Si parla di autonomia scolastica, nei fatti
però lo sforzo legislativo degli ultimi due decenni si è risolto in un processo
di standardizzazione Ma questo è davvero insegnamento?
di ROBERTO CARNERO
Forse mai come in questi ultimi anni, nella storia
repubblicana si è parlato e si parla di scuola. Il dibattito intorno alla legge
sulla 'buona scuola' (la legge 107 del 2015) è stato assai acceso, determinando
una polarizzazione delle posizioni, a favore o contro i contenuti della legge.
Secondo molti osservatori, quel provvedimento (un monstrum costituito da un
unico articolo con 212 commi, per evitare emendamenti) passato grazie alla
fiducia (quindi in assenza di un’adeguata discussione parlamentare) è stato una
delle ragioni della caduta del governo di Matteo Renzi ('punito' al referendum
da tanti insegnanti che non avrebbero accettato un simile diktat su una materia
così complessa e delicata). Tuttavia con quella legge l’Italia non faceva altro
che adeguarsi alle politiche scolastiche raccomandate dall’Ocse ai suoi Paesi
membri (e recepite in quanto tali dall’Unione Europea), vale a dire gli Stati
più industrializzati del mondo: dagli USA al Canada, dal Regno Unito alla
Germania, dalla Svezia alla Corea del Sud. Che cosa viene chiesto di mettere in
atto? Procedure, norme, programmi volti a implementare sostanzialmente due
voci: la standardizzazione dei percorsi didattici e la misurazione dei
risultati raggiunti. Sono obiettivi che stanno diventando sempre più una sorta
di nevrosi ossessiva per i governi, i ministri dell’Istruzione e, a cascata, i
responsabili degli uffici scolastici regionali, i presidi, gli insegnanti.
Standardizzare significa che tutti devono fare la
stessa cosa. Misurare vuol dire valutare in maniera oggettiva il raggiungimento
di certi parametri. Peccato che queste siano cose spesso antitetiche a un
autentico lavoro educativo. Ogni vero maestro ha una sua dose di originalità
che rifugge all’omologazione. L’educatore semina, ma molte volte non fa in
tempo a vedere i frutti, che matureranno dopo. Esempio della pretesa di
misurazione del successo dell’azione formativa sono le famigerate prove
Invalsi, che dal prossimo anno scolastico verranno somministrate anche agli
studenti dell’ultimo anno di scuola superiore. Si pretende di misurare anche il
valore delle iniziative di aggiornamento dei docenti, comprese quelle
programmate dagli enti formatori accreditati dallo stesso ministero
dell’Istruzione.
Qualche giorno fa ho avuto una garbata discussione
con il dirigente di un prestigioso liceo milanese, presso il quale alcuni
docenti mi hanno chiesto di intervenire a un incontro sulla narrativa italiana
degli ultimi decenni. Mi chiama al telefono questo preside, peraltro amico di
vecchia data, e mi dice: «Carissimo, il convegno che state organizzando da noi
è davvero bello, non vedo l’ora di parteciparvi. Ma quale sarà la ricaduta
sulla didattica? Come possiamo misurare questo aspetto?». Ecco, anche lui
vittima di questa ideologia del metro e del centimetro. La risposta alla sua
domanda è infatti evidente: è chiaro che se i docenti di Italiano
approfondiscono la produzione letteraria più recente saranno spinti ad
affrontare in classe quei testi e quegli autori, giungendo così a svolgere
finalmente una parte di programma quasi sempre trascurata.
Nel suo
recente volume “Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano”
(Ponte alle Grazie, pagine 178, euro 14,00) il celebre linguista Noam Chomsky
denuncia esattamente tale tendenza «a ridurre l’istruzione a competenze
meccaniche e a sminuire la creatività e l’autonomia, sia negli studenti sia
negli insegnanti». Quegli slogan del 'didatticamente corretto' che oggi va per
la maggiore, .....
Leggi. OMOLOGATI
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