Procedere a passi lenti e pensosi si rivela una sorta di osservatorio introspettivo viaggiante aperto a ogni sorpresa e agli imprevisti dell’esperienza, per apprendere attraverso la propria corporeità in moto.
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di DUCCIO DEMETRIO
Non
appaia impertinente mutare il celebre motto di René Descartes (Cogito ergo
sum) con una dizione che attribuisce al nostro camminare il potere di
accrescere la consapevolezza di essere al mondo. Molto più di quanto una
visione tutta razionalistica dell’attività pensante sia in grado di offrirci.
Quando il procedere a passi lenti e pensosi si rivela una sorta di
“osservatorio” introspettivo viaggiante aperto ad ogni sorpresa e agli
inevitabili imprevisti dell’esperienza. Per apprendere attraverso la propria
corporeità in moto che è una forma mentis sensoriale: all’aria aperta, andando
da qualche parte o non sapendo ancora dove l’impresa ci condurrà e quali siano
i desideri inconsci che ci fanno optare per una strada piuttosto che per
un’altra.
Platone,
nel Fedro, riteneva una saggia pratica filosofica, da
coltivare come cura di sé, l’abitudine a sostare di quando in quando per
dialogare “sull’uomo” in luoghi ameni; come pure per Aristotele la pedagogia e
l’etica peripatetiche, di conseguenza nient’affatto sedentarie, avevano lo
scopo di classificare, ordinare, conservare quanto durante il cammino fosse
stato raccolto e scoperto. Consigli che ritroviamo nel romanticismo della prima
metà dell’800: quando il filosofo danese Søren Kierkegaard, antesignano della
corrente esistenzialistica cri- stiana, si augurava di: «Non perdere la
voglia di camminare: perché io ogni giorno camminando raggiungo un autentico
stato di benessere e di coscienza». Più di centocinquant’anni dopo,
l’antropologo David Le Breton confermava questa convinzione, rintracciandola in
altri filosofi e pensatori del secolo dei Lumi come Voltaire, Rousseau,
Schelling, Goethe. Più oltre, dallo studioso francese ritrovata anche nei
“trascendentalisti” americani Ralph Emerson e David H. Thoreau. Egli scriveva
nel 2006: «L’atto di camminare rappresenta il trionfo del corpo e dei sensi.
Favorisce l’elaborazione di una filosofia elementare dell’esistenza.
Soprattutto induce il viandante a interrogarsi su di sé». A scoprire che è il
camminare, prima del cogito, ad aprirci al senso di esserci e di essere
stati, di aver un cammino biografico alle spalle. Da ricostruire e
scrivere magari proprio di sosta in sosta.
Oggi,
potremmo così emulare, come camminatrici e camminatori desiderosi di camminare
con filosofia, le loro maniere di passeggiare, peregrinare, vagabondare.
Possiamo così metterci nei panni dei filosofi della natura presocratici, o
anche di Epicuro, di Plinio, di Seneca…, riscoprendo il piacere ecologico di
aggirarsi or qui or là. Oppure potremmo scoprirci peregrinanti audaci: ben decisi
a raggiungere quei luoghi santi, oracolari o leggendari, le cui mete avranno il
potere di educarci a rafforzare, a testimoniare, a diffondere la nostra fede.
Al seguito delle correnti monastiche europee e d’Estremo Oriente, le cui scuole
di meditazione in cammino testimoniano tuttora la grande importanza
dell’esercizio del camminare come disciplina sacra per la psiche e l’ascolto
del divino. Vagando alla ricerca di se stessi come cantavano sant’Agostino e
san Francesco: «Come sogliono cantare i viandanti / canta ma cammina /
cantando, consolati della fatica, non amare mai la pigrizia / canta e cammina /
avanza, avanza nel bene! Canta e cammina».
Quali
siano le nostre credenze, il camminare ci mette alla prova sempre, sosteneva
anche Friedrich Nietzsche in Ecce homo. E, di concerto, per il
cattolico Gabriel Marcel chiunque può essere ritenuto viator in
ogni momento della giornata anche soltanto fatti pochi passi. Se invece
l’andatura assume il carattere di un andar vagabondo ecco che il nostro
camminare non si prefiggerà di raggiungere traguardi agognati. Perché
questi ci aspetteranno lungo la via, per il solo fatto di
esserci messi in cammino. Il quale si rivelerà, strada facendo, una
fonte inesauribile di episodi e incontri iniziatici, maturativi,
formativi quale sia l’età dei viandanti. Ciò che conta è,
procedendo o fermandosi di tanto in tanto, ascoltare
nel silenzio cercato o inatteso l’eraclitea e lucreziana potenza
del divenire ineluttabile: oppure, per altri, si tratterà di
ritrovare la ripetitività delle cose, delle stagioni, dei
destini umani nel loro “eterno ritorno”: ancora con
Nietzsche. Per altri ancora, saranno invece i sentimenti
di elevazione e di miglioramento delle proprie condotte umane a
costituire la motivazione che indurrà a scendere in strada
per cercare quanto una stanza, fosse anche la più adatta a meditare, non
può offrirci.
Camminando
a contatto con boschi, animali, paesaggi, montagne…. si scopre di volta in
volta quale può essere il proprio rinnovato cogito ergo sum. Perché preceduto e
arricchito dalle percezioni immediate di un sentirsi vivi offertoci dalla
mutevolezza dei luoghi. Inoltre, scopriremo che simile camminare meditabondo si
adempierà sotto l’egida di quel mito intramontabile del ’900 che fu e sarà
Bruce Chatwin, un autentico filosofo nomade. Per il quale il camminare fu
«un’attività poetica – e aggiungiamo filosofica – che può guarire il mondo dai
suoi mali». Ed anche i nostri.
Procedere
a passi lenti e pensosi si rivela una sorta di osservatorio introspettivo
viaggiante aperto a ogni sorpresa e agli imprevisti dell’esperienza, per apprendere
attraverso la propria corporeità in moto. Ciò che conta è, procedendo o
fermandosi di tanto in tanto, ascoltare nel silenzio cercato o inatteso
l’eraclitea e lucreziana potenza del divenire ineluttabile
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