- Il caso Dell’Utri
e il rapporto problematico tra Stato e Mafia
Ha
destato reazioni contrastanti l’assoluzione piena dell’ex senatore di Forza
Italia Marcello Dell’Utri, da parte della Corte d’assise d’appello di Palermo.
Nella sentenza di primo grado, tre anni e mezzo fa, l’ex collaboratore e
“braccio destro” di Berlusconi era stato condannato a dodici anni di carcere
come «cinghia di trasmissione» tra i clan e gli interlocutori istituzionali,
nella cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, volta a convincere la mafia a
desistere dalla strategia stragista, in cambio di un’attenuazione dell’art.
41-bis che prevedeva il carcere duro per i boss.
Perplessità
o in qualche caso sdegno si registrano nei commenti della sinistra, mentre
esultano i giornali di destra. «Una sentenza di verità», titola uno di
essi. Altri parlano di una «bufala» finalmente smascherata e della fine di una
«persecuzione».
Non
sono molti, stranamente, a ricordare che in realtà Dell’Utri è appena reduce da
una condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione
mafiosa, inflittagli nel 2013 dalla Corte d’Appello di Palermo e confermata nel
2014 dalla Corte di Cassazione, perché ritenuto il mediatore di un patto tra
Berlusconi e la mafia siciliana. Pena ridotta a poco più di cinque anni e
scontata in parte in carcere, in parte agli arresti domiciliari. L’ulteriore condanna,
ora annullata, si aggiungeva a questa, ormai passata agli atti e consegnata
alla storia.
Siamo
dunque davanti a una vicenda giudiziaria da leggere in un contesto più ampio,
che peraltro va ben al di là degli anni della Seconda Repubblica e che è il caso
di ricostruire, senza fermarsi alle polemiche contingenti, alla luce di una
storia che comincia con l’unità d’Italia. Perché in questo caso, come in tanti
altri, il presente si capisce meglio alla luce del passato e una società senza
memoria, come la nostra, rischia di non cogliere il senso più profondo di
quello che sta vivendo.
Le
radici del problema: come gestire l’unità d’Italia?
È
la storia a dirci che, dopo l’unità, il problema dei rapporti tra Nord e Sud
diventò drammatico. I governi della cosiddetta “Destra storica”, formati, dopo
il 1861, da piemontesi e toscani, non capivano nulla della mentalità e delle
esigenze del Meridione e concepivano l’unificazione come una proiezione su di
esso della legislazione del Piemonte. Si era fatta l’Italia ma, secondo
l’espressione di D’Azeglio, bisognava ora «fare gli italiani». Solo che si
stentava a rinunziare a un modello univoco di unità e di cittadinanza, che era
indigeribile da Roma in giù. Senza parlare dei disastrosi effetti che l’unità
ebbe per le manifatture del Sud, travolte dal mercato unico, che le esponeva
alla concorrenza vincente di quelle settentrionali.
Da
qui il brigantaggio meridionale, affrontato con tremenda durezza grazie alla
legge Pica. Da qui la ribellione di Palermo, nel 1866, repressa a cannonate
dalla flotta italiana.
Il
modello rigido di unità voluto dalla “Destra storica” costava insomma troppe
lacrime e sangue e non funzionava. Da qui la proposta fatta dalla “Sinistra”
(anche questa liberale), che vinse le elezioni del 1876 alleandosi con le
classi dirigenti meridionali, a cui si prometteva un ampio campo autonomo
d’azione, in cambio di una fedeltà sostanziale al nuovo Regno.
Si
deve a questa alleanza se un ampio sottobosco di malavitosi al servizio dei
notabili siciliani poté fiorire e consolidare il proprio potere incuneandosi
tra la popolazione e lo Stato, percepito al Sud come lontano e minaccioso.
Siamo alle origini prossime (quelle remote risalgono alla dominazione spagnola)
del potere della mafia, che poté avvalersi anche di una tacita “alleanza” con
la Chiesa, anch’essa emarginata dal nuovo sistema politico.
«Il
ministro della malavita»
Tutto
questo, naturalmente, richiedeva il mantenimento di un compromesso costante fra
i governi liberali di Roma e questi centri di potere che operavano spesso oltre
i margini della legalità, e che però erano utili per convogliare i voti e
appoggiare i partiti di governo. Uno scambio di favori che funzionò. Al punto
che ben due primi ministri del Regno, dopo la svolta, Crispi e Di Rudinì, furono
siciliani. In un contesto che però si basava sull’abbandono del Meridione alle
sue tendenze più regressive.
Si
spiega così perché Giolitti, il più importante, forse, tra i nostri presidenti
del Consiglio, autore di una politica innovativa che ha segnato una svolta
nella nostra storia, sia stato però definito da Gaetano Salvemini, nel titolo
di un suo libro, «il ministro della malavita» proprio per la sua compromissione
con casi di clientelismo e di corruzione verificatisi nell’Italia del Sud.
La
tacita convivenza tra Stato e Mafia, dal dopoguerra in poi
Non
si può non tenere presente questa storia quando si parla di quella, già molto
più vicina a noi, dei governi democristiani del dopoguerra. È famoso il caso
dell’on. Andreotti, più volte presidente del Consiglio, finito sotto processo
per associazione mafiosa. Tra le accuse rivolte all’uomo politico c’era quella
di avere baciato, durante un suo viaggio in Sicilia, il boss Riina. Non so se
l’accusa fosse vera – come è noto Andretti alla fine fu assolto (in parte per
sopravvenuta prescrizione) –, ma è certo che il suo uomo di fiducia nell’Isola,
Salvo Lima, svolgeva la funzione di “proconsole” e aveva stretti rapporti con
la mafia (da cui infatti venne ucciso in un agguato, probabilmente per non aver
rispettato gli accordi).
Non
si trattava, peraltro, di un problema legato a una sola persona. Ancora una
volta una stupefacente mancanza di memoria storica fa sì che si riversino solo
su Andreotti le responsabilità di questa collusione con la mafia e non si
ricordi che Lima, prima di essere andreottiano, aveva fatto parte, insieme a
Vito Ciancimino e Giovanni Gioia, di un terzetto di spregiudicati politici
legati ad Amintore Fanfani (anch’egli una grande personalità della storia della
Democrazia cristiana).
A
rendere più facile questa convivenza pacifica e perfino collaborativa tra
uomini di governo e mafia sono state, a lungo, la sottovalutazione della
gravità del fenomeno mafioso e una certa tendenza a valorizzarne, addirittura,
la pretesa funzione di “forza d’ordine”, in una società come quella siciliana,
in cui lo Stato non riusciva spesso ad avere il controllo del territorio.
È
impressionante che ancora nel gennaio del 1955, il Procuratore Generale presso
la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di
Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa, abbia potuto
tranquillamente scrivere su una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia
disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre
rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e
non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai
fuorilegge (…) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (…) Oggi si fa il
nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in
seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via
del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della
collettività». Lascio immaginare a chi legge cosa accadrebbe oggi se un alto
magistrato scrivesse qualcosa di simile.
Non
c’è da stupirsi, perciò, che una certa forma di “collaborazione” tra Stato e
mafia si sia a lungo mantenuta e abbia dato luogo a una logica ricorrente, di
cui naturalmente, finita l’era democristiana, ha verosimilmente fruito il nuovo
potere berlusconiano. Qui il “proconsole” è stato – secondo la sentenza del
2014 – Marcello Dell’Utri. Con ottimi risultati: nelle elezioni del 2001 la
Casa delle libertà fece, in Sicilia, un impressionante en plein,
vincendo in tutti i sessantun collegi uninominali in ballo (20 al senato e 41
alla Camera). Un risultato che, per chi conosce l’ambiente umano dell’Isola,
sarebbe inspiegabile senza l’aiuto dei “poteri forti” che controllano il
territorio.
L’urgenza
di un reale cambiamento culturale
Tutto
questo, ovviamente, non implica alcuna critica alla sentenza della Corte
d’assise d’appello di Palermo. C’è una “verità processuale”, che risulta da un
complesso di fattori emersi nel giudizio, di cui il giudice deve tenere conto –
carte, testimonianze, etc. – e che, in uno Stato di diritto, deve prevalere
sulle convinzioni extragiudiziali presenti nell’opinione pubblica o nella mente
degli stessi giudici.
La
verità – nel nudo significato di questo termine, che implica una aderenza ai
fatti reali – può non coincidere con quella accertabile nel processo. Ed è
giusto che sia così. Solo negli Stati totalitari si può condannare qualcuno
prescindendo dalle prove che si hanno contro di lui.
Peraltro,
al di là del caso Dell’Utri, da quanto detto nascono domande inquietanti che
riguardano il Meridione – in particolare ho presente la Sicilia –, il suo
passato, ma soprattutto il suo presente e il suo futuro. Quella che emerge è la
storia di un popolo che, pur con le sue grandi qualità umane, non è mai
riuscito ad avere una vera coscienza del bene comune ed è rimasto in una certa
misura prigioniero di logiche feudali e familiste, di cui la mafia è sta
l’espressione criminale.
Il
problema, perciò, non è solo Cosa Nostra, ma una mentalità, una cultura che
l’ha alimentata e continua a essere presente, in forme meno eclatanti,
nell’amministrazione pubblica, nell’esercizio dei diritti politici, nella vita
quotidiana dei privati.
È
da questa cultura che derivano molti mali del Sud. Non possono bastare i soldi
del Recovery Fund a superarli – quanti finanziamenti, in passato (si pensi alla
Cassa per il Mezzogiorno) sono andati a vuoto, sperperati o finiti nelle tasche
dei mafiosi! –, se non sopravvengono un atteggiamento e uno stile diverso da
parte delle persone.
Non
mancano, per fortuna, persone e gruppi che lottano con tutte le loro forze per
il cambiamento. Ma bisogna riconoscere che è una battaglia ancora lontana
dall’essere vinta. È su questa battaglia culturale che oggi più che mai bisogna
concentrarsi. Perché la politica, in Sicilia e in tutto il Sud, non sia più
inquinata da logiche perverse che produrranno sempre, se non vengono corrette,
i frutti avvelenati che nessuna sentenza di assoluzione può nascondere.
*Ufficio
Cultura Diocesi Palermo
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