martedì 2 dicembre 2025

DOVE VA IL MATRIMONIO ?

 


Dalla legge sul divorzio alla cultura dell’interruzione facile: un anniversario che ci interroga

 

di Giovanna Abbagnara

Il 1° dicembre 1970 l’Italia approvava la legge sul divorzio. Cinquantacinque anni dopo, questa data torna come uno specchio: ci costringe a guardarci dentro e a chiederci cosa siamo diventati, quali strade abbiamo imboccato, quali ferite abbiamo aperto – e soprattutto cosa abbiamo smesso di vedere. Pier Giorgio Liverani, giornalista fine e lungimirante, che più volte ha denunciato un meccanismo sottile ma devastante, diceva che una legge pensata per regolamentare casi eccezionali, con il tempo, diventa una prassi ordinaria e poi una cultura.

È accaduto con il divorzio. Doveva essere un’“eccezione umana”, una via d’uscita per situazioni davvero drammatiche. È diventato molto più: un’abitudine sociale, quasi un automatismo, talvolta perfino un’opzione rapida – e spesso superficiale – davanti alle prime difficoltà. E così, lentamente, l’amore stesso si è trasformato. Da promessa, è diventato contratto; da dono, patto rescindibile; da vocazione, esperienza a tempo determinato.

Il problema è che, quando la cultura cambia, cambiano anche i desideri, i comportamenti, le attese, le soglie di sopportazione. Non è solo “colpa della legge”. È che una legge apre immaginari, autorizza nuovi modi di pensare. Lo schema si ripropone oggi per molte altre questioni, e una in particolare mi inquieta: il suicidio assistito. Si comincia sempre così: “Solo per pochi casi estremi. Solo quando la sofferenza è insopportabile. Solo in situazioni limite”. Lo abbiamo già sentito. Lo sappiamo già. Perché ciò che diventa legittimo, presto diventa normale. E ciò che diventa normale, prima o poi diventa culturalmente desiderabile.

Ma la domanda che nessuno affronta è un’altra: come prevenire? Ci appassioniamo alla regolamentazione delle uscite, mai alla costruzione dei ponti. Ci muoviamo sempre sul terreno delle emergenze, mai su quello della formazione. Perché non investiamo sulle coppie prima che arrivino al punto di rottura? Perché non sosteniamo i giovani fidanzati, i neo-sposi, le famiglie alle prime armi? Perché non offriamo strumenti psicologici, relazionali, spirituali per attraversare le crisi e non solo per uscire da esse?

Siamo pieni di slogan sulla “prevenzione” – prevenzione dei tumori, delle malattie cardiache, degli incidenti stradali. Ma sulla salute interiore, emotiva e relazionale, sulla salute dell’amore e della speranza… niente. Silenzio. Eppure, non c’è campo in cui la prevenzione sarebbe più decisiva. Lo stesso vale per il tema del suicidio: si parla di legittimare un gesto estremo, ma quasi nessuno parla seriamente di prevenzione della disperazione. Di come intercettare la solitudine prima che diventi abisso. Di come accompagnare chi soffre prima che perda il senso. Di come far sentire alla persona che esiste una comunità, una relazione, un futuro possibile.

Il nodo vero è culturale: tornare a credere che la vita valga. Che l’amore valga. Che restare valga. Una società matura non facilita la fuga, ma sostiene la fedeltà. Non normalizza la rinuncia alla vita, ma moltiplica le ragioni per desiderarla. Cinquantacinque anni dopo il divorzio, abbiamo imparato molto sui diritti individuali e pochissimo sulla responsabilità relazionale. Sappiamo come “chiudere” una storia, ma non come salvarla. Sappiamo come interrompere una vita, ma non come ravvivarla. Ma l’amore non si protegge a valle, quando è quasi finito. Si protegge a monte, quando lo si forma. E lo stesso vale per la vita. possiamo fare molti di più ma vogliamo veramente farlo?

Puntofamiglia

 

 

 

 

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