non sono i dazi
Misure irragionevoli
Tutti mezzi di comunicazione hanno dato grande spazio
all’effetto catastrofico che stanno avendo sull’economia mondiale i dazi
imposti dal presidente americano Donald Trump. La prima a crollare è stata
proprio la borsa di New York.
In conseguenza dell’annuncio, a Wall Street il Dow Jones
ha chiuso in calo del 3,98% e il Nasdaq ha perso il 5,97%, dopo essere arrivato
a cedere il 6,04%. Ma anche le borse europee – Francoforte, Parigi, Milano – e
quelle asiatiche hanno registrato perdite che raggiungono 2.000 miliardi a Wall
Street e 422 in Europa.
Il governo americano ha cercato di frenare questo panico
appellandosi alla credibilità del presidente: «A Wall Street diciamo: fidatevi
di Donald Trump», ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca, Karoline
Leavitt, commentando alla CNN il crollo dei mercati. E ha
ripetuto lo slogan trumpiano secondo cui «questo è l’inizio dell’età dell’oro»,
perché «gli Stati Uniti non saranno più fregati dalle altre nazioni». Ma
l’appello è rimasto senza esito.
Si tratta della più pesante barriera protezionistica a difesa
del mercato statunitense dal tempo della “grande depressione”. Con la
differenza che allora l’economia americana attraversava una drammatica crisi,
mentre in questi ultimi anni ha avuto una progressiva espansione.
Trump ha motivato la sua decisione invocando la necessità di
una «liberazione» dallo sfruttamento di cui, a suo dire, sono responsabili
praticamente tutti gli altri paesi del mondo e che ha loro consentito finora di
«saccheggiare e violare» gli Stati Uniti.
In base a un calcolo che ha colpito gli economisti per la sua
rozzezza e infondatezza, la prova di questo sfruttamento sarebbe il
disavanzo commerciale per cui le importazioni statunitensi sono nettamente
superiori alle esportazioni.
Come se questo dipendesse da una intenzionale discriminazione
da parte degli altri paesi nei confronti del made in USA, e non da una serie di
fattori che finora hanno portato gli americani a comprare una quantità di
prodotti esteri superiore alla quota di quelli che vengono esportati.
Per di più Trump sostiene che la tassa sul valore aggiunto,
l’IVA, serve a scoraggiare l’acquisto di prodotti USA, misconoscendo il fatto
che si tratta di un’imposta su tutti i beni consumati all’interno di un
paese, a prescindere dalla loro provenienza.
Da qui il suo riferimento alla «reciprocità» che le nuove
misure doganali mirerebbero a realizzare, riequilibrando l’immaginario
protezionismo di cui gli Stati Uniti sarebbero stati finora vittima.
Non stupisce che molte delle critiche a queste
misure riguardino non solo il danno che esse provocheranno, ma la loro
ragionevolezza. Tra l’altro, gli esperti fanno notare che esse colpiscono anche
– e in certi casi soprattutto – l’economia americana, che è strettamente
interconnessa con quelle penalizzate dai nuovi dazi. Esemplare il caso
della Nike e quello della Apple, due giganti che hanno in gran parte
de-localizzato all’estero le loro catene di produzione.
E, infatti, i pesantissimi dazi imposti al Vietnam (46%)
hanno fatto crollare le azioni del colosso americano delle calzature, le cui
azioni sono scese di più del 10%. Così come quelli al 344% imposti alla
Cina rappresentano un grave problema per Apple, che nel Paese asiatico produce
l’85% dei suoi iPhone.
Ma anche le famiglie americane risentiranno pesantemente
dell’aumento dei prezzi di prodotti d’importazione di cui non possono o non
vogliono fare a meno.
«L’età dell’oro» appena iniziata si prospetta già molto meno
entusiasmante di quanto in campagna elettorale Trump abbia promesso. Il solo a
non rendersene conto sembra essere il presidente americano: «L’intervento è
finito!» scritto su «Truth». «Il paziente è sopravvissuto e sta guarendo,
la prognosi è che il paziente sarà molto più forte, più grande, migliore e più
resiliente che mai prima. Rendiamo l’America di nuovo grande!!!».
La reazione dei paesi europei e quella dell’Italia
Il presidente francese Emmanuel Macron ha definito «brutale e
infondata» la scelta di Trump e ha invitato gli imprenditori francesi dei
settori più colpiti a «sospendere gli investimenti negli Stati Uniti» in attesa
di «ogni ulteriore chiarimento». E Robert Habeck, ministro dell’Economia
tedesco, in una conferenza stampa ha paragonato l’impatto dell’attacco della
Russia all’Ucraina con quello dei dazi degli Stati Uniti, verso i quali, ha
detto, è necessaria una reazione compatta e decisa, proprio come nel caso
dell’aggressione russa all’Ucraina.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der
Leyen, da parte sua, ha sottolineato l’eccezionale gravità di ciò che sta
accadendo: «L’economia globale soffrirà enormemente. L’incertezza aumenterà
vertiginosamente e innescherà l’aumento di un ulteriore protezionismo. Le
conseguenze saranno terribili per milioni di persone in tutto il mondo».
Ha poi aggiunto che la Commissione, già impegnata a mettere a
punto le prime contromisure in risposta ai dazi su acciaio e alluminio, entrati
in vigore a marzo, sta ora preparando un nuovo pacchetto per replicare ai nuovi
dazi.
Di tono completamente diverso la reazione della nostra
premier, il cui commento, pur moderatamente critico, è stato soprattutto
rivolto a minimizzare la portata della svolta statunitense, perfino con
un accenno di polemica verso quanti ne denunciavano la gravità: «Penso che la
scelta degli Stati Uniti sia una scelta sbagliata, che non favorisce né
l’economia europea né quella americana, ma penso anche che non
dobbiamo alimentare l’allarmismo che sto sentendo in queste ore (…). Ovviamente
abbiamo un altro problema che dobbiamo risolvere, ma non è la catastrofe che,
insomma, alcuni stanno raccontando».
Quanto alle possibili contromisure, già nel discorso tenuto
al Senato alcuni giorni fa Meloni le aveva in anticipo definite come un
pericoloso cedimento alla «tentazione delle rappresaglie, che diventano un
circolo vizioso nel quale tutti perdono». Con una strana identificazione tra
legittima difesa e rappresaglia, che è un’altra cosa.
Coerentemente con questa prospettiva, nel suo commento
all’annuncio di Trump la nostra premier ha osservato che in Europa siamo
chiamati a «scelte che possono essere diverse.
Ad esempio, io non sono convinta che la scelta migliore sia
quella di rispondere a dazi con altri dazi, perché l’impatto potrebbe essere
maggiore sulla nostra economia rispetto a quello che accade fuori dai nostri
confini». E ha concluso: «Il ruolo dell’Italia è portare gli interessi
italiani».
Parole che, nella loro cautela, lasciano intravedere la
possibilità di una diversificazione della risposta del nostro governo rispetto
a quella degli altri paesi europei, rompendo un’unità che più volte è stata
invocata come la condizione imprescindibile per una efficace difesa da parte
dell’Europa.
La sintonia di Giorgia Meloni con Trump
È una reazione che in realtà riflette la sintonia che la
nostra premer ha chiaramente espresso nell’intervista al «Financial Times»: «Io
sono conservatrice. Trump è un leader repubblicano. Sicuramente sono più vicina
a lui che a molti altri. E capisco un leader che difende i suoi interessi
nazionali. Io difendo i miei».
A suo avviso Donald Trump non è un avversario, ma «il primo
alleato» di Roma. E le arroganti parole critiche rivolte al Vecchio
Continente dal vicepresidente americano J. D. Vance – lo stesso che in una
chat ha definito gli europei «parassiti», ricevendo poi peraltro la conferma da
parte dello stesso Trump – sono pienamente giustificate, perché l’Europa «si è
un po’ persa negli ultimi anni»
Così, nel discorso al Senato del 17 marzo scorso, ha
addirittura accusato di malafede chi prende atto della divaricazione che, per
evidente scelta di Trump, si è verificata tra le due sponde
dell’Atlantico: «Chi ripete ossessivamente che l’Italia dovrebbe scegliere
tra Europa e USA, lo fa strumentalmente, per ragioni di polemica
domestica».
La distanza tra Europa e Stati Uniti non sarebbe nella realtà
dei fatti, ma il frutto di una maligna «narrazione»: «Chi per ragioni
diverse alimenta una narrazione diversa, tentando di scavare un solco tra le
due sponde dell’Atlantico, non fa che indebolire l’intero Occidente, a
beneficio di ben altri attori».
Ma già ai primi di gennaio, nella conferenza stampa d’inizio
d’anno, mentre il mondo sbalordito stentava a credere alle minacciose parole
con cui il nuovo inquilino della Casa Bianca proclamava il suo progetto nei
confronti della Groenlandia e del Canale di Panama, la nostra presidente del
Consiglio prendeva le distanze dai critici e ne minimizzava la gravità,
esprimendo la sua piena fiducia nel Tycoon: «Mi sento di escludere che gli
Stati Uniti nei prossimi anni si metteranno a tentare di annettere con la forza
dei territori che interessano: a differenza di alcune letture che leggo, sento,
e ascolto su Trump, lo abbiamo già visto presidente degli USA ed è una persona
che quando fa una cosa, ragionevolmente la fa per una ragione».
Dopo di allora Trump è più volte tornato sulla questione
della Groenlandia, non con le argomentazioni razionali a cui Meloni lo
ritiene portato, ma ricorrendo ancora una volta alla minaccia, anche
militare: «Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza internazionale.
Dobbiamo averla», ha dichiarato. «La otterremo al 100%. Ci sono
possibilità che gli Stati Uniti la prendano senza la forza militare, ma nulla è
escluso».
Per non parlare dell’intento dichiarato e ribadito di
risolvere il dramma della guerra di Gaza deportandone gli abitanti e
trasformando la Striscia in un resort di lusso.
A questo punto la questione dei dazi diventa solo l’ultimo
episodio di una deriva che smentisce tutti gli sforzi della nostra premier di
chiudere gli occhi sulla realtà.. Mai come in questo ultimo atto è stato
chiaro che il «solco» tra le due sponde dell’Atlantico non è un’invenzione di
chi vuole metter in difficoltà il nostro governo, ma un dato di fatto che lo
costringe a decidere se essere dalla parte dell’Unione Europea, adottando una
linea comune, oppure cercare un negoziato “a parte”, come chiede a gran
voce il nostro vice-premier Salvini, accettando gli eventuali privilegi del
vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti, ma correndo il rischio
di avere in Europa lo steso ruolo sempre più marginale che ha l’Ungheria
di Orbán.
Dove il problema non è più solo economico, come oggi tutti
tendono a dire, ma coinvolge la dimensione politica, culturale ed
etica della nostra identità nazionale. Gli italiani sono chiamati a una scelta
che va ben oltre gli svantaggi derivanti dai dazi.
Condividiamo la stima della nostra premier per Trump e la sua
ragionevolezza? Vogliamo veramente chiudere anche noi gli occhi su quello che
il presidente americano sta facendo – e su come lo sta facendo – da quando è al
potere? Sono i suoi progetti il futuro che auspichiamo per la civiltà
occidentale?
Oggi non possiamo più sfuggire a questi interrogativi. E
dalla risposta che daremo dipende il posto che l’Italia avrà nel mondo.
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