con le parole
per esplorare
i recessi profondi del linguaggio
Gli insegnanti si
chiedono spesso in che modo trasmettere la passione per la lingua italiana e
per i testi letterari a studenti magari un po’ restii ad apprezzare l’arte
della parola scritta. Non c’è dubbio che una delle strategie più efficaci in
termini di trasmissione del sapere (e questo vale per tutte le materie) sia il
divertimento. Quando si diverte, il ragazzo impara meglio e più volentieri. Ciò
vale non soltanto nella scuola primaria, ma anche in quella secondaria, medie e
superiori. Questo perché attraverso la modalità del gioco e del sorriso si
innesca uno stato d’animo in cui l’emozione diventa produttiva in termini di
conoscenza. Si può provare a insegnare così anche l’italiano e la letteratura.
Due libri usciti di recente offrono spunti interessanti in tal senso. Il primo
è la riproposta, presso Einaudi, dei “Versi del senso perso” di Toti
Scialoja (prefazione di Paolo Mauri, pagine 290, euro 13,00); il secondo un
ricco saggio di Stefano Bartezzaghi dal titolo “Parole in gioco. Per una
semiotica del gioco linguistico” (Bompiani, pagine 272, euro 17,00).
Vissuto tra il 1914 e
il 1998, Scialoja è stato pittore, scenografo e poeta. Nel 1989 aveva raccolto
in quel volume tutte le sue poesie, a lungo riservate a un pubblico di amici.
Versi divertenti,
adatti ai bambini, ma capaci di strappare un sorriso, o magari una riflessione
trasognata, anche ai grandi: «Topo, topo,
/ senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?». O ancora: «Sul lido ionico / sbuca da un fornice / di pietra pomice / una formica
/ dagli occhi d’onice / e si precipita / nel Mare Ionio».
Non mancano i
rimandi metaletterari (come in questi versi che richiamano il Dante del primo
canto del Purgatorio, «sì che di lontano
/ conobbi il tremolar della marina», magari mediato dal D’Annunzio della
lirica I pastori: «O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della
marina!»): «A mezzogiorno, nella luce
piena, / sui tavolini del Caffè Ruschena, / conobbi il tremolar dell’amarena».
Si chiedeva Giorgio Manganelli: «Non sarà Scialoja un petrarchesco che si è
bruscamente accorto di quante possibilità offre una meticolosa dementia praecox? ».
In realtà, la
lucidità dei suoi giochi linguistici è estrema. Come scriveva lo stesso Scialoja,
«nel nonsense la parola è alla prova del nulla». Il saggio di Bartezzaghi, a
sua volta, mostra come l’odierna cultura di massa abbia ripreso dalla
classicità e dal folkore l’abitudine alle combinazioni linguistiche per
adattarle alla contemporaneità: dall’enigmistica alla pubblicità, dalla satira
ai tweet. Insomma, quello che va capito è che i giochi di parole non sono un
ozioso passatempo per umoristi un po’ retrò, ma che possono al contrario valere
come utili esercizi per sviluppare un’approfondita conoscenza del lessico,
della grammatica, della sintassi, e da ultimo per avvicinare con maggiore
consapevolezza, favorendo l’acquisizione di tali competenze, alla letteratura
stessa.
In un libro del 1986, dal titolo “I
Draghi loco pei! (riproposto da Einaudi una decina d’anni fa), Ersilia
Zamponi, docente di Lettere presso la Scuola media “Gianni Rodari” di
Crusinallo (frazione di Omegna, in provincia di Verbania), aveva raccolto i
materiali relativi alle attività da lei realizzate con i suoi studenti in alcuni
corsi pomeridiani di “giochi di parole” (il titolo dell’opera era appunto un
anagramma dell’espressione “giochi di parole”; “locopei” è aggettivo
inventato). L’autrice pensò bene di mandare una copia del volume a Umberto Eco,
accompagnando l’invio con una lettera in cui gli assicurava che quelle attività
erano state organizzate «oltre il normale programma". L’illustre semiologo, che mostrò di
apprezzare molto il libro, le rispose così: «Si rassicuri, signora, questi
esercizi potrebbe benissimo farli “invece” del programma». E proseguiva:
«Infatti se l’insegnante fa rovesciare il senso di una poesia, siamo ben al di
là del gioco: perché per rovesciare il senso, occorre prima capirlo, e poi
esplorare il vocabolario, ed esercitare il buon senso... Non vedo a che cosa
altro debba servire la scuola».
Aveva proprio ragione.
Roberto Carnero
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