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domenica 20 luglio 2025

CARAVAGGIO, UNA LETTURA SPIRITUALE

 


-       di Andrea Dall'Asta

-       Direttore della «Galleria d’Arte San Fedele» di Milano.

-        Dopo secoli di oblio, l’interesse per l’arte secentesca non cessa oggi d’ispirare mostre, convegni, film, dibattiti.

Le drammatiche narrazioni di un Ribera, le luminose scene di Gloria di un Pozzo o di un Rubens o l’intimità degli interni di un Vermeer continuano a interrogare e a interpellare il mondo contemporaneo, come se vi ricercasse una chiave d’interpretazione del proprio tempo, un orizzonte di senso in cui cercare risposte, punti di riferimento.

D’altronde, non mancano analogie tra il XVII secolo e il nostro. Se alla fine del Rinascimento il mondo europeo è attraversato da inquietanti trasformazioni epocali che gettano l’uomo in un profondo stato di precarietà e di angoscia, non è forse un sentimento di oggi il sentirsi perduti e incapaci di vivere un’unità di senso? Non è forse un tratto della cultura postmoderna il percepire un sentimento d’incertezza e di frammentazione, per cui l’uomo si sente come obbligato a una continua ricerca di se stesso, lontano da quelle sicurezze che venivano in qualche modo «garantite» dall’adesione ai valori religiosi e istituzionali, i quali fondavano l’identità di una cultura, di una società e di un popolo?

In questo irrequieto periodo di trasformazione che inizia già dalla prima metà del Cinquecento, Caravaggio si staglia come un gigante, realizzando una sintesi unica tra profondità di pensiero e capacità di lasciare emergere i sentimenti umani più profondi, tra ricerca di fede e desiderio di uscire dai codici tradizionali della religiosità del proprio tempo.

Attraverso l’analisi di un dipinto, la Vocazione di san Matteo, collocato nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, grazie a una lettura di carattere prevalentemente teologico (e filosofico), mostreremo come Caravaggio1, interrogando un brano evangelico, elabori una profonda visione del mondo, dell’uomo, di Dio; come, attraverso la messa in opera di uno straordinario uso della luce, della prospettiva e del chiaroscuro, l’artista si faccia interprete di una spregiudicata ricerca esistenziale, in grado di suggerire chiavi di lettura per la comprensione del mondo moderno. In particolare, l’analisi si concentrerà sulla luce e sul suo ruolo simbolico. Infatti, il fondo oro delle icone medievali, simbolo della presenza di Dio che avvolge ogni realtà umana, sembra trasformarsi in un raggio luminoso che appare e scompare improvvisamente.

La presenza di Dio illumina la vita di ogni uomo, ma si tratta soltanto di un passaggio che s’iscrive nella durata di un istante. Ogni decisione umana si decide in questo hic et nunc. Dopo questo momento, l’uomo è rinviato alla responsabilità etica della propria storia. La presenza di Dio non diventa allora che la scoperta del suo passaggio nel mondo.

La vocazione di san Matteo

Il ciclo della vita di san Matteo è dipinto all’inizio della carriera pubblica di Caravaggio2, nel 1599, ed è situato nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi3, chiesa nazionale dei francesi a Roma. Il programma iconografico tracciato già diversi anni prima dal committente di origine francese Matteo Contarelli4, proprietario della cappella dal 1565, prevedeva che la scena si svolgesse in un magazeno, o in una grande sala contenente l’ufficio delle imposte sul quale dovevano essere collocati alcuni libri e del denaro, secondo le abitudini di tal officio.

Alla chiamata di Cristo che passa per la strada, Matteo, vestito da gabelliere, avrebbe dovuto alzarsi con slancio (con desiderio), per avvicinarsi a lui e seguirlo. Matteo ha già compiuto la propria scelta. Ogni elemento di tensione o di dramma è eliminato. La scena doveva dunque mostrare il contrasto tra lo spazio del magazeno, luogo della miseria umana, e l’atteggiamento di fede dell’apostolo che risponde immediatamente alla chiamata di Cristo.

La Vocazione riprende il racconto della chiamata di Levi, narrata dai Vangeli Sinottici. Leggiamo, per esempio, nel Vangelo di Marco: «Nel passare, [Gesù] vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Egli, alzatosi, lo seguì» (Mc 2,14). Il centro drammatico è definito dall’imperativo: «Seguimi», verbo che pone un punto di concentrazione narrativa situato tra un prima e un dopo. Tra le azioni di Gesù, di passare, di vedere, di dire, e la risposta di Levi, di alzarsi e di seguire. Tuttavia, in che modo Caravaggio interpreta il racconto evangelico e la traccia iconografica elaborata dal Contarelli?

Caravaggio interpreta la scena in uno spazio familiare nella sua semplicità e sobrietà. La composizione, tracciata parallelamente alla parete di fondo, comprende due gruppi di persone, divise da uno spazio vuoto segnato visualmente da una finestra chiusa. Al lato sinistro del quadro, cinque personaggi sono posti attorno a un tavolo sul quale sono collocati uno scrittoio, una borsa e alcune monete d’argento. Si riconosce un luogo in cui si maneggia denaro. Il gruppo comprende tre ragazzi, un uomo di età matura e un vecchio, in piedi. I due personaggi all’estrema sinistra tengono gli occhi fissi sulle monete. Uno conta il denaro, l’altro sembra verificare l’esattezza delle operazioni. Gli altri tre hanno lo sguardo rivolto verso gli altri due uomini alla destra della scena. L’uomo al centro del gruppo ha un movimento di sorpresa. Designa se stesso con la mano sinistra, come per chiedere una conferma. L’altra mano, sul tavolo, resta salda sulle monete che stava contando. I due giovani al centro appaiono dubbiosi, interrogativi. Sembrano colti di sorpresa. Provocazione? Paura? Stupore? In particolare, il ragazzo meno giovane, armato, mostra un atteggiamento eccessivo, come di un sobbalzo. È posto in avanti, con un vago atteggiamento di minaccia.

Tutti i personaggi sono vestiti con colori vivaci, in modo fastoso e appariscente. Le figure risaltano prepotentemente dal fondo scuro, grazie soprattutto a una luce che proviene dal lato destro della scena. Indossano vestiti contemporanei. I due personaggi situati nella parte opposta del gruppo hanno i piedi nudi e sono vestiti all’antica. Al gesto perentorio del più giovane risponde timidamente la mano dell’altro, come per ribadirlo. L’apparizione dei due personaggi dev’essere inattesa, per sospendere temporaneamente ogni azione in un istante chiuso e definito.

La tela è divisa in due parti: i gruppi a sinistra costituiscono un blocco orizzontale, mentre i personaggi in piedi sulla destra formano un rettangolo verticale. I due gruppi sono separati da un vuoto attraversato dalla mano del giovane uomo sulla destra, che ha la funzione visuale di unire le due parti della scena. Il modo in cui la luce è collocata è particolarmente studiato. Se la finestra chiusa, costituita da una tela oleata, non sembra destinata a illuminare direttamente i personaggi (diffonde una tenue luce di atmosfera?), un potente fascio di luce, che viene da una sorgente luminosa a destra, illumina frontalmente il gruppo seduto e in modo radente i due personaggi in piedi.

La scena non offre difficoltà per l’interpretazione iconografica.

Il collettore di imposte, Levi, insieme ad alcuni compagni, sta contando il denaro della giornata. Con la mano destra, il Cristo, che entra insieme a Pietro, lo chiama con un gesto al suo seguito5. Alla chiamata «seguimi», diversamente da quanto aveva annotato il Contarelli, risponde lo stupore e l’interrogazione di Levi. Un breve dialogo sembra così stabilito. «Tu! Io? Tu!». Il gesto di Cristo è imitato da Pietro. La Chiesa prolunga il gesto di Cristo, facendosi così mediatrice tra Dio e gli uomini. Se i personaggi sono vestiti in abiti contemporanei, significa che questa storia non è una chiamata avvenuta in un tempo passato ma un invito rivolto a ogni uomo, qui e ora. Caravaggio annulla così la separazione tra attori e spettatori. In questo senso, la Vocazione sembra ben aderire alla sensibilità del libretto degli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola.

Infatti, la contemplazione ignaziana, in cui l’esercitante è invitato a rappresentarsi nella scena evangelica, si concretizza in un luogo familiare e sobrio in cui il fedele, insieme ai personaggi vestiti in abiti contemporanei, può partecipare direttamente all’evento rappresentato, diventando così testimone e partecipe dell’incontro tra Cristo e Levi. Il carattere realista e umile dell’immagine, che sottolinea l’elemento tattile e materiale della rappresentazione, mostra che il rapporto con la fede implica la piena adesione a ogni realtà umana e tangibile, al di là di ogni trasfigurazione o ricerca di bellezza teofanica. L’iconografia non rispetta dunque le annotazioni del committente. Anche in relazione ai Vangeli, Caravaggio interpreta liberamente un dialogo non riportato. Il pittore non rappresenta il momento in cui Matteo si alzerebbe per seguire Cristo, ma un istante d’indecisione, di dubbio. Quale sintesi Caravaggio opera tra forma e senso, oggetto e simbolo, contenuto ed espressione? Occorre analizzare alcuni elementi dell’opera, come lo spazio e la luce.

Lo spazio

Lo spazio costituisce un aspetto fondamentale delle arti visive. Esso non è una forma vuota, un recipiente che accoglie semplicemente contenuti espressivi, ma un luogo simbolico in stretta relazione con i processi percettivi dell’uomo elaborati in un ambiente filosofico, teologico, sociale, in poche parole: in una Weltanschauung determinata6.

Caravaggio compie una vera e propria rivoluzione rispetto allo spazio organico e unitario del Rinascimento, in stretta relazione ai cambiamenti culturali del suo tempo. Le inquietanti novità del pensiero cosmologico copernicano, secondo il quale la Terra non può essere considerata al centro topografico dell’universo, dissolvono la concezione figurativa della prospettiva del Quattrocento. Quando la terra e l’uomo erano situati al centro del cosmo, occorreva mettere in relazione il mondo terreno con un Dio che lo osservava dall’alto. Per lo spirito del Rinascimento, la prospettiva centrale, secondo la quale gli oggetti sono costruiti a partire da un solo punto di vista, permette di rappresentare un mondo pensato come oggettivo, unitario, misurabile e razionale. Se questo spazio è poi concepito nella sua verità ontologica, grazie alle scienze della matematica e della geometria, il punto di osservazione dell’uomo non può che coincidere con quello di Dio7. In una perfetta continuità tra arte e scienza, la prospettiva centrale cerca di rappresentare un mondo in cui il fenomeno coincide con l’essere. In un contesto teologico, Suárez dirà, alla fine del sec. XVI, che le creature uguagliano Dio sotto il punto di vista della ragione generica: se l’una e l’altra sono, non possono che essere identiche.

Il pensiero copernicano e la scoperta galileiana dell’indefinitezza dei sistemi solari conduce l’uomo a un’irrimediabile perdita di centro. L’unità del mondo sublunare di Aristotele si disaggrega. La gerarchia degli esseri è spezzata. Se il cosmo ruotava attorno a un centro, c’era una gerarchia. Se non c’è centro, tutto si fa uniforme, senza punti privilegiati. L’universo si fa infinito e omogeneo nella sua realtà materiale e spaziale, popolato da una pluralità di mondi. I valori sul piano morale e metafisico sembrano dissolversi nella relatività del tutto. «Dov’è Dio?», diventerà un problema centrale della teologia. Dove collocarlo, se non esiste più un centro? Lo spazio, cessando di avere un centro, si fa numerico, omogeneo, definito da coordinate geometrico-matematiche, la cui serie è senza fine né inizio. Disincanto del mondo. L’universo diventa come uno sfondo neutro, privo di centro, riducendosi a una somma di parti simili e di eguale valore, come in un sistema di assi cartesiani. Il mondo è estensione geometrica, caratterizzato da materia e movimento.

Se nel Medioevo l’uomo era situato al centro grazie a Dio che ve l’aveva posto naturalmente sin dalla creazione, ora si fa centro e misura di tutte le cose. Il cogito ergo sum di Cartesio diventerà il fondamento di ogni certezza di sé dell’Io. Tuttavia, se l’uomo fa sempre meno riferimento a Dio per giustificare la realtà, come riconoscere una ragione di essere, per non perdersi nell’indeterminato e nel vuoto del nulla? Non è forse questo un problema centrale della contemporaneità? In tale contesto, l’uomo è posto in una condizione di libertà inattesa, che lo conduce a una nuova coscienza di sé in relazione a Dio e al mondo. Un nuovo sentimento di dubbio, incertezza e instabilità attraversa l’uomo, che si percepisce come un elemento insignificante del cosmo. Le silence des espaces infinis di Pascal esprimerà la meraviglia ma anche l’angoscia dell’individuo di fronte a un universo indefinito e illimitato. Si fa strada l’idea di un cosmo costituito da un numero infinito di mondi simili o analoghi, sparsi nell’oceano etereo del cielo.

Spazio di una natura benigna che dispensa i suoi doni? Luogo abitato da una bontà divina, che si china sull’uomo per sorreggerlo durante il percorso della vita, come suggeriscono le splendide rappresentazioni dei Carracci? No. Caravaggio non vuole rappresentare uno spazio illimitato in cui i dubbi e le angosce sono superate nel piacere di una pienezza di senso e nella contemplazione della bellezza dello spettacolo del mondo. Non si tratta nemmeno di trasformare lo spazio ordinato, unitario e oggettivo del Cinquecento in spazio infinito e in continuo divenire. Se il mondo del Rinascimento aveva un centro con limiti definiti e misurabili, ottenuti grazie alla prospettiva, Caravaggio rappresenta spazi ciechi e senza profondità, in cui la luce non crea un centro ma numerosi centri senza relazioni apparenti. Spazi cupi, oscuri, difficilmente definibili nella pressoché assenza di elementi architettonici. Spazi d’ombra, indefiniti e insondabili.

Così, nella Vocazione, la luce non si diffonde uniformemente, ma si concentra in modo diseguale sui volti, sulle mani, sulle stoffe. Perdita di centro, di un’unità per secoli affermata e sostenuta. L’attenzione dello spettatore non si focalizza su un personaggio preciso, ma deve percorrere la composizione da un punto all’altro, per tracciare il legame invisibile che unisce i diversi personaggi. Anche la ripartizione in quattro zone del chiaroscuro, creando un’alternanza di luce e di ombra, appare concepita in modo indipendente dalla logica di rappresentazione della scena8. Così il Cristo, che occupa un posto centrale nel racconto evangelico e che dovrebbe essere collocato in un posto di primo piano nell’immagine, si trova in una zona d’ombra. Soltanto il profilo e il braccio destro sono in parte illuminati dalla luce. Un carattere misterioso ed enigmatico attraversa questi luoghi insondabili. Le scene sembrano dominate da una mancanza di chiarezza spaziale. Si tratta poi di interni o di esterni? Lo spazio conserva un carattere ambivalente e misterioso.

Dialettica luce-ombra

Caravaggio non rappresenta uno spazio «razionale» definito ed equilibrato nell’articolazione del disegno e della luce. Questo spazio fa difficoltà. Caravaggio rinforza i colori scuri, il nero. La scena appare avvolta da un’atmosfera di mistero, in cui i corpi escono dallo spazio d’ombra, per assumere un violento rilievo plastico. Caravaggio instaura un nuovo regime dei colori e della luce. Al fondo di gesso che preparava la stesura dei colori, Caravaggio sostituisce un fondo scuro rosso-bruno, sul quale pone le ombre più forti o le luci più violente. Il chiaroscuro passa da un massimo di luminosità a un massimo di oscurità, attraverso una molteplicità infinita di passaggi e di gradazioni di toni, attraverso una progressione infinita della luce. Tutto si distingue dal grado. Tutto differisce dal modo. Il quadro cambia statuto. Le figure emergono dal fondo, come se gli appartenessero. Anche i colori scaturiscono dal fondo, come se fossero testimoni della natura oscura dalla quale sorgono. C’è un’inseparabilità del chiaro e dell’oscuro. È come se la luce e le tenebre appartenessero allo stesso luogo indistinto da cui scaturisce la dialettica cosmica.

La scena caravaggesca si concentra sulla luce, manifestazione della presenza divina. D’altronde, il simbolismo della luce rinvia a un aspetto fondamentale dell’estetica cristiana. Una visione metafisica della realtà e una preoccupazione teologica sono all’origine della formulazione dell’estetica medievale, legata alla ricerca della bellezza come criterio oggettivo per la salita dell’uomo verso Dio. La luce occupa un posto centrale nella concezione neoplatonica. Se Dio è luce e bellezza infinita, l’universo si manifesta come una cascata luminosa che sgorga dalla sorgente primigenia, secondo un meraviglioso irradiamento che si materializza in tutti gli enti della creazione. Dio, l’Altissimo, l’Immutabile, il Trascendente, accorda a tutta la creazione, secondo diversi gradi d’intensità, una partecipazione di se stesso9.

In termini figurativi, questa luce soprannaturale che avvolge e illumina ogni realtà umana prende corpo nel caldo colore dell’oro, che ben si presta a creare un’atmosfera mistica e soprannaturale. L’oro diventa il simbolo dell’incorruttibile, della forma senza forma, dell’assolutamente semplice, della manifestazione visibile del sacro. Della verità e dell’autentica coerenza di tutte le cose. L’ordine della grazia avvolge l’ordine della natura. Natura praeambula est ad gratiam. Si tratta della discesa dell’eternità nel tempo, in cui tutte le leggi della storia e della natura sembrano cancellate. La teofania dell’oro permette in questo modo la manifestazione di un mondo che assembla nell’unità ogni realtà, riconducendola a Dio stesso. Certo, grazie a Giotto e soprattutto al Rinascimento italiano, la luce è studiata come fenomeno fisico che permette la percezione della realtà sensoriale. Occorre dunque analizzarne i riflessi, le vibrazioni, le modalità d’irradiamento nella densità dell’atmosfera. Tuttavia, la dimensione simbolica della luce costituirà sempre una componente fondamentale10, sia essa posta in relazione al lumen intellectuale, grazie al quale l’anima può salire fino all’Uno, principio di ogni luce, o all’eros platonico (identificato con la caritas cristiana) o alle forze spirituali e magiche che si liberano dal mondo caotico della natura.

Nei quadri del Caravaggio, un raggio luminoso irrompe nella scena, come se potesse arrestare il tempo per un istante, per una frazione minimale di tempo, quasi fosse un fotogramma. Raggio che sembra emettere una luce breve e accecante, per poi scomparire subito dopo, quasi potesse lasciare la scena nell’oscurità in cui era immersa. L’irruzione improvvisa e inattesa della luce crea un’atmosfera di sospensione che concentra l’attenzione sull’azione. Nella Vocazione, sul dialogo tra Cristo e Matteo. È il momento di massima intensità spirituale. Istante di dramma. Un legame inseparabile tra la luce che scende dall’alto e il Cristo che entra nella scena sembra stabilito. L’irruzione del Cristo nella scena è l’evento dell’unità della Luce-Grazia con Gesù di Nazaret. È l’irruzione del Cristo-Luce nella vita di un uomo: «Seguimi! Chi, Io? Proprio Io?». Lui, il pubblicano, è chiamato. La vita di Matteo è sospesa a una parola, a una decisione. Nel divenire di questa luce, non c’è che l’istante strappato all’oscurità e al silenzio. La luce arresta un momento particolare, irripetibile. Momento della più grande intensità esistenziale. È la rappresentazione del dilemma tra autenticità e finzione, verità e artificio. Momento di dubbio. Si tratta dello stesso dramma tra «essere o non-essere» di Amleto?

Ogni svolgimento naturale della storia è interrotto, sospeso. La pittura di Caravaggio non può essere tradotta con un semplice ragionamento. Il suo discorso è incompleto, irregolare, discontinuo. C’è soltanto l’avvenimento inatteso del gesto di Cristo. L’apparire improvviso della luce. Dopo questa chiamata, ci sarà l’obbedienza o il rifiuto, il sì o il no. Non è tuttavia possibile dedurre una risposta. Non si tratta di giustificare o di capire, ma di credere. Si comprende l’importanza dello sfondo nero. Se Caravaggio rinforza il nero, come dice Bellori, che separa e stacca violentemente le figure dal fondo, è per ottenere un effetto visuale, avente il fine di sottolineare un’emergenza e un sorgere che nasce dall’irruzione della luce. Se il fondo diventa nero, soltanto il raggio di luce può illuminare la forma. Ma questa forma è l’uomo stesso che si presenta sulla scena della vita nella verità della propria esistenza. L’emergenza del rilievo sul fondo non è dunque funzione di una relazione spaziale, ma di un nuovo ordine spirituale e interpersonale.

Spazio della coscienza

Lo spazio caravaggesco supera la definizione di una struttura spaziale organica e unitaria. Non è facilmente identificabile. Le coordinate cartesiane non saprebbero giustificarlo. Si tratta di uno spazio reale e simbolico allo stesso tempo, in cui i personaggi sono chiamati a confrontarsi con il passaggio di Dio nella loro storia. Se la luce che scende dall’alto crea numerosi centri senza relazione apparente, la scena della Vocazione diventa un luogo di peccatori in cui ciascuno è chiamato a una risposta personale. Universo interiore e non solo fisico, dunque, che separa i dannati dai salvati, i beati dai maledetti. Universo, in cui è rivelata la verità di ogni uomo. Così, quando questo raggio fa irruzione nella scena, il vecchio e il giovane continuano a contare il denaro. La bramosia e l’avidità rendono l’uomo cieco di fronte all’irrompere della luce. Per gli altri, questa luce conduce a una decisione, a una scelta tra la vita e la morte, tra la libertà e la schiavitù. La Vocazione diventa un dramma vissuto nella vita quotidiana, la rappresentazione del giudizio tra coloro che hanno accettato di essere i protagonisti della loro storia, sollevando il volto di fronte alla luce, e coloro che al contrario hanno vissuto soltanto l’indifferenza di una penombra.

Uomo irrimediabilmente perduto nell’oscurità di un universo senza confini? No, la luce permette di riconoscere un senso. L’uomo smarrito nelle tenebre di un universo indefinito può trovare una risposta mediante la luce della grazia, attraverso l’incontro di un uomo. Il Cristo entra nella storia di ciascuno, nell’oggi della sua vita. L’assoluto si manifesta nella relatività di un fatto quotidiano. La contingenza è innalzata all’universalità. Caravaggio toglie così alla rappresentazione ogni carattere trionfalistico e soprannaturale e la lascia all’attualità di tutti i giorni. Lo spazio sacro è trasposto all’interno della coscienza dell’uomo che incontra Dio il quale chiama a seguirlo. Dio si rivela, chiamando, strappando così l’uomo all’oscurità del non senso. E la sequela comporta un passaggio attraverso la morte. Caravaggio situa la mano destra di Cristo perpendicolarmente alla croce disegnata dai telai incrociati della finestra. Il gesto della mano è così visualmente messo in rilievo non solo dal chiaroscuro, ma anche dal disegno della croce che simboleggia la morte del Figlio di Dio11. Come se quest’uomo chiamasse Levi a seguirlo, fino al dono della sua stessa vita.

Messaggio ben diverso dall’ideale eroico della Riforma cattolica, che aveva rappresentato gli slanci, le estasi dei santi, in un contesto melodrammatico di esaltazione dei sentimenti. L’eroismo di Matteo è legato a un concetto di santità che si definisce in relazione all’incontro col Cristo. L’apostolo non si alza con slancio, come suggerisce il Contarelli, ma vive fino in fondo il punto culminante della sua esistenza, in tutta la sua drammaticità, nella sua offerta e nel suo rischio. La posizione di Caravaggio è rivoluzionaria. L’arte non è nobile per la perfezione dei suoi contenuti, ma per la sua capacità di rappresentare l’uomo di fronte alla capacità di vivere fino in fondo il dramma della propria coscienza, di rispondere al Cristo che chiama. Certo, il Cristo si fa presente a tutti gli uomini, ma occorre riconoscerlo, perché l’istante si trasformi in quello della grazia, della comunicazione di Dio all’uomo.

È stato più volte sottolineato come questo raggio di luce sembri apparire per scomparire immediatamente. Come un flash che illumina e si ritira. Il Cristo si mostra in una condizione di passaggio. È colui che passa. Si tratta di un aspetto specifico dell’opera di Caravaggio. Se il fondo oro sottolineava l’entrata dell’eternità nel mondo per trasfigurarlo, per Caravaggio il tempo diventa la grazia, fatta all’uomo, dello svelamento di Dio come passaggio nel mondo. Diventa l’istante di un raggio di luce che ha il potere di ritirarsi. Si tratta del passaggio dell’alternanza di un pieno e di un vuoto, di una luce e di un’ombra, dell’irruzione di una parola e di un silenzio. Ma dopo questo passaggio, il vuoto e l’ombra che riconquisteranno simbolicamente la scena della vita umana non sono più semplicemente un segno negativo, un’oscurità o un silenzio che rimettono ogni cosa nell’indeterminato. Cristo passa nella storia dell’uomo, per trasformare la sua vita, perché possa convertirsi e seguirlo. Perché possa ricevere la luce della grazia. Così Matteo, Paolo, Maddalena, Pietro… Essere chiamati significa essere creati, nascere, passare dalle tenebre alla luce. Si tratta dell’avvenimento dell’unità della vita e della morte perché la vita possa trionfare. Da questo momento Levi si chiamerà Matteo: la sua nuova identità di credente.

 Caravaggio e modernità

Dopo la morte di Caravaggio, questa straordinaria tensione sarà spesso oggetto di equivoci. La luce perderà progressivamente il suo carattere simbolico, per trasformarsi semplicemente in luce fisica, della nostra esperienza visiva e sensoriale, che permette la visione della natura che ci circonda, grazie all’organo dell’occhio, alla retina. Se il Cristo-luce irrompe nella nostra vita soltanto per la durata di un istante, il mondo sarà sempre più lasciato alla sua profanità, alla rappresentazione fenomenica delle cose reali ed esistentisenza ideale e senza religione, come direbbe Courbet. A distanza di secoli, il mondo rappresentato dall’Impressionismo non sarà forse quello dello studio della natura, della realtà sensibile, nella messa tra parentesi di ogni carattere teologico? Lenti passaggi, attraverso l’arte olandese del Seicento, gli studi del vedutismo veneziano, il realismo francese… Come dimenticare le splendide rappresentazioni di un Vermeer che sembrano anticipare alcune conquiste dell’Impressionismo, dal punto di vista della percezione dell’associazione dei colori e della resa della vibrazione della luce? Frammenti di vita quotidiana, istanti di luce che si concretizzano in evidenza della materia.

Da un punto di vista teologico, questo raggio della «presenza» che attraversa il tempo e gli spazi della vita umana sembra percorrere un cammino che condurrà alla sua sparizione. La luce degli Impressionisti si trasformerà in luce fisica che illumina gli oggetti, scomponendosi nei diversi colori. Tutto ciò che l’uomo vede è luce e colore. Che si tratti dell’una o dell’altra, cambiano continuamente, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, relativamente alla posizione della sorgente luminosa e al punto di vista dell’artista. Ma se il raggio di luce scompare, il mondo sarà illuminato soltanto dalla luce fenomenica, nel suo divenire e nel suo flusso continuo, nella rappresentazione di un istante tratto dal perpetuum mobile della vita, della sua atmosfera, della decomposizione e delle vibrazioni della luce a partire dalla visione dinamica del soggetto. Il fondo oro del Medioevo rappresentava l’essere nella sua trascendenza e immobilità. La luce fisica e nello stesso tempo simbolica del Rinascimento rappresentava una realtà in cui l’Essere e il fenomeno erano strettamente legati. L’opera del Caravaggio segna una rottura: se il raggio di luce ha la durata di un istante, la realtà non potrà essere percepita che nella sua piena autonomia, per diventare spazio della contingenza e della storia. Si potrebbe parlare di secolarizzazione?

Se questo raggio di luce passa per la durata di un istante, l’arte rappresenterà la vita umana in tutta la sua contingenza e temporalità. Il mondo della sorpresa e del dubbio, dell’uomo alla ricerca di un senso.

 1 La bibliografia sull’artista è sterminata.

Tra i numerosi testi, ci limitiamo a citare C. BAGLIONI, Le vite de’ pittori, scultori, architetti e intagliatori dal pontificato di Gregorio XIII dal 1572 fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1641, Roma, 1642; G. BELLORI, La vita de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma, 1672; W. FRIEDLAENDER, Caravaggio Studies, Princeton (New Jersey), University Press, 1955; G. C. ARGAN, «Il realismo nella poetica del Caravaggio», in Scritti di storia dell’Arte in onore di Lionello Venturi, Roma, De Luca 1956; G. MANCINI, Considerazioni sulla Pittura, a cura di A. MARUCCHI – L. SALERNO, 2 voll., Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956-57; R. LONGHI, Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1968; M. MARINI, Caravaggio e il naturalismo internazionale, vol. VI/1, Torino, Einaudi, 1981, 345-445; M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990. Per una lista dei testi fondamentali su Caravaggio rinviamo a M. CINOTTI, Caravage, Paris, Biro, 1991; M. GREGORI «Caravaggio, La Tour, Rembrandt, Zurbarán: ombra e luce», in La luce del vero. Caravaggio, La Tour, Rembrandt, Zurbarán, Cinisello Balsamo (MI), Silvana, 2000.

2 Troppo lungo sarebbe tracciare il percorso con il quale la letteratura artistica ha trasformato Caravaggio in un pittore violento, stravagante, ribelle, che, cancellando ogni idealismo e ricerca di bellezza, si sarebbe consacrato al culto della realtà, per metterne in evidenza il carattere tragico. Soprattutto nell’Ottocento, sulla scia dei poètes maudits, Caravaggio è stato trasformato in pittore «maledetto», precocemente geniale, sempre tentato dalla follia e dalla violenza, alimentando un’immagine romanticamente fantasiosa. La sua assenza di pregiudizi e la sua libertà di fronte alle interpretazioni dei valori religiosi dell’epoca sono così divenute espressione di desacralizzazione, di violenza critica verso le disposizioni tradizionali della Chiesa sull’immagine. La violenza polemica della pittura di Caravaggio dev’essere situata nel contesto del suo ambiente artistico, culturale e religioso. Secondo i contemporanei, la sua pittura si fonda su un naturalismo finalizzato all’imitazione diretta della natura, di fatti particolari tratti dalla realtà umile e semplice del mondo quotidiano. Tuttavia, se da un lato apprezzano l’abilità a imitare la natura e i suoi colori, dall’altro ne deplorano la mancanza d’invenzione, di decoro, di disegno e di scienza della pittura. Secondo queste biografie, le sue rappresentazioni sono volgari e senza bellezza. Le sue composizioni sono dipinte direttamente sulla tela contro ogni regola di pittura, sottostimando il valore metafisico del disegno interiore, dell’idea. Il rifiuto di ogni preoccupazione per la dignità dei personaggi è all’origine di rappresentazioni deplorevoli e scandalose che non si conformano che agli aspetti più brutti e volgari della natura. Questi tratti ne faranno nel XIX secolo un artista che, in rapporto all’atteggiamento contemplativo dell’arte classica, saprà spogliare la realtà da ogni significato trascendente per denunciarne il carattere di violenza e di sofferenza. Caravaggio costituirà un punto di riferimento per il Seicento. La sua pittura esplorerà soluzioni difficili e radicali che saranno riprese dai suoi seguaci ma, spesso, soltanto nei suoi aspetti più esteriori e superficiali. L’opera di Caravaggio ha bisogno di un approccio critico, che tenga conto di diversi aspetti teologici e filosofici, che solamente in questi ultimi anni sono stati affrontati in modo significativo.

3 La storia della cappella è ricca di vicissitudini. Acquistata nel 1565 da Matteo Contarelli (il francese Matthieu Cointrel), la tela è dedicata all’evangelista Matteo. Caravaggio intervenne tra il 1599 e il 1602, grazie all’appoggio del cardinale Francesco Maria del Monte, rappresentante italiano della nazione francese. Per la bibliografia sugli studi della Cappella Contarelli, rinviamo a D. PONNAU, Caravage. Une lecture, Parigi, Cerf, 1993, 130.

4 Per le vicende contrattuali della decorazione della cappella cfr M. MARINI, Caravaggio, «pictor praestantissimus»L’iter artistico completo di uno dei massimi rivoluzionari di tutti i tempi, Roma, Newton & Compton, 2001, 431-441.

5 A partire dalle somiglianze tra il volto di Matteo e i ritratti di Enrico IV, re di Francia, il dipinto è stato interpretato come conversione del re francese dal movimento religioso degli ugonotti alla fede cattolica. Dobbiamo ricordare che la chiesa di San Luigi è la chiesa nazionale dei francesi (anche i costumi dei personaggi rappresentati da Caravaggio sono “alla francese”). Riferimento esplicito all’attualità degli avvenimenti che vedono al centro l’editto di Nantes del 1598, secondo il quale Enrico IV concede ai sudditi la libertà di coscienza? Cfr V. FANTUZZI, «La morte per decapitazione nei dipinti del Caravaggio. Una conversazione con Dario Fo», in Civ. Catt. 2004 II 259-272.

6 Cfr E. PANOFSKY, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1987.

7 Cfr P. GISEL, La création. Essai sur la liberté et la nécessité, l’histoire et la loi, l’homme, le mal et Dieu, Genève, Labor et Fides, 1980.

8 Cfr G. A. DELL’ACQUA – M. CINOTTI, Il Caravaggio e le sue grandi opere da San Luigi dei Francesi, Milano, Rizzoli, 1971.

9 Cfr U. ECO, Il problema estetico in S. Tommaso, Cuneo, Edizioni di Filosofia, 1956; J.-M. TÉZÉ, Théophanie du Christ, Paris, Desclée, 1988; C. RAYMOND, Sagesse de l’Art, Paris, Méridiens Klincksieck, 1987.

10 Vedi, per esempio, G. P. LOMAZZO, L’Idea del Tempio della Pittura, Milano, 1590.

11 Cfr M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990.

 La Civiltà Cattolica

Immagine: La vocazione di Matteo, Caravaggio



 


lunedì 13 giugno 2022

GIUSTIZIA E MISERICORDIA


“Sebbene giustizia sia ciò che chiedi,

considera questo, secondo giustizia nessuno di noi

vedrebbe salvezza; noi chiediamo misericordia

e quella stessa preghiera insegna a noi tutti

a compierne gli atti.”

(Shakespeare, Il mercante di Venezia)

  - di Roberto Cociancich

Napoli, una sera di gennaio dell’Anno del Signore 1607. Avvolto nel suo scuro mantello Padre Vincenzo si affretta sui ciottoli del vicolo che conduce al Pio Monte della Misericordia. La luce della Luna trapela fra le nuvole e si allungano furtive ombre notturne: figure di una umanità ricurva alla ricerca di un giaciglio si muovono con rassegnata indolenza. Saranno pochi, stanotte, coloro che potranno permettersi una locanda: per i più il riparo sarà il portico di una chiesa, più probabilmente un tetto spiovente all’angolo di una piazza. Il frate spinge il pesante portale del palazzo e si incammina verso la scalinata che conduce alla Quadreria. Una donna, una zingara gli passa accanto e senza degnarlo di un saluto si intrufola di corsa verso l’uscita. “Che strano – mormora fra sé il religioso – cosa ci fa una malafemmina a quest’ora in questo luogo? Dovrebbe essere vietato…” La torre campanaria scandisce sette rintocchi con suono cupo e sordo. “Sono in ritardo, speriamo che il pittore non se ne sia già andato…” . Giunto in cima alla scalinata apre una porta di legno che lo introduce ad un lungo corridoio verso l’appuntamento. “D’altronde, andato dove? Mi sembra un disperato, un poveraccio, un uomo in fuga, non credo abbia alternative se non stare qui da noi”. La sala è immersa nell’oscurità, sulla parete di fondo giace la grande tela ancor fresca dei colori ad olio stesi dal pittore. Sul lato opposto una piccola lucerna illumina debolmente una figura rannicchiata su se stessa, un uomo accovacciato e meditabondo che sembra non far caso all’arrivo del sacerdote. “Ah, ecco il famoso artista” pensa Padre Vincenzo “ecco il celeberrimo e al tempo stesso famigerato Michelangelo Merisi che si fa chiamare Caravaggio”. Il pittore alza il volto e mostra uno sguardo di brace ma al tempo stesso disilluso e stanco.

“Avete portato il denaro, Padre?”.

“A cosa vi riferite?” risponde il prete.

“Non fate il furbo con me, sapete bene a cosa mi riferisco: la paga che mi avete promesso, anzi che Vi siete impegnati a darmi con tanto di contratto e altri biscazzi da legulei: 470 ducati tondi tondi…”

“Non penserete che possa portare con me una simile somma di danaro” – dice Padre Vincenzo ma poi soggiunge: “Ma non Vi preoccupate: domani l’avrete”.

 

“Padre, il mio lavoro l’ho fatto, non mi fate scherzi se non volete che ne faccia anche un altro…. sapete che ne sono capace “aggiunge con tono minaccioso mentre con la mano sinistra solleva leggermente la giubba. La lama affilata di un coltello brilla nell’oscurità.

“Calma, calma figliolo, Vi accendete come un fiammifero! Io sono un frate, un uomo di Dio, potrete bene fidarvi di un uomo di Dio, no? Perché dubitate di me? non avete rispetto per la tonaca che porto?”

“ Padre, io non mi fido di me stesso, figurarsi di un prete!” e scoppia in una risata sarcastica. “Quanto alla Vostra tonaca io la rispetto ma mi fa anche orrore”.

“E per quale ragione Benedetto Iddio?”

“Da quando il Vostro Capo, il grande pontefice bianco che se ne sta a Roma nei suoi palazzi decorati di oro, ha emesso il decreto che chiunque lo voglia mi può spiccare dal tronco la testa io vivo nell’orrore e nell’angoscia”.

“Si lo so, il Papa ha emesso questa sentenza ma Voi avete ucciso un uomo!”

Un ghigno si allarga sul viso del Caravaggio: “Forse più d’uno padre, più d’uno…. e potrei non avere finito la serie…” Poi facendosi serio e grave aggiunge: “Era malvagio, uno che approfittava della sua ricchezza per sfruttare ancor di più i poveracci, gente come quella con cui sto io, che non ha i denti neppure per mangiare il pane ma questo poi non è un gran problema perché tanto il pane non ce l’ha. Voi, che vivete protetto da queste mura, neanche ve lo immaginate di quanti si sono approfittati di me, con i trucchi o la prepotenza e la forza dei loro sgherri. E’ facile per chi è ricco ottenere ragione perché nel nostro tempo chi è ricco ha sempre con se la forza del potere e chi ha ragione è quello che è più forte e ha più potere mentre quello che le busca ha sempre torto. Dov’è la giustizia? Io quello l’ho sbudellato ecco tutto, la giustizia gliela ho cavata fuori io…”.

È stato scritto sulle Tavole: non uccidere. Nulla di quel che avete detto può giustificare l’uccisione di un uomo”.

“E cosa, dunque, vi autorizza a giustificare la mia? Decapitazione! DE-CA-PI-TA-ZIO-NE, – scandisce Caravaggio facendo un ampio segno attorno alla gola –  questo sta scritto nella sentenza che mi riguarda. Chiunque, chiunque ne abbia voglia, piacere o interesse può tagliarmi la testa e ne avrà per ricompensa il plauso del Santo Pontefice. Anche Voi, magari per risparmiare i 470 ducati che mi dovete. Io sono un morto che cammina, ogni tocco di campana che odo dalla torre potrebbe essere l’ultimo, ogni ombra che esce dalla strada quella del mio carnefice. Voi non sapete cosa ciò significa: la vita è per me solo angoscia, anzi un calvario che anticipa un supplizio finale, quando finalmente qualcuno tirerà fuori la spada e metterà la mia testa in un cesto”. Il Caravaggio tira fuori la lingua e rotea gli occhi agitando le mani vicino alla testa simulando il singulto che il condannato esala insieme al suo ultimo respiro. Sembra lo sguardo della Medusa pieno di terrore e sorpresa nel momento in cui Perseo le mozza il capo. Poi si ferma di colpo, come pietrificato dal suo stesso sguardo. Lacrime gli rigano in volto che da truce torna ad essere miserevole e lo sguardo quello di un bambino che chiede compassione.

“Via via, non fate così, dice Padre Vincenzo, qui nessuno Vi vuole fare del male e siete al sicuro. Domani Vi darò la paga e voi avrete tutti i soldi che vi servono per fare della Vostra vita qualcosa di buono. Sempre che lo vogliate veramente. Ma ricordate: ciò che importa è la salvezza dell’anima. A che serve l’integrità del corpo se l’anima è malata o perduta? Dovreste considerare questa vostra sofferenza interiore come un dono della Chiesa che vi consente di ritrovare la via perduta, la rettitudine di vita, il discernimento tra ciò che è giusto per l’uomo e ciò che è disordine, perdizione.”

Risponde Caravaggio: “Belle parole ma, vede Padre, temo che sia troppo tardi,  la mia vita è andata come è andata, sono solo l’ombra di ciò che sarei potuto diventare, ho cercato la luce ma sono condannato a rifugiarmi nelle tenebre, unica mia sicurezza. Per i poveracci come me, credetemi, le belle parole eleganti della liturgia, la sapienza dei confessori, la saggezza dei libri di morale sono semplicemente un lusso che non ci si può permettere. I vostri sermoni, non li discuto, saranno buoni ma non mi toccano il cuore. Sento invece il ferro della spada che mi cerca il collo, lo sento giorno e notte e già mi ha tolto il respiro anche se ancora cammino.”

Padre Vincenzo risponde: “Non è mai troppo tardi, c’è sempre un tempo, uno spazio, un attimo in cui tutta la nostra vita può cambiare; ricordate le parole di Sant’Agostino: Fra l’ultimo nostro respiro e l’inferno, c’è tutto l’oceano della misericordia di Dio”.

Replica Caravaggio: “Ah certo, l’inferno e la misericordia di Dio… Dio ci ama? questo desidero tanto crederlo anch’io. So per certo che sono gli uomini che non si amano e non si portano misericordia”.

 Il frate rimane in silenzio per qualche istante e poi commenta: “L’amore tra gli uomini non nasce spontaneo, bisogna educarne lo sguardo. Il rischio è quello di rimanere solo bestie, di guardarci gli uni come prede degli altri. Se guardo al mio prossimo solo come a qualcuno che può servire ai miei scopi egli resta per me una preda (ma anche io rimango una bestia), se invece lo guardo come qualcuno a cui voglio servire egli diventa un fine, una meta e torna ed essere un uomo (e anch’io riacquisto la mia umanità)”.

“Siete abile con le parole Padre ma alla gente esse non bastano, vuole i fatti, le opere.”

“Questo è il motivo, replica Padre Vincenzo, per il quale Vi abbiamo chiesto di realizzare  questo dipinto e di tratteggiare in esso le opere della misericordia affinché per il tramite della Vostra arte fossero di ispirazione per i fedeli e adornassero questo santo luogo”.

 “E’ quello che ho fatto, Padre” – dice il Caravaggio avvicinando la lampada alla tela. “Vedete, esso è diviso in due parti: in quella superiore sta la Vergine Santa con il Suo Figlioletto in braccio; sono sorretti da due angeli con grandi ali. Nella parte inferiore c’è una moltitudine confusa di donne e uomini. Qui nella parte destra, dietro le sbarre, sta Cimone condannato a morte per fame e a cui la figlia Pero fa visita e offre il seno per nutrirlo. In questo modo ho descritto il precetto di visitare i carcerati e dare da mangiare agli affamati.  Vicino a loro un uomo porta a sepoltura un cadavere di cui si vedono i piedi avvolti nel sudario (dare sepoltura ai morti). Al centro San Martino dona il suo mantello al povero (vestire gli ignudi) e poco più in là un uomo che ospita a casa propria un pellegrino in cammino verso Santiago; infine, Sansone che beve dalla mascella d’asino (dar da bere agli assetati). Ecco dunque Padre raccolte, come desideravate, le sette opere di misericordia raccomandate dalla Chiesa in unica immagine. Siete soddisfatto?”

Padre Vincenzo non risponde e osserva a lungo in silenzio il dipinto. Ne è per certi versi ammirato e per altri disturbato. E’ molto diverso da quello che si aspettava. Non tanto perché non fa alcun cenno all’attività caritativa del Pio Monte della Misericordia (anche se sa bene che i suoi superiori non avrebbero mancato di farglielo presente)  e neppure perché il volto della Madonna è senza dubbio alcuno quella della prostituta incontrata sulle scale ma perché coglie una forza polemica dalle figure ritratte che lo disorienta. Alla fine commenta: “Si, è un dipinto complesso, ha una sua forza ma qualcosa mi sfugge: perché nessuno sorride? perché nessuno di questi uomini e nemmeno quella donna che offre il seno appare felice, contento di un gesto di misericordia che pure lo nobilita? Perché nessuno scambio di sguardi? Perché nessuno si rivolge al cielo? Sembrano due mondi distanti. La presenza divina c’è ma nessuno pare accorgersene.  Anzi a ben guardare trovo una ambiguità in queste figure umane: davvero san Martino offre il suo mantello? sembra quasi volerlo trattenere mentre l’uomo nudo glielo vuole strappare. E questa donna con la gonna rialzata sta davvero compiendo un gesto di misericordia? A me sembra altro, non mi faccia dire cosa   Sorride il Caravaggio: “Padre Voi  avete un occhio acuto ma il significato di un’opera dipende anche da chi la osserva. Fate anche Voi uno sforzo: sollevate lo sguardo verso il cielo. Vedete la Vergine? guardate con quanto amore, con quanta tenerezza tiene il Bambino. Non è questa una bella immagine della misericordia celeste di cui tanto mi avete parlato? e guardate il sorriso del Figliolo: non è forse velato di benevolenza verso gli uomini che si affannano? Io ve l’ho detto: la vera misericordia viene solo da Dio; gli uomini sono capaci di beneficienza ma l’amore, la misericordia quella no, non sanno neppure dove abiti. Credetemi, a differenza Vostra che passate le serate in preghiera tra gli incensi e i pensieri spirituali, so di cosa parlo perché la mia vita l’ho passata tra i ladri e le prostitute e se non avessi imparato ad usare il pugnale oltre al pennello non potrei essere qui a disquisirne con Voi. La vita è lotta, sangue, conflitto, passione, amore carnale, tradimento. Dio ci ama ma a noi non interessa, noi siamo quaggiù a pugnalarci nelle tenebre, non abbiamo neanche il tempo per guardare la luce del cielo. Cerchiamo la giustizia ma troviamo solo il diritto, vorremmo la pace ma otteniamo solo una tregua”.

 Risponde Padre Vincenzo: “Certo, la fonte di ogni bene è in Dio. Solo da lui viene il vero amore,  la vera misericordia. Sta però anche scritto : Et misericordia a progenie in progenies, timentibus eum – vale a dire: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Dunque la misericordia di Dio è come una rugiada che disseta nell’alba le nostre vite inaridite. Non siamo stati creati solo per la morte né per camminare solo sulla Terra. Abbiamo una speranza più grande. Un destino celeste. Siamo uomini ma non solo. Cosa mi dite di questi angeli che avete dipinto al centro? Sembra che stiano lottando”.

 Così risponde Caravaggio: “Sono due angeli, uno con le ali bianche, l’altro con le ali nere. Quest’ultimo tende le braccia verso il basso, forse sta precipitando, vorrebbe scendere sulla Terra, condividere il destino degli umani, le loro gioie e le loro sofferenze. Stare in cielo forse gli dà noia. L’altro lo trattiene, vuole evitare che egli cada. A parte le ali sono uguali fra loro. Forse sono la stessa creatura. Forse in ciascuno di noi, sicuramente in me stesso, c’è un angelo nero e un angelo bianco. La lotta che Lei intravede, Padre, è in noi stessi. Siamo angeli neri, angeli ribelli. La misericordia di Dio Padre ci spinge a scendere tra gli uomini; condividerne il destino ci rende fragili, infelici, mortali. Vorremmo aggrapparci al cielo ma non possiamo fare altro che cadere”. Padre Vincenzo annuisce e recita: “Signore non sono degno di partecipare alla Tua mensa ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”.

 Cala fra loro un lungo silenzio. L’uomo di preghiera e l’artista maledetto, uno di fronte all’altro. “Chi di noi è più bisognoso della misericordia di Dio?” sembrano domandare i loro sguardi.  “Amen” dice Padre Vincenzo, “Amen” conclude Caravaggio.

 Roberto Cociancich


 RS Servire