mercoledì 11 ottobre 2023

ATTENTI AL LUPO

 


 ... E ALLE SUE MASCHERE

 

-         di Silvano Petrosino*

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Che si debba sempre stare «attenti al lupo» è una verità che non attende certo di essere dimostrata. Tuttavia, per non accontentarsi di quel senso comune che finisce per dissolvere ogni verità in una vuota ovvietà, è bene soffermarsi sulla differenza tra il lupo e il «lupo». Il primo è un animale che in quanto tale obbedisce alle leggi che governano la vita di ogni altro animale. Ad essere rigorosi, questo animale, come tutti gli altri, non è affatto «violento» e non ha mai un comportamento «bestiale», essendo quest’ultima una qualificazione che si ritrova solo all’interno della scena umana: solo l’uomo sa e può essere «bestiale», pericolosamente «bestiale», mentre gli animali non lo sono mai. A quest’ultimi è del tutto preclusa la possibilità/capacità della «bestialità». Ciò non toglie, come ben sanno tutti i pastori, e come riconoscono gli stessi animalisti, che anche nei confronti del lupo bisogna dimostrarsi attenti, proteggendo le greggi dai suoi eventuali attacchi. A questo livello, però, non c’è nulla di nuovo, nulla di particolarmente inquietante/interessante, soprattutto dal punto di vista antropologico.

Del tutto diversa, ben più complessa e drammatica, è la storia che ha inizio con l’entrata in scena del «lupo». Perché? Innanzitutto, perché esso non si presenta mai come tale, perché il «lupo», un vero «lupo», si nasconde sempre dietro una maschera che, esasperando in un certo senso lo stesso mimetismo animale, impedisce di cogliere le sue reali intenzioni, configurandolo così addirittura come un amico. Il salmo 54 lo afferma con chiarezza: «Più untuosa del burro è la sua bocca, ma nel suo cuore ha la guerra; più fluide dell’olio le sue parole, ma sono spade sguainate». Perché nasconderlo? Il più delle volte si parla per difendersi e per aggredire, e così per sopravvivere e per imporsi; si usa la lingua e la bocca non per parlare ma per divorare, o meglio ancora: si usa la parola non per comunicare con l’altro ma per divorarlo, utilizzandola come strumento per la propria affermazione. La nostra esperienza quotidiana lo conferma, purtroppo, con tragica puntualità: siamo circondati da persone che con insistenza dichiarano di volere il nostro bene mentre in realtà perseguono il loro bene. Insomma, come insegna Cappuccetto Rosso, siamo circondati da «lupi», e noi stessi spesso lo siamo, che dichiarano di aver occhi e orecchie grandi per vedere e ascoltare meglio, anche se poi la loro grande bocca serve per «meglio divorare». A tale riguardo è significativa la nota con la quale Perrault conclude la sua versione di Cappuccetto Rosso (che, vale la pena ricordarlo, termina con il lupo che divora la bambina; in questa storia nessun cacciatore viene a salvare la fanciulla): «Qui si vede che i ragazzi, e soprattutto le fanciulle belle, ben fatte, e gentili, fanno male ad ascoltare chiunque, e non è poi così strano, se il Lupo tante ne mangi. Io dico il Lupo, ché non tutti i Lupi sono della stessa specie; ce ne sono di accorti, quieti, bonari, che discreti, compiacenti e dolci, seguono le fanciulle fin dentro le case, fin nelle alcove; ma ahimè! chi non sa che questi Lupi dolciastri, di tutti i Lupi, sono i più pericolosi?».

 Ma il «lupo» è infinitamente più pericoloso del lupo soprattutto per una seconda ragione. Commentando la fiaba di Cappuccetto Rosso, Bettelheim coglie con precisione il punto: «Anche una bambina di quattro anni non può fare a meno di chiedersi che intenzioni abbia Cappuccetto Rosso quando, rispondendo alla domanda del lupo, gli fornisce precise indicazioni sul modo di arrivare alla casa della nonna. Qual è lo scopo di quest'informazione dettagliata, si chiede il bambino, se non quella di assicurarsi che il lupo riesca a trovare la strada? […] Cappuccetto Rosso è universalmente amata perché, per quanto sia virtuosa, si lascia tentare [...] Se non ci fosse qualcosa in noi che prova attrazione per il grosso lupo cattivo, egli non avrebbe alcun potere su di noi. Perciò è importante comprendere la sua natura, ma ancora più importante è imparare che cosa lo rende attraente per noi [...] Io penso che Djuna Barnes alluda a questo inconscio parallelo stabilito dal bambino fra eccitazione sessuale, violenza ed ansia quando scrive: “I bambini sanno qualcosa che non possono dire: a loro piace vedere Cappuccetto Rosso e il lupo a letto insieme”» (B. Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli).

 Per limitarsi a Cappuccetto Rosso, bisogna dunque riconoscere che questa fiaba non ha alcun interesse a ribadire ciò che è del tutto evidente: c’è il lupo, c'è il seduttore, c'è l'inganno e la sopraffazione, ultimamente: nel mondo c’è il male. Riconoscendo realisticamente una simile evidenza, questo racconto di finzione lascia intendere, a proposito non della vita ma del più profondo vissuto del soggetto, una verità ben più drammatica e inquietante, e cioè che affinché il male vinca davvero, coinvolgendo ogni aspetto dell’esistenza umana, è necessario che sia il soggetto stesso ad andargli incontro e a sceglierlo; e questa, non lo si può negare, è un'eventualità per nulla remota visto che il «lupo», a differenza del lupo e a dispetto delle anime belle che affollano il dibattito pubblico, piace tanto, attrae ed affascina.

 In altre parole, è come se la fiaba non si limitasse ad ammonire: «attenzione, c'è il lupo» – in fondo tutti sanno che in un bosco c’è il lupo – ma più sottilmente facesse intendere: «attenzione, non consegnarti al lupo, non abbandonarti al fascino per “il lupo”».

  *Silvano Petrosino (Milano 1955), studioso di filosofia contemporanea, si è occupato prevalentemente dell’opera di M. Heidegger, E. Lévinas e J. Derrida.  Oggetto dei suoi studi sono la natura del segno, il rapporto tra razionalità e moralità, l’analisi della struttura dell’esperienza con particolare attenzione al rapporto tra la parola e l’immagine. Insegna Filosofia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro, pubblicato da Vita e Pensiero, è "Piccola metafisica della luce".

Fonte: Vita e Pensiero

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