HANNA ARENDT,
UNA DONNA CHE PENSA
"Sono pensata, dunque sono!"
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Solo la piena esperienza
di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due
essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’Antichità greca ignorò
completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa
e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la lieta
novella dell’avvento: “Un bambino è nato per noi”». Così Hannah Arendt conclude
il capitolo di Vita Activa dedicato
all’azione.
Julia Kristeva la
descrive come «una donna che pensa» e durante tutta la sua vita non ha fatto
altro. Al Cogito ergo sum cartesiano
contrapponeva il motto: «Sono pensata, dunque sono». Non stupisce perciò che
nel 1965 abbia avuto parole di elogio verso la figura di Papa Giovanni.
Nell’articolo The Christian Pope,
apparso sulla New York Review of Books e
poi inserito nel volume Men in Dark Times,
scrive fra l’altro: «Generazioni di intellettuali moderni, quando non erano
atei – cioè sciocchi che fingevano di sapere ciò che nessun uomo può sapere
– hanno imparato da Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche e dai
loro numerosissimi seguaci, dentro e fuori il movimento esistenzialista,
a considerare “interessanti” le questioni teologiche. Senza dubbio
per tutti costoro sarà difficile comprendere un uomo che, sin dalla tenera
età, aveva “fatto voto di fedeltà” non solo alla “povertà materiale”, ma a
quella di “spirito”». Così manifestava il suo stupore per il richiamo alle
origini del cristianesimo che il papa del Concilio rappresentava ai suoi
occhi.
Lungi da noi, a 50 anni
dalla morte, avvenuta il 4 dicembre 1975 a New York, fare di Hannah Arendt una
filosofa cristiana: anzi a più riprese scrisse parole dure verso la Chiesa
cattolica per la sua ambiguità sulla Shoah e sull’antisemitismo. «Pensatrice senza balaustra»:
così amava definirsi lei stessa per far capire che la sua posizione voleva
prescindere dai “parapetti” delle ideologie preconfezionate. È stata senza
dubbio una delle intellettuali più influenti del Novecento: ebrea, tedesca e
americana. Sostanzialmente un’apolide. «Una fanciulla straniera» l’aveva
chiamata il suo maestro Karl Jaspers. Tutta
la sua opera non è stata altro che il tentativo di fare i conti con la
catastrofe che ha investito l’umanità nel secolo scorso e che aveva colpito
anche lei, costretta a fuggire nel 1933 dalla Germania per riparare in Francia
e poi negli Stati Uniti. Quella catastrofe aveva il sembiante del
totalitarismo. Al quale dedicò una delle sue opere più importanti, scritta
negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra
mondiale, Le origini del totalitarismo.
Libro citato di recente anche da papa Leone XIV, il quale, rivolgendosi a un
gruppo di giornalisti il 9 ottobre e invocando la necessità di un’informazione
libera e obiettiva in tempo di fake-news, ne ha sottolineato un passaggio
cruciale: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto
oppure il comunista convinto, ma la persona per la quale non c’è più differenza
tra realtà e finzione, tra il vero e il falso».
La celebrità della Arendt
è dovuta alle polemiche seguite ai suoi articoli sul processo Eichmann a Gerusalemme,
pubblicati sul New Yorker, nei quali
coniò il concetto di “banalità del male”
che l’ha resa famosa. La figura del boia nazista nella sua terribile normalità
rappresenta per lei l’espressione più inquietante del nazismo, l’individuo che
sacrifica la sua coscienza al mito della collettività e dell’organizzazione e
che ne diventa mero esecutore, un ingranaggio della macchina dello sterminio.
La sua interpretazione provocò reazioni polemiche di molti suoi amici ebrei che
l’accusavano di voler minimizzare l’Olocausto. Ma anche i
tedeschi, che tendevano a fare del Terzo Reich un’eccezione
brutale della loro storia, ne furono disturbati: la Germania intera veniva in
tal modo accusata di complicità e finiva sul banco degli accusati.
Negli ultimi anni
continuano a uscire in Italia nuove edizioni dei suoi libri. Come L’umanità in tempi bui curato
da Laura Boella, o Democrazia sorgiva a
cura di Adriana Cavarero,
entrambi usciti presso Raffaello Cortina Editore;
oppure Antisemitismo e identità ebraica (Einaudi) per la cura
di Enzo Traverso. «La
questione è sapere – dice Arendt in L’umanità in tempi bui– quale
misura di realtà occorre mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non
si vuole ridurre l’umanità a vuota frase o fantasma».
L’oscurità in cui la
civiltà occidentale era precipitata ai tempi del nazismo, per essere ribaltata
con i valori della ragione, non poteva eludere il confronto con la realtà, nel
bene e nel male. Ed è quanto essa ha costantemente fatto nel tentativo di «rischiarare
l’oscuro».
In Antisemitismo
e identità ebraica scrive: «Il XIX secolo ha prodotto la coincidenza
di Stato e nazione. Poiché gli ebrei erano dovunque fedeli allo Stato si sono
dovuti preoccupare di liberarsi della loro nazionalità, si sono dovuti
assimilare. Il XX secolo ci mostra, nei terribili trasferimenti di popolazione
e nei vari massacri – iniziati dai pogrom dell’Armenia e dell’Ucraina – le
conseguenze ultime di questo nazionalismo». Siamo nel gennaio 1940 e Hannah
Arendt, dopo essere fuggita dalla Germania nel 1933, si trova in Francia in
attesa di riparare negli Stati Uniti per sottrarsi alle persecuzioni naziste.
In quel periodo, pur soffrendo per la sua condizione di apolide, visto che era
stata privata di quella tedesca nel 1937 come conseguenza delle leggi di Norimberga,
elabora lucidissime analisi sulla situazione politica dell’Europa e sulla
condizione delle minoranze, sempre più oppresse. Solo nel 1951 ricevette la
cittadinanza americana e in una lettera all’ex marito Günther Anders poteva
esclamare: «Ho il passaporto (il libro più bello che conosca, un
passaporto)».
Parole che denotano il
suo sollievo dopo anni in cui lei, come i rifugiati ebrei espatriati dalla
Germania e scampati all’orrore del nazismo, aveva vissuto l’esperienza
angosciosa di essere priva di cittadinanza.
Nella sua lotta contro
l’antisemitismo Arendt trova alleati nel mondo cristiano e cita positivamente
figure come Maritain, Tillich e Bernanos, i quali si erano espressi duramente
contro le persecuzioni feroci attuate un po’ ovunque, dalla Germania alla
Francia alla Polonia. Per questo continuava a sperare che il destino degli
ebrei non fosse disgiunto da quello dell’Europa e immaginava per il Vecchio
Continente una federazione di popoli liberi in cui anche quello ebraico
trovasse spazio. Una speranza che con l’avvio della soluzione finale venne
sempre più scemando.
Nei suoi scritti spesso
polemici con il mondo sionista, anche riguardo alla Palestina Hannah Arendt
esprime posizioni di tono liberaldemocratico. Nel dibattito che si apre
riguardo al futuro, si affaccia l’ipotesi di uno Stato binazionale in cui tutti
gli abitanti, arabi ed ebrei, potessero godere degli stessi diritti: «La verità
è che – scrive nel dicembre 1943 – la Palestina può essere salvata come sede
nazionale per gli ebrei solo se viene integrata in una federazione». Anche in
questo caso, parole profetiche e inascoltate.
Fonte: Vita e Pensiero
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