Dalla legge sul divorzio alla cultura dell’interruzione facile: un anniversario che ci interroga
Il 1° dicembre 1970
l’Italia approvava la legge sul divorzio. Cinquantacinque anni dopo, questa
data torna come uno specchio: ci costringe a guardarci dentro e a chiederci
cosa siamo diventati, quali strade abbiamo imboccato, quali ferite abbiamo
aperto – e soprattutto cosa abbiamo smesso di vedere. Pier Giorgio Liverani,
giornalista fine e lungimirante, che più volte ha denunciato un meccanismo
sottile ma devastante, diceva che una legge pensata per regolamentare casi
eccezionali, con il tempo, diventa una prassi ordinaria e poi una cultura.
È accaduto con il
divorzio. Doveva essere un’“eccezione umana”, una via d’uscita per situazioni
davvero drammatiche. È diventato molto più: un’abitudine sociale, quasi un
automatismo, talvolta perfino un’opzione rapida – e spesso superficiale –
davanti alle prime difficoltà. E così, lentamente, l’amore stesso si è
trasformato. Da promessa, è diventato contratto; da dono, patto rescindibile;
da vocazione, esperienza a tempo determinato.
Il problema è che, quando
la cultura cambia, cambiano anche i desideri, i comportamenti, le attese, le
soglie di sopportazione. Non è solo “colpa della legge”. È che una legge apre
immaginari, autorizza nuovi modi di pensare. Lo schema si ripropone oggi per
molte altre questioni, e una in particolare mi inquieta: il suicidio assistito.
Si comincia sempre così: “Solo per pochi casi estremi. Solo quando la
sofferenza è insopportabile. Solo in situazioni limite”. Lo abbiamo già
sentito. Lo sappiamo già. Perché ciò che diventa legittimo, presto diventa
normale. E ciò che diventa normale, prima o poi diventa culturalmente
desiderabile.
Ma la domanda che nessuno
affronta è un’altra: come prevenire? Ci appassioniamo alla regolamentazione
delle uscite, mai alla costruzione dei ponti. Ci muoviamo sempre sul terreno
delle emergenze, mai su quello della formazione. Perché non investiamo sulle
coppie prima che arrivino al punto di rottura? Perché non sosteniamo i giovani
fidanzati, i neo-sposi, le famiglie alle prime armi? Perché non offriamo
strumenti psicologici, relazionali, spirituali per attraversare le crisi e non
solo per uscire da esse?
Siamo pieni di slogan
sulla “prevenzione” – prevenzione dei tumori, delle malattie cardiache, degli
incidenti stradali. Ma sulla salute interiore, emotiva e relazionale, sulla
salute dell’amore e della speranza… niente. Silenzio. Eppure, non c’è campo in
cui la prevenzione sarebbe più decisiva. Lo stesso vale per il tema del
suicidio: si parla di legittimare un gesto estremo, ma quasi nessuno parla
seriamente di prevenzione della disperazione. Di come intercettare la
solitudine prima che diventi abisso. Di come accompagnare chi soffre prima che
perda il senso. Di come far sentire alla persona che esiste una comunità, una
relazione, un futuro possibile.
Il nodo vero è culturale:
tornare a credere che la vita valga. Che l’amore valga. Che restare valga. Una
società matura non facilita la fuga, ma sostiene la fedeltà. Non normalizza la
rinuncia alla vita, ma moltiplica le ragioni per desiderarla. Cinquantacinque
anni dopo il divorzio, abbiamo imparato molto sui diritti individuali e
pochissimo sulla responsabilità relazionale. Sappiamo come “chiudere” una
storia, ma non come salvarla. Sappiamo come interrompere una vita, ma non come
ravvivarla. Ma l’amore non si protegge a valle, quando è quasi finito. Si
protegge a monte, quando lo si forma. E lo stesso vale per la vita. possiamo
fare molti di più ma vogliamo veramente farlo?
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