La corale adesione alla giornata «Fridays for Future», la più grande iniziativa studentesca globale in difesa dell’ambiente e del clima, tramette una promessa e, al tempo stesso, potrebbe nascondere un equivoco. La promessa è nell’assunzione, da parte dei giovani, della responsabilità verso la terra, in particolare verso quell’aspetto essenziale alla sua sopravvivenza che è il clima.
di Giuseppe Savagnone *
Il grido d’allarme della sedicenne svedese Greta
Thunberg, candidata al Nobel per la pace, è stato raccolto dai giovani di mezzo
pianeta e ha fatto nascere un nuovo movimento studentesco, con una specifica
connotazione ecologista.
E così, rispondendo all’ultimo appello lanciato da
Greta su Twitter, migliaia di studenti di 123 Paesi si sono dati appuntamento
per venerdì 15 marzo, per manifestare contro l’irresponsabilità degli adulti di
fronte al fenomeno del riscaldamento globale e chiedere con forza ai governi
dei rispettivi Paesi politiche più incisive per ridurre le emissioni di
anidride carbonica.
Solo in
Italia queste manifestazioni sono state più di duecento, tutte affollatissime,
con slogan come “Scendiamo in piazza, manifestiamo, oggi a scuola non ci
andiamo”, “Siamo ancora in tempo”, “Pazienza niente, studenti per l’ambiente”,
o come quest’altro, più colorito: “Ci siamo rotti i polmoni”.
Responsabilità
generazionali
Alle spalle c’è un’idea chiara e difficilmente
contestabile: «Abbiamo abitato questo pianeta per pochi anni» spiegava uno
degli organizzatori, «troppo pochi perché qualcuno possa rimproverarci o
addossarci le colpe dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra».
È vero: la colpa del disastro in corso, nell’ambito
ecologico come in tanti altri, non ricade certo sui giovani, spesso additati e
quasi demonizzati come i portatori di tutti i problemi, ma sugli adulti, su noi
che li critichiamo. Il problema, in realtà, siamo noi!
I
limiti della protesta
Questo l’aspetto positivo di una protesta che vede i
giovani finalmente protagonisti consapevoli del loro destino. Ma c’è anche il
rischio dell’equivoco. E l’equivoco sarebbe di credere che la svolta invocata
in queste manifestazioni possa essere determinata dalla loro momentanea
riuscita.
Perché qualcosa cambi davvero, deve farsi strada,
nei singoli Stati, un orientamento politico in questo senso. Perché il problema
dei cambiamenti climatici è planetario, ma può essere risolto solo con accordi
che richiedono una cooperazione tra i vari governi.
Ogni
nazione per sé, nessuna per il mondo
Ora, la linea prevalente delle politiche nazionali,
in questi ultimi anni, sembra andare invece nella direzione opposta. L’emergere
di tendenze sovraniste nella maggior parte delle nazioni sta rendendo sempre
più problematiche le possibilità di accordi internazionali che le vincolino al
rispetto di regole comuni.
Dopo che la caduta del muro di Berlino aveva fatto
sperare in una nuova stagione di apertura dei confini, assistiamo invece a una
nuova proliferazione di barriere tra una nazione e l’altra. In questa logica,
non solo è difficile che si creino più strette forme di cooperazione per
affrontare insieme le minacce al futuro del pianeta, ma si assiste al defilarsi
di alcuni Paesi dai trattati precedentemente stipulati, in nome della tutela
degli interessi nazionali.
Significativo il ritiro degli Stati Uniti dagli
accordi di Parigi sul clima dopo l’elezione di Trump. La logica del “prima noi”
– in questo caso “prima l’America” – rende sempre più improbabile una rinunzia
ai propri interessi particolaristici.
Ma non si tratta solo del clima. Ovunque stanno
ricominciando ad affiorare, e in molti casi a prevalere, logiche centripete e
difensive, che distruggono le realtà cooperative fin qui con tanta fatica
edificate. Si veda il caso della Brexit rispetto all’Unione Europea. Si vedano
le spinte antieuropeiste sempre più forti in diversi paesi della stessa Unione.
Solo
tornare a fare politica può determinare il cambiamento
Per cambiare questo trend, decisamente sfavorevole
alle richieste scandite dai giovani il 15 marzo, non bastano gli slogan di una
manifestazione, sia pure imponente: è necessaria una svolta che, nelle diverse
nazioni, riporti al governo forze favorevoli alla collaborazione
internazionale.
E questa svolta non avviene con un colpo di
bacchetta magica, ma con un serio impegno dei cittadini, nei rispettivi Stati,
volta a cambiare la mentalità oggi dominante e la classe dirigente che ne è
l’espressione. È necessario, insomma, un ritorno alla politica.
Ora, proprio questa prospettiva, sfortunatamente,
almeno in Italia, sembra essere molto lontana. I giovani scendono volentieri in
piazza per fare cortei, gridare slogan, impiantare sit-in.
Ma sono estremamente restii a leggere i giornali, a
informarsi seriamente attingendo alle fonti accreditate consultabili su
Internet, a partecipare a incontri, conferenze, dibattiti che li aiutino, da un
lato, a comprendere meglio la complessità delle situazioni e dei problemi, e
consentano loro, dall’altro, si incidere con la loro opinione sulle vicende
politiche.
Una
scuola che non forma più alla politica
Né la scuola provvede minimamente a dare
un’educazione politica adeguata. Il risultato è che le manifestazioni di piazza
degli studenti non si inseriscono in un serio processo di sensibilizzazione e
di informazione che le preceda, le motivi e le segua, ma restano episodi
isolati. Finita l’eccitazione del momento, si torna a fare lezione come se
nulla fosse accaduto.
Significativo, a questo proposito, il declino delle
assemblee di istituto nelle scuole: nate a seguito degli eventi del Sessantotto
per aprire spazi di confronto democratico, da molti decenni sono ormai ridotte,
nel maggior parte dei casi, ad essere solo un’occasione per saltare un giorno
di lezione ogni mese.
Non è da oggi, del resto, che si evidenzia questa
discrepanza tra una partecipazione studentesca prevalente emotiva, che potremmo
chiamare “folkloristica”, e l’impegno reale per giungere a una cittadinanza
responsabile.
È significativo che i famigerati parlamenti della
Seconda Repubblica siano stati eletti da persone che avevano celebrato, da
studenti, i fasti dei cortei e delle occupazioni post-sessantottini, frutto di
un riflusso mascherato da protesta. Come è significativo che le generazioni formate
a questo tipo di protesta siano quelle che poi hanno dato luogo ai picchi di
astensionismo registrati nelle ultime elezioni.
Educare
alla cittadinanza responsabile
Ecco, il rischio che bisogna assolutamente evitare è
che si ricada in questa logica perversa. Il ruolo della scuola può essere
decisivo. Bisogna introdurre una formazione ad una cittadinanza responsabile e
all’impegno politico – ferma restando la differenza tra politica e gioco dei
partiti! – come elemento strutturale del curriculum scolastico, senza affidarsi
alle iniziative sporadiche di questo o quel docente più sensibile.
Altrimenti le aspirazioni a un mondo diverso e
migliore – per il clima come per qualunque altro problema – resteranno un sogno
illusorio, che ai giovani ogni tanto è concesso, sotto lo sguardo sorridente
degli adulti, in attesa che l’incalzare delle interrogazioni di fine
quadrimestre faccia dimenticare ai ragazzi i giorni dell’indignazione e
dell’ira, mentre i governi continuano, con le loro politiche miopi ed egoiste, a
rubare loro il futuro.
* Direttore
Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.
Scrittore ed Editorialista.
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