lunedì 14 aprile 2025

UNIVERSITA'. L'EFFICIENZA NON BASTA

 


Occorre integrare 

didattica, 

ricerca 

e impegno civico”


L’università come istituzione è in grave crisi e se si vuole salvarla occorre ripensarla. Va superato il modello attuale basato sull’efficienza


Alessandra Luna Navarro

 La scienza moderna è dovuta spesso crescere tra mecenatismo, incarichi pubblici e autonomie limitate. Ma l’università come la conosciamo oggi – laica, pubblica, orientata alla produzione e alla trasmissione del sapere – nasce nel Medioevo come universitas magistrorum et scholarium, corporazione autonoma di maestri e studenti.

I primi studia generalia, come Bologna e Parigi, erano centri cosmopoliti di apprendimento, aperti a studenti di ogni provenienza, dove si insegnava diritto, medicina, filosofia e teologia. Con il modello humboldtiano del XIX secolo, soprattutto in Germania, l’università si emancipa dal solo insegnamento e assume la ricerca come sua missione fondante, nel nome della libertà accademica e dell’unità del sapere.

Nel secondo dopoguerra, le università europee sono diventate infrastrutture pubbliche al servizio della democrazia, dell’equità sociale e dello sviluppo. Oggi, purtroppo, questo modello vacilla.

In Olanda, il governo ha annunciato tagli alla ricerca e all’educazione universitaria per oltre 1,2 miliardi di euro. Nel Regno Unito, l’accademia sta affrontando le conseguenze combinate di Brexit e inflazione. A Bruxelles, la Commissione europea ha ridotto di 2,1 miliardi di euro il budget di Horizon Europe, riallocandone 1,5 nella ricerca per la difesa.

Questo porta a bandi di ricerca sempre più affollati, con tassi di successo a volte intorno al 2%. Negli Stati Uniti, purtroppo, la situazione è anche peggiore. La nuova presidenza Trump sta riducendo fondi e, ancor peggio, imponendo un controllo sui temi trattati dai ricercatori.

Ma la questione non è solo quantitativa. È epistemologica. Oggi, per ottenere finanziamenti, bisogna dimostrare di avere già risultati preliminari, una rete consolidata e impatti verificabili. In altre parole: si deve sapere già ciò che si intende scoprire. Un paradosso che penalizza le idee più rischiose, spesso le più promettenti.

Ad esempio David Baker, premio Nobel 2024 per la Chimica per le sue ricerche sulla progettazione computazionale delle proteine, racconta che non sarebbe mai riuscito ad arrivare all’idea di predire la struttura delle proteine con l’intelligenza artificiale, se non avesse ricevuto un finanziamento “a fondo perduto” tramite personal fellowship per esplorare un’idea rischiosa e non convenzionale.

Non è un caso isolato. Uno studio pubblicato su Nature nel 2023 mostra che la disruptiveness – la capacità degli articoli e brevetti di cambiare radicalmente il sapere esistente – è in declino da decenni. La ricerca procede per accumulo, raramente per deviazione. I sistemi di valutazione incentivano la produttività, non la sorpresa. L’iper-specializzazione riduce l’interdisciplinarità. Le metriche bibliometriche rischiano di comprimere l’immaginazione.

Già nel 2011, Harvard Magazine avvertiva che le università rischiavano di trasformarsi in imprese della conoscenza, attente ai risultati a breve termine, misurate su prestazioni quantificabili, e scollegate dalle grandi domande del nostro tempo. Un rischio oggi evidente anche in Europa.

Eppure, qualcosa si muove. Il framework DORA (San Francisco Declaration on Research Assessment), adottato da centinaia di enti accademici in tutto il mondo, propone di superare l’impact factor come indicatore centrale per valutare invece la qualità metodologica, l’apertura dei dati, la varietà dei risultati e l’impatto sociale della ricerca.

Ma non basta ripensare la valutazione. Occorre ridefinire il ruolo stesso delle università. In Creating the University of the Future (Springer, 2024), il ricercatore tedesco Wolfgang Stark propone il concetto di università come spazi di risonanza: luoghi in cui si attivano trasformazioni, dove il sapere si costruisce nella relazione con la società. È la “terza missione” intesa non come trasferimento, ma come co-produzione insieme a enti locali, scuole, imprese sociali e cittadinanza attiva.

Esperienze di Community Service Learning, descritte da Stark, mostrano come si possano integrare didattica, ricerca e impegno civico. Gli studenti non apprendono solo contenuti, ma capacità di agire responsabilmente in contesti complessi. L’università diventa allora non solo centro di eccellenza, ma nodo civico, laboratorio di futuro, lente per immaginare ciò che ancora non c’è.

Il futuro dell’università non può ridursi a un tema di gestione o di efficienza. È una questione politica e culturale. Significa decidere se vogliamo università ridotte a incubatori di brevetti, o luoghi in cui si pensa criticamente, si sbaglia legittimamente, si rischia collettivamente. Come fecero ieri Galileo, Newton, Marie Curie, e come hanno fatto, in tempi più recenti, Giorgio Parisi, David Baker e molti altri.

Difendere l’università oggi significa difendere la possibilità stessa di immaginare un futuro condiviso, giusto e creativo. Significa creare condizioni in cui il sapere possa continuare a porre domande inattese. Anche quando le risposte non sono ancora a portata di mano.

 Il Sussidiario

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