Essere
classe dirigente
per ripensare il futuro
Intervista di Rocco Gumina
a Ernesto Oliviero
Dopo
i mesi di chiusura e sconforto, il nostro Paese sembra ripartire. I tanti
lutti, la sofferenza sociale ed economica hanno segnato profondamente le nostre
comunità le quali sono chiamate, insieme alle istituzioni, a formulare nuovi
percorsi di crescita. La ripresa può essere occasione per ripensare il nostro
modello di sviluppo e rilanciarlo alla luce della ricerca del bene comune.
Di
questo tema discutiamo con Ernesto Olivero. Fondatore, insieme alla moglie
Maria e ad un gruppo di giovani, del Sermig (Servizio Missionario Giovani),
Olivero si occupa di promuovere opere di giustizia, sviluppo e a vivere la
solidarietà verso i più poveri. Nel 1992, per il suo impegno, Olivero
ha ricevuto il titolo di “Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito della
Repubblica Italiana”. Nel 1996 è nominato dal Presidente della Repubblica anche
“Cavaliere di Gran Croce” e nel 1999 ha ricevuto dall’Università di Torino la
laurea honoris causa in Sociologia.
– In un articolo
recentemente pubblicato dal quotidiano Avvenire, lei ha sostenuto
che questa crisi ci ha fatto comprendere ancora una volta che tutti “siamo
classe dirigente”. Un’affermazione importante che invita alla responsabilità
sociale e politica l’intera cittadinanza. Perché è urgente una presa di
coscienza collettiva su tale questione?
È
urgente perché stiamo vivendo un momento molto difficile. Molte cose ci sono
sfuggite di mano, l’emergenza ci ha colto impreparati e non tutte le decisioni
prese sono state positive. Dico che siamo tutti classe dirigente proprio per
ribadire che tutti siamo responsabili del bene comune. Lì dove siamo, ognuno con
la propria caratteristica. È molto facile puntare il dito contro le cose che
non vanno. Io dico sempre che preferisco puntare il dito su me stesso per
chiedermi che cosa posso fare e come posso cambiare io. Chi mi impedisce di
lottare per la giustizia, contro le disuguaglianze, per una politica veramente
a servizio? Chi me lo impedisce? Nessuno.
–
La crisi sanitaria è stata dura e adesso è ora di ripartire. A suo parere su
quali basi occorre costruire il futuro post pandemia?
Quando
penso alla ripartenza mi vengono incontro due parole chiave: competenza e
speranza. Un’emergenza come quella che abbiamo vissuto ci ha fatto capire che
nei posti di responsabilità non devono esserci solo persone oneste ma anche
capaci, competenti. Negli ultimi anni, ci siamo persi un po’ per strada questo
aspetto. Credo che non si possa più farne a meno. Poi la speranza. Senza non
possiamo vivere. Diventeremmo persone incattivite, avvitate sulle proprie
ferite e dolori. Solo la speranza può aiutarci a guardare oltre.
–
Dal suo punto di vista, l’emergenza quali insegnamenti ha offerto alla politica
e alle istituzioni nazionali ed europee?
L’emergenza
coronavirus è una sfida globale che ci ha fatto capire che siamo tutti
interconnessi. Al di là di confini, egoismi e chiusure, siamo davvero di fronte
a una sfida comune. Qualcuno dice che siamo sulla stessa barca. Io direi
piuttosto che siamo nella stessa tempesta, perché purtroppo l’emergenza non è
stata uguale per tutti. Penso per esempio, alle sofferenze di migliaia di
poveri in Brasile; viviamo in diretta la situazione della città di San Paolo
dove all’Arsenale della Speranza ospitiamo fino a 1200 uomini di strada. Credo
che le istituzioni abbiano una grande opportunità davanti, quella di rilanciare
la politica come spazio ideale, come orizzonte di senso, in cui dare
ali a progetti di bene, a grandi valori, a speranze vere. Sogno una classe
dirigente di persone appassionate, a tutti i livelli, pronte a investire le
risorse migliori nella ricostruzione, a fare rete, a comunicare entusiasmo e
serietà ai giovani.
–
Oltre all’emergenza sanitaria, la pandemia da Covid-19 ha messo in ginocchio il
tessuto sociale ed economico delle nostre comunità aumentando le diseguaglianze
sociali e la povertà assoluta. Associazioni come il Sermig fanno molto per
lenire le difficoltà, ma non pare giunto il tempo che la politica prenda sul
serio il tema della povertà nelle sue molteplici declinazioni?
Assolutamente.
Fa ancora più male vedere che a parole tutti vogliono risolvere i
problemi. Nei fatti, continuiamo a disperdere sforzi ed energie in sterili
polemiche e battibecchi di corto respiro, dispute di potere più che confronto
sui contenuti. Siamo alla vigilia di mesi difficilissimi da un punto di
vista economico. Dai nostri Arsenali vediamo che la povertà sta crescendo. Sono
centinaia le persone che ci chiedono addirittura la spesa. Il mondo reale è
questo. Non possiamo perdere tempo.
–
Oltre alla progettazione economica e sociale, la crisi che attraversiamo invita
i credenti a rimettere Dio al primo posto. Che significa, nella società
plurale, dare il primato a Dio e alla vita di fede?
Io
credo che Dio debba essere testimoniato prima di tutto con la vita. Con una
consapevolezza di fondo: l’uomo di oggi ha certamente fame di pane, ma
soprattutto porta nel cuore una grande fame di Dio. Una fame che può essere
saziata solo attraverso persone credibili che testimoniano la presenza di Dio
nella loro vita in modo semplice. Questa è una chiamata più forte a prendere
coscienza, ad alzarsi in piedi da risorti davanti a Dio, a diventare più
innamorati di lui, più uomini e più donne, con una fede forte e adulta,
responsabile. Per vivere diversamente. Noi non possiamo cambiare gli altri, ma
noi stessi sì. Rimettere Dio al primo posto non equivale ad avere la
sicurezza di starsene tranquilli. Anzi. Significa lasciarsi disturbare
dall’imprevisto, scegliere di stare con i poveri, oggi sempre più poveri. E
riscoprire la vera autorevolezza di chi ha una responsabilità di governo in
quella frase di Gesù: “Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore,
e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”.
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