i mesi di chiusura e sconforto, il nostro Paese sembra ripartire. I tanti lutti, la sofferenza sociale ed economica hanno segnato profondamente le nostre comunità le quali sono chiamate, insieme alle istituzioni, a formulare nuovi percorsi di crescita. La ripresa può essere occasione per ripensare il nostro modello di sviluppo e rilanciarlo alla luce della ricerca del bene comune.
Di questo tema discutiamo con Ernesto Olivero. Fondatore, insieme alla moglie Maria e ad un gruppo di giovani, del Sermig (Servizio Missionario Giovani), Olivero si occupa di promuovere opere di giustizia, sviluppo e a vivere la solidarietà verso i più poveri. Nel 1992, per il suo impegno, Olivero ha ricevuto il titolo di “Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. Nel 1996 è nominato dal Presidente della Repubblica anche “Cavaliere di Gran Croce” e nel 1999 ha ricevuto dall’Università di Torino la laurea honoris causa in Sociologia.


– In un articolo recentemente pubblicato dal quotidiano Avvenire, lei ha sostenuto che questa crisi ci ha fatto comprendere ancora una volta che tutti “siamo classe dirigente”. Un’affermazione importante che invita alla responsabilità sociale e politica l’intera cittadinanza. Perché è urgente una presa di coscienza collettiva su tale questione?
È urgente perché stiamo vivendo un momento molto difficile. Molte cose ci sono sfuggite di mano, l’emergenza ci ha colto impreparati e non tutte le decisioni prese sono state positive. Dico che siamo tutti classe dirigente proprio per ribadire che tutti siamo responsabili del bene comune. Lì dove siamo, ognuno con la propria caratteristica. È molto facile puntare il dito contro le cose che non vanno. Io dico sempre che preferisco puntare il dito su me stesso per chiedermi che cosa posso fare e come posso cambiare io. Chi mi impedisce di lottare per la giustizia, contro le disuguaglianze, per una politica veramente a servizio? Chi me lo impedisce? Nessuno.
– La crisi sanitaria è stata dura e adesso è ora di ripartire. A suo parere su quali basi occorre costruire il futuro post pandemia?
Quando penso alla ripartenza mi vengono incontro due parole chiave: competenza e speranza. Un’emergenza come quella che abbiamo vissuto ci ha fatto capire che nei posti di responsabilità non devono esserci solo persone oneste ma anche capaci, competenti. Negli ultimi anni, ci siamo persi un po’ per strada questo aspetto. Credo che non si possa più farne a meno. Poi la speranza. Senza non possiamo vivere. Diventeremmo persone incattivite, avvitate sulle proprie ferite e dolori. Solo la speranza può aiutarci a guardare oltre.
– Dal suo punto di vista, l’emergenza quali insegnamenti ha offerto alla politica e alle istituzioni nazionali ed europee?
L’emergenza coronavirus è una sfida globale che ci ha fatto capire che siamo tutti interconnessi. Al di là di confini, egoismi e chiusure, siamo davvero di fronte a una sfida comune. Qualcuno dice che siamo sulla stessa barca. Io direi piuttosto che siamo nella stessa tempesta, perché purtroppo l’emergenza non è stata uguale per tutti. Penso per esempio, alle sofferenze di migliaia di poveri in Brasile; viviamo in diretta la situazione della città di San Paolo dove all’Arsenale della Speranza ospitiamo fino a 1200 uomini di strada. Credo che le istituzioni abbiano una grande opportunità davanti, quella di rilanciare la politica come spazio ideale, come orizzonte di senso, in cui dare ali a progetti di bene, a grandi valori, a speranze vere. Sogno una classe dirigente di persone appassionate, a tutti i livelli, pronte a investire le risorse migliori nella ricostruzione, a fare rete, a comunicare entusiasmo e serietà ai giovani.
– Oltre all’emergenza sanitaria, la pandemia da Covid-19 ha messo in ginocchio il tessuto sociale ed economico delle nostre comunità aumentando le diseguaglianze sociali e la povertà assoluta. Associazioni come il Sermig fanno molto per lenire le difficoltà, ma non pare giunto il tempo che la politica prenda sul serio il tema della povertà nelle sue molteplici declinazioni?
Assolutamente. Fa ancora più male vedere che a parole tutti vogliono risolvere i problemi. Nei fatti, continuiamo a disperdere sforzi ed energie in sterili polemiche e battibecchi di corto respiro, dispute di potere più che confronto sui contenuti. Siamo alla vigilia di mesi difficilissimi da un punto di vista economico. Dai nostri Arsenali vediamo che la povertà sta crescendo. Sono centinaia le persone che ci chiedono addirittura la spesa. Il mondo reale è questo. Non possiamo perdere tempo.
– Oltre alla progettazione economica e sociale, la crisi che attraversiamo invita i credenti a rimettere Dio al primo posto. Che significa, nella società plurale, dare il primato a Dio e alla vita di fede?
Io credo che Dio debba essere testimoniato prima di tutto con la vita. Con una consapevolezza di fondo: l’uomo di oggi ha certamente fame di pane, ma soprattutto porta nel cuore una grande fame di Dio. Una fame che può essere saziata solo attraverso persone credibili che testimoniano la presenza di Dio nella loro vita in modo semplice. Questa è una chiamata più forte a prendere coscienza, ad alzarsi in piedi da risorti davanti a Dio, a diventare più innamorati di lui, più uomini e più donne, con una fede forte e adulta, responsabile. Per vivere diversamente. Noi non possiamo cambiare gli altri, ma noi stessi sì. Rimettere Dio al primo posto non equivale ad avere la sicurezza di starsene tranquilli. Anzi. Significa lasciarsi disturbare dall’imprevisto, scegliere di stare con i poveri, oggi sempre più poveri. E riscoprire la vera autorevolezza di chi ha una responsabilità di governo in quella frase di Gesù: “Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”.

www.tuttavia.eu 


domenica 15 aprile 2018

PATTO SCUOLA-FAMIGLIA. CHE FINE HA FATTO?

di Giuseppe Savagnone

Perché i genitori picchiano, sempre più spesso, i docenti dei loro figli? La domanda, se posta anche solo pochi anni fa, avrebbe lasciato allibiti. Oggi sorge spontanea, leggendo le cronache dei giornali. Ormai non passa quasi settimana senza che un insegnante venga aggredito, da un padre, da un marito e una moglie insieme, o direttamente dagli alunni, evidentemente sicuri dell’appoggio delle famiglie. Soltanto in questi pochi mesi del 2018 si contano ben ventiquattro episodi di violenza su maestri e professori. Fare il docente è diventato un mestiere pericoloso che presto richiederà, se le cose continuano ad andare così, corsi di addestramento all'autodifesa.

Che cosa è successo? La risposta non può non tener conto del crescente isolamento della figura dell’insegnante, in una società che non gli ha mai riconosciuto dignità sul piano retributivo, ma che ora, a differenza che in passato, non gliene attribuisce più neppure su quello del prestigio sociale e culturale.
Fino a cinquant'anni fa il lavoro di educatore era pagato poco, ma era rispettato. Oggi non è più così. C’è stato il Sessantotto, con la contestazione dei “maestri”, che ha travolto, insieme ad indubbie forme di autoritarismo, anche la loro autorità. Probabilmente ha inciso anche la crisi del concetto di “missione”, percepito a un certo punto come un alibi retorico per giustificare i bassi stipendi dei professori, con la conseguente crisi di motivazione di tanti la cui passione educativa si fondava su una visione idealizzata della scuola.
Soprattutto, è cambiata la percezione comune del rapporto tra denaro e valore sociale: in passato il primo non era la misura del secondo; nell'Italia del nostro tempo lo è diventato. Chi guadagna poco è, in fondo, un fallito. È con questo atteggiamento di sottile disprezzo che molti si rapportano alla classe docente, e non c’è da meravigliarsi se, consciamente o inconsciamente, lo trasmettono ai loro figli.
Ma gli episodi di violenza non ci parlano solo del declino della scuola: essi sono lo specchio allarmante di una famiglia sempre più caratterizzata dall’incapacità, da parte di genitori insicuri e iperprotettivi, di far valere la loro funzione educativa, perché troppo timorosi dei conflitti che un esercizio reale della loro autorità genitoriale potrebbe determinare.
Alla base c’è una grande fragilità degli adulti. Ormai, ....