mercoledì 4 luglio 2018

IL LIBERANTE SUSSURRO DELL'AUTORITA'

A PROPOSITO          DI 
OBBEDIENZA



Visto che la mia esperienza d’insegnamento si svolge in Germania, mi piace iniziare la riflessione sul rapporto scuola-obbedienza con la parola tedesca che sta per obbedire: gehorchen. Al prefisso ge segue horchen, verbo di uso corrente che significa porgere l’orecchio, ascoltare attentamente.
            In tedesco quindi l’obbedienza viene sorretta dal bisogno essenziale di un ascolto concentrato e presente, presupponendo che la fonte dell’interesse sia un po’ nascosta, immersa nel silenzio, difficile da percepire. Proprio il contrario di quello che l’obbedienza sembra sottintendere: pretesa, azzeramento della volontà o della capacità di pensare dell’altro.
            A scuola il termine obbedienza sembra essersi dissolto. Non sento mai dire: «I bambini non ubbidiscono», ma piuttosto: «Non fanno quello che dico, non mi seguono, fanno quello che vogliono, fanno finta di non sentire». Non è una peculiarietà relativa alla scuola. Nella Germania di oggi la parola obbedienza assieme a ordine, diligenza, autorità, potere, provoca una sorta di disagio, ha un retrogusto sospetto.
            È ancora troppo vicino il passato del nazionalsocialismo che, abusando di tutti questi termini, ha cercato di giustificare i suoi orrendi crimini. Quelle che una volta erano le migliori qualità indiscusse, peculiari e fondamentali di una nazione hanno dovuto essere ripensate, creando all’inizio un certo disorientamento.
A questo ripensamento corrisponde in ambito pedagogico la messa al bando definitiva della cosiddetta «pedagogia nera» improntata sulla paura e che tende a vedere l’alunno come un oggetto, un contenitore da riempire con le varie discipline, che porta in sé tendenze potenzialmente pericolose da raddrizzare nel caso si manifestino.
            Ecco quindi, influenzata dal [Sessantotto, la pedagogia antiautoritaria, che mette al centro il bambino con i suoi diritti e le sue potenzialità ma soprattutto si scaglia contro l’obbedienza, il criterio guida della pedagogia nera. Un’obbedienza che serve interessi sociali e di potere e che soddisfa anche chi richiede una sottomissione psicologica. Il nuovo ideale dunque è l’individualità al posto del conformismo e un’educazione che rende se stessa superflua.
In concreto però si registrano spesso perdita di valori, mancanza di rispetto e di disciplina, incapacità di sopportare la frustrazione e un fiorire di piccoli o grandi despoti incapaci di rapportarsi alle più semplici regole della convivenza. Le più moderne riflessioni pedagogiche sottolineano oggi il concetto di responsabilità al posto dell’ubbidienza, accompagnata dal rispetto incondizionato e della presa di coscienza da parte dell’educatore della dignità del bambino. Quindi la parola obbedienza a scuola è davvero superata?
            Dopo una breve inchiesta sul tema che ho fatto rivolgendomi a diversi miei colleghi, sono giunta alla conclusione che l’obbedienza si basi indissolubilmente sulla fiducia, ne sia una sorta di sinonimo dal suono leggermente più antipatico. Soprattutto i bambini piccoli danno quasi sempre alla maestra una fiducia incondizionata, una sorta di accredito; un grande regalo e una grande responsabilità per l’educatore; un dono a volte anche fragile, che con la crescita viene periodicamente ricontrollato, riaggiustato.
            Crescendo, l’accredito molto spesso cala, vuole poter essere messo in discussione, anche criticato. I veri professionisti di questa critica sono gli adolescenti. E il concetto di autorità? Come la Chiesa, anche la scuola è un’istituzione gestita secondo un modello gerarchico autoritario. Non dispotico ma, si spera, basato su valori come la collegialità ed il dialogo e arricchito dall’autorevolezza di tanti, cioè dalla loro capacità carismatica di coinvolgere e convincere.
Nel quotidiano scolastico l’obbedienza è presupposta ma non data per scontata; rappresenta il comportamento adeguato dell’alunno in risposta all’insegnante, la regola del gioco di squadra senza la quale il gioco non può funzionare, una regola a volte faticosa da fare rispettare. Vive del contrasto tra imposizione come mezzo e libertà come fine.
            Serve per semplificare, per dare una struttura, rende possibile un ordine in cui ognuno sappia come muoversi e possa crescere. Poi, è ovvio, obbedire non è sempre bello e non è sempre facile. Non tutto quello che l’insegnante dice viene sempre messo in pratica da tutti gli studenti e non tutte le mancanze di obbedienza hanno la stessa gravità.
Alcuni esempi pratici e antitetici, il primo molto nordico. Se fuori c’è la neve i ragazzi nell’intervallo non possono fare le pallate. Un certo pericolo è evidente, soprattutto con la lungimiranza di chi sa che qua la neve quasi sempre in inverno ghiaccia e se a qualcuno arriva in faccia una palla di ghiaccio misto a neve non fa decisamente bene. Ma non c’è niente da fare.
            Il fascino di questo freddo e bianco materiale e la gioia sportiva di lanciarla fa sempre dimenticare l’obbedienza. Altro caso è il bullismo: la disubbidienza alla regola fondamentale del rispetto reciproco richiede tempo, dialogo e sanzioni di ben altra dimensione. A seconda del carattere dell’alunno e del tipo di educazione ricevuta dai genitori ci sono bambini che non hanno problemi a dare fiducia e quindi ad obbedire e altri che sembrano volere disobbedire a qualsiasi regola per partito preso.
            Chi ha sempre bisogno di mettere in discussione ogni piccolezza o deve porre sempre se stesso e il proprio piccolo mondo al centro di ogni situazione, chi non è mai in grado di sottostare ad un’autorità, chi non sa farsi prendere per mano e aiutare non si rende semplice la vita. A scuola anche l’insegnante deve ubbidire. Al dirigente scolastico o a chi fa parte della squadra di direzione.
 Come l’alunno, anche l’adulto lo fa più o meno volentieri, a seconda del carisma e della competenza del dirigente, del tipo di mansione da svolgere, del senso che vede o meno nella mansione. A volte si sceglie attivamente di dare fiducia e si scopre che è stato un bene, altre volte si subisce e si agisce controvoglia. Entrambe le esperienze sono fonte di crescita.
              Oggi è chiaro che l’obbedienza è uno strumento educativo e non un fine; che ubbidire non mi rende un burattino nelle mani di qualcuno che mi manovra, ma mi aiuta a muovermi sicuro e senza pericolo su un sentiero che non conosco. A scuola obbedendo imparo appunto anche a tendere l’orecchio, a rimanere in ascolto, a discernere, fino al momento in cui mi sentirò sicuro e comincerò a muovermi con responsabilità e libertà.
 Monica Catani

 (articolo tratto da www.messaggerocappuccino.it)

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