- Mc 9,38-50
- XXVI Domenica nell’anno
- Commento di Luciano Manicardi
- In quel
tempo 38Giovanni disse: a Gesù «Maestro, abbiamo visto uno che
scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci
seguiva». 39Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c'è
nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di
me: 40chi non è contro di noi è per noi. 41 Chiunque,
infatti, vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di
Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. 42Chi
scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per
lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel
mare. 43Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è
meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani
andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. [ 44] 45E
se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare
nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella
Geènna. [ 46] 47E se il tuo occhio ti è motivo
di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un
occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, 48doveil
loro verme non muore e il fuoco non si estingue. 49 Ognuno,
infatti, sarà salato con il fuoco. 50Buona cosa è il sale; ma
se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in
voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri»
Il brano evangelico di
questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla
scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale,
dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul
farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo
nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni,
dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”,
esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza
e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo
faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38).
I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di
esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che
quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù. Ma dalle parole di Giovanni emerge
anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38).
Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I
quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro,
di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre
presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli
di qualche tipo. Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche
un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si
sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto
da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di
impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è
avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. Ebbene,
costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito.
Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie
e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché
abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui
sì e io no? E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro,
ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che
fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno
sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo
impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. L’invidia nasce sempre
da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai
e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così,
l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo.
All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile;
il percorso non può che essere una sofferenza indicibile.
L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di
accogliere i propri limiti. L’invidia vede nella riuscita dell’altro una
diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e
come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato.
L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti
dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni
sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di
frustrazione e di invidia.
Ma Gesù stronca sul
nascere questi sentimenti che nelle parole di Giovanni si rivestono di
sentimenti pii verso Gesù, di difesa del suo santo nome, e di zelo e di rigore
verso chi è fuori dal giro della comunità. In verità, dietro sembra esserci
anche la pretesa di essere gli unici detentori di quel nome, di averne
l’esclusiva e usarlo come un potere e un diritto. Del resto, è strano anche il
modo in cui Giovanni si presenta a Gesù a dirgli ciò che lui e i discepoli
facevano. Non gli chiede nulla, ma solo gli racconta un episodio: perché? Con
quale scopo? La risposta di Gesù che proibisce di proibire, mostra che Gesù non
si sente minimamente minacciato dalla presenza di un uomo che fa riferimento al
suo nome per compiere il bene. Con la sua risposta, Gesù chiede ai discepoli di
aver fiducia, di non aver paura. Per lui non è decisivo il criterio
dell’appartenenza al gruppo dei Dodici per l’abilitazione a compiere il bene
nel suo nome. È talmente aperta la sua concezione della comunità che arriva a
dire che chi non è contro è per (Mc 9,40). La non opposizione
è già vista da Gesù come aperto favore. Criterio posto da Gesù è il parlare
bene o male di lui: “Chi nel mio nome compie il bene non può subito dopo
parlare male di me” (cf. Mc 9,39). Dunque, questi non sarà un detrattore della
via percorsa da Gesù, del cammino cristiano, un bestemmiatore del nome. Gesù
mostra fiducia nella potenza del nome come forza benefica che agisce ben oltre
i confini comunitari. Il nome ha una forza benedicente che influenza chi lo
pronuncia, il quale non potrà, almeno subito, parlar male di Gesù. Così, con
poche parole, Gesù capovolge la logica e lo sguardo dei discepoli, di Giovanni
in specie: dal noi contro gli altri, si passa agli altri che, non
essendo contro di noi, sono per noi. Di più. Gesù mostra i discepoli come
beneficiari della bontà e dei gesti di carità degli altri (“Chiunque vi darà da
bere un bicchiere d’acqua nel mio nome …”: Mc 9,41). Insegnando così a cambiare
sguardo: a vedere se stessi non come centro del mondo a cui gli altri si devono
piegare, ma come destinatari del bene che altri fanno loro. Ecco, dunque, che
Gesù presenta gli altri non come persone da cui guardarsi, ma come coloro che
possono testimoniare l’amore e la gratuità di Cristo ai seguaci di Cristo
stesso. Ciò che viene chiesto da Gesù è un mutamento dello sguardo. Passare
dallo sguardo invidioso allo sguardo capace di gratuità e amore. Invidiare (in-videre)
significa proprio guardare torvo, guardare di traverso, ma significa in
profondità non vedere più correttamente né la realtà né gli altri né se stessi.
Significa avere una visione alterata della realtà, dunque anche della comunità
e della vita. Dal nostro testo emerge con forza una dimensione diappartenenza e identità del
gruppo dei discepoli giocate in maniera esclusiva ed escludente. E affiora
immediatamente, infatti, anche la dimensione dell’inimicizia: i
discepoli, di fatto, vedono nell’esorcista sconosciuto, un nemico. Da punto di
vista ermeneutico possiamo affermare che il rapporto chiesa-nemico si situa
all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la
radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere
persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa
radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di
entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di
nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente
sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa
gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema
dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.
Il discorso sullo
scandalo (Mc 9,42-48), che segue il dialogo di Gesù con Giovanni e i discepoli,
di fatto indica il rischio per il gruppo dei discepoli, quindi per la chiesa
stessa, di divenire scandalo e inciampo per altri. In particolare per “i
piccoli che credono in me” (Mc 9,42) e che non sono i bambini, ma i credenti
dalla fede debole, dalla fede semplice. Per evitare lo scandalo il cristiano
ricordi che la Potenza e la Presenza del Signore non sono suo monopolio, ma
sono suscitate dallo Spirito e noi, afferma il Vaticano II,
“dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in
contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22).
L’espressione “nel modo che Dio conosce” dice che nemmeno la chiesa può
pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire
occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio.
Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è
comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al
punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole
hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani: Mc
9,43), sul proprio comportamento (piedi: Mc 9,45) e sulle proprie relazioni
(occhi: Mc 9,47) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di
fede dell’altro.
Il discorso di Gesù, che
si svolge sul registro del paradosso, afferma che occorre il coraggio
della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno,
ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto,
da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza di un’ascesi, di una
lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un
comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett.
“gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma
indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare
il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la
vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).
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