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sabato 10 maggio 2025

GESU', IL PASTORE


 Nelle mani di un Agnello



IV domenica di Pasqua


Giovanni 10,27-30 (At 13,14.43-52; Ap 7,9.14-17)

In quel tempo Gesù disse:" 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Commento di Luciano Manicard

L’accento della quarta domenica di Pasqua di ogni annata liturgica cade sempre su Gesù pastore. Il Gesù che ha guidato i suoi discepoli, “il piccolo gregge” (Lc 12,32), facendo di loro una comunità, è anche il Risorto che dona loro la vita eterna: questo il messaggio della pagina evangelica (Gv 10,27-30). La seconda lettura (Ap 7,9.14-17) afferma che il Risorto è Pastore e Agnello al tempo stesso; anzi, è Pastore perché Agnello, ovvero, è Colui che guida i credenti alla vita piena grazie alla sua passione, morte e resurrezione. Infine, la prima lettura, tratta come sempre durante il tempo di Pasqua dagli Atti degli Apostoli, mostra il Risorto che continua a esercitare nella storia le sue funzioni di pastore, cioè a formare comunità e a guidare e nutrire le sue “pecore”, attraverso l’attività apostolica di predicazione della Parola di Dio (At 13,14.43-52).

L’Agnello

“L’Agnello sarà il loro pastore” (Ap 7,17): la pagina dell’Apocalisse è particolarmente interessante e intrigante presentando il Cristo risorto al tempo stesso come pastore e come agnello. Siamo al cuore dell’ossimoro in cui consiste la rivelazione cristiana: Dio si fa conoscere pienamente nell’uomo Gesù di Nazaret, il salvatore del mondo è l’impotente appeso alla croce, il Signore dell’universo è il servo di tutti, il pastore è l’agnello. Già il IV vangelo aveva riferito a Gesù i titoli di agnello e contemporaneamente di pastore: Gesù è “l’agnello di Dio” (Gv 1,29.36) ed è il pastore autentico, “il buon pastore” (Gv 10,11.14). E come l’evangelista aveva mostrato il Risorto segnato dalle ferite della crocifissione (Gv 20,20.27), così il veggente di Patmos parla dell’“Agnello ritto in piedi come ucciso” (Ap 5,6).

Il Crocifisso-Risorto è l’Agnello-Pastore.

Tuttavia, l’espressione certamente paradossale può perdere il suo aspetto sconcertante e urtante e mostrare la sua potenza rivelativa se si pensa che l’attributo di pastore nell’Antico Testamento, quando non designa pastori di greggi e quando non è riferito a Dio, ma a capi, soprattutto politici e militari, del popolo, indica dei “cattivi” pastori. E i pastori, le guide del popolo sono “cattive” quando vengono meno al loro compito di servire il gregge e invece se ne servono; quando non lo nutrono ma lo affamano; quando non lo conducono al pascolo o all’ovile ma lo disperdono; quando non lo curano ma lo lasciano perire; quando non lo proteggono ma lo consegnano in balìa di animali feroci e di ladri. Basti una citazione tratta da Geremia: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati” (Ger 23,1-2). La domanda che sorge, e che riguarda chi detiene posti di autorità e responsabilità nello spazio politico e civile, ma in particolare nell’ambito ecclesiale è: come liberare l’esercizio dell’autorità dal rischio dell’abuso di potere? E poiché la mens abusante si esprime a trecentosessanta gradi, l’abuso di potere acquista molte e diversificate sfumature e diviene polimorfo.

Ora l’insegnamento insistente di Gesù ai suoi discepoli, e a noi con loro, riguardo a chi detiene responsabilità nella comunità e dunque svolge un compito pastorale nella chiesa, è: chi è primo sia l’ultimo di tutti, chi governa sia il servo di tutti, il più grande sia lo schiavo di tutti (cf. Mt 20,26-27; Mc 10,43-44; Lc 22,26). La proclamazione che Gesù è pastore in quanto agnello dice esattamente questo. Lui, il Signore, il più grande, si è posto coscientemente e liberamente come lo schiavo e il più piccolo, vincendo in se stesso la logica che porta a spadroneggiare e ad abusare. E come le parole di Gesù ai discepoli nei Sinottici contengono una polemica contro l’esercizio del potere come dominio e sfruttamento in ambito politico (“I re delle genti le signoreggiano e coloro che hanno potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però, non così”: Lc 22,25-26; cf. Mt 20,25; Mc 10,42), analogamente i titoli che l’Apocalisse attribuisce al Risorto come “sovrano dei re della terra” (Ap 1,5), “colui che è destinato a pascere (poimaínein) tutte le genti” (Ap 12,5), contengono una critica al sistema politico imperialista e totalitario dominante all’epoca, in particolare al culto imperiale.

Il pastore

Ora, che il Pastore sia l’Agnello, significa l’integrazione della dimensione della vulnerabilità e della mitezza proprie dell’agnello nel compito di guida e governo proprio del pastore. La forza del Messia, “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5), si esprime paradossalmente nell’Agnello “ritto in piedi come ucciso”. La vera forza di chi governa consiste nell’assunzione cosciente della propria vulnerabilità e fragilità. Questa operazione, che situa la persona nella sua verità esistenziale, la pone anche empaticamente vicina alle persone di cui ha una responsabilità. A quel punto il potere viene onorato nella sua vocazione originaria purtroppo disattesa nell’accezione comune del termine per cui con esso, come si esprime il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro Che cos’è il potere, “si intende di solito la seguente relazione causale: il potere di Ego dà origine a un determinato comportamento di Alter contro la volontà di quest’ultimo. Il potere mette Ego in condizione di imporre le sue decisioni senza dover far caso ad Alter, il quale subisce la volontà di Ego come qualcosa di estraneo”. In realtà, come appare perfino all’elementare livello grammaticale, “potere” è verbo servile, che presenta dunque una contiguità, anzi, una co-essenzialità con quella dimensione di servizio che spesso è considerata agli antipodi del potere.

Il potere

 Il verbo e il vocabolo “potere” aprono delle possibilità e le rendono praticabili, sempre all’interno di quei limiti che gli impediscono di degenerare. Degenerazione che avviene quando il potere si sgancia da ogni limite e si assolutizza: da qui nascono abusi, prepotenze, prevaricazioni, controllo, manipolazione, sfruttamento e violenze. Il potere degenera quando nega la fragilità e debolezza. Primo Levi scrive che l’abbaglio del potere ci porta a “dimenticare la nostra fragilità essenziale”. Declinare il potere come dominio funziona dunque come strumento antimnemonico della nostra fragilità essenziale, che costituisce anche parte integrante della nostra condizione umana. Il potere come dominio svela così la sua qualità di menzogna, e menzogna anzitutto antropologica. Il sogno di dominio dei potenti di questo mondo diventa l’incubo delle moltitudini di poveri oppressi e perseguitati: l’Agnello-Pastore invece è capace di consolare asciugando le lacrime da ogni volto (Ap 7,17; cf. 21,4). Il “potere” dell’Agnello-Pastore è potere di consolazione (“Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”: Mt 5,4). Ma chiediamoci: chi può esprimere con questa immagine il mondo redento? Chi nella vita ha pianto e ha anche, già qui e ora, ha consolato chi era nel pianto, “piangendo con chi è nel pianto” (Rm 12,15), facendosi prossimo e asciugando le lacrime di chi si trovava nell’afflizione. Il potere rettamente inteso, il potere alla scuola del “buon pastore” va di pari passo con la compassione, con il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo. E si radica nell’amore e si esprime come amore.

L’ascolto

Questo dice anche la pagina evangelica accennando alla simbolica della mano. “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno le può strappare dalla mano del Padre mio” (Gv 10,27-29). In tantissime ricorrenze bibliche la mano indica “potenza”, “forza”, “autorità” (si pensi alla “mano forte” con cui Dio liberò i figli d’Israele dall’Egitto: Es 3,19-20). Nel IV vangelo la mano diviene il simbolo dell’amore dato e ricevuto, della relazione per cui il Padre ama il Figlio (“Il Padre ama il Figlio e ha rimesso tutto nelle sue mani”: Gv 3,35) e il Figlio “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3), compie il gesto dell’amore radicale, simbolo del dono della sua vita per i discepoli amandoli “fino alla fine” (Gv 13,1). E compie, lui il Signore e il Maestro, il gesto dello schiavo abbassandosi per lavare con le sue mani i piedi dei suoi discepoli, anche di chi si era fatto suo nemico. La mano aperta del Padre che ha donato tutto al Figlio diviene la mano aperta del Figlio che tutto riceve dal Padre e tutto custodisce e protegge, come vero e buon pastore. E diventa anche la mano che il Figlio mostra, quale Crocifisso Risorto, a Tommaso, pecora che si era distaccata dal gregge, affinché riconosca al tempo stesso l’amore del Padre e del Figlio (“Mio Signore e mio Dio”: Gv 20,28). E, chiedendogli di stendere, a sua volta, la sua mano, Gesù chiede a Tommaso di entrare nel mistero dell’amore manifestato dalla mano trafitta. Davvero, il buon pastore è colui che dona la vita per le sue pecore e proprio in questa donazione e perdita di sé egli, donando l’amore, custodisce le sue pecore nell’amore.

Monastero di Bose

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venerdì 21 giugno 2024

PERCHE' AVETE PAURA ?

    


NON AVETE ANCORA FEDE?

23 giugno 2024 

 XII domenica nell’anno

 


Vangelo: Marco 4,35-41

In quel tempo 35venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Commento di Sabino Chialà

Alle tre parabole sul seme, immagini del regno di Dio che avanza tramite la Parola, segue l’episodio della tempesta che i discepoli si trovano ad affrontare mentre, su una barca, attraversano il lago di Galilea. L’intero discorso parabolico è collocato “lungo il mare”, come specifica l’evangelista all’inizio del capitolo quarto (4,1). Ora quel mare di cui Gesù aveva frequentato le rive, perché lì aveva chiamato i suoi primi discepoli (1,16-20) e lì aveva insegnato, chiede di attraversarlo: “In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: ‘Passiamo all’altra riva’” (v. 35).

 L’annotazione temporale “in quel medesimo giorno” sembra voler legare questo episodio a quanto precede. Come se si trattasse di una spiegazione e di una verifica. Gesù ha narrato in parabole e poi spiegato ai suoi come il Regno agisce ed entra nella storia, ora chiede ai discepoli di mettersi in cammino alla luce di quanto hanno ascoltato, di prendere il largo consapevoli dell’azione della Parola. Chiede loro di compiere un passaggio, di operare un cambiamento.

 Questa è la prima traversata narrata da Marco e il primo viaggio che porterà Gesù e i suoi discepoli al di fuori della terra d’Israele, in territorio pagano, come apprendiamo dal seguito (5,1). Inoltre, siamo a sera, tempo che solitamente indica una situazione critica. Il lettore è così preparato a entrare ancora più decisamente nella drammaticità del racconto: quella di cui si narra non è solo una tempesta in mare, ma una tempesta notturna.

 È Gesù che prende l’iniziativa e ordina ai discepoli: “Passiamo all’altra riva!” (v. 35). Ma poi, inspiegabilmente, sembra ritirarsi e quasi farsi spettatore. Ricevuto l’ordine, sono infatti i discepoli a “congedare la folla”, e poi a prendere Gesù con sé. Azione che Marco descrive con un’espressione criptica: “Lo presero con sé, così com’era, nella barca” (v. 36). Il Maestro, che fin qui ha agito da protagonista, sembra ora preso di peso dai discepoli e issato sulla barca, “così com’era”. Un’affermazione difficile da decriptare. Una possibile lettura – puramente ipotetica – è che qui l’evangelista voglia sottolineare la distanza tra l’essere reale di Gesù e la comprensione che i discepoli ne hanno, come a dire che cominciano ad accettarlo per quelle che è, cioè diverso da come lo immaginavano o lo desideravano.

 Sopraggiunge dunque “una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena” (v. 37). All’immagine critica della sera, si aggiunge ora un secondo tratto negativo, quello della tempesta. E ad accrescere la drammaticità del momento vi è la totale inattività di Gesù: “Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva” (v. 38). Anche il particolare del “cuscino” – non un qualsiasi sacco, ma un vero “guanciale”, in greco: proskephálaion – trasmette l’idea di assoluta estraneità di Gesù, quasi surreale: la barca è inondata e il Maestro dorme comodamente su un cuscino. Quest’ultimo particolare, insieme a vari altri, ha fatto ipotizzare che qui Marco voglia evocare la vicenda del profeta Giona, anch’egli inviato ai pagani e che, addormentatosi mentre il mare è in tempesta, è svegliato dai suoi compagni di viaggio che, come i discepoli di Gesù, si dicono “perduti”.

 Il sonno di Gesù ricorda anche quello del contadino, appena evocato nella parabola del seme che cresce da solo (4,27); è il sonno di chi ha fiducia nella potenza della Parola, che poi, puntualmente, si manifesterà e metterà a tacere il vento e il mare (v. 39). Fiducia che invece i discepoli non hanno.

 Infatti, sono presi dalla paura e svegliano il Maestro, con una domanda che sembra andare ben oltre il momento. È la domanda decisiva che prima o poi affiora sulle labbra di ogni credente: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?” (v. 38). Domanda ancora più radicale di quel “dove sei?” che tante volte, nelle tragedie di ogni tempo e di ogni genere, si leva da tanti cuori disperati. Qui i discepoli sono ancora più taglienti, chiedendo conto dell’importanza che essi hanno per lui, il Maestro. Come a dire: “Quanto ti importa di noi?”. E potremmo aggiungere: “Quanto ti importa di questa umanità che va in rovina?”.

 La domanda coglie Gesù sul vivo e lo induce a una reazione immediata: “Si destò, minacciò il vento e disse al mare: ‘Taci, calmati’” (v. 39). Agisce come altrove fa con i demoni: parla loro e impone il silenzio. E così alla “grande tempesta” (v. 37) segue la “grande bonaccia” (v. 39).

 Quindi, dopo aver fatto tacere i rumori esteriori, interroga quelli interiori, rivolgendo ai discepoli una duplice domanda: la prima riguarda la paura e la seconda la fede; due realtà strettamente collegate.

 Come un maestro sapiente inizia interrogando le paure: “Perché avete paura?”, o più letteralmente: “Perché siete così timidi/codardi (deilói)” (v. 40). La domanda potrebbe sembrare oziosa e anche irrispettosa. Non si chiede a persone in preda alla tempesta e con la barca piena d’acqua perché hanno paura. Eppure Gesù osa, perché vorrebbe spingerli a una traversata, appunto, e per questo fa seguire subito una seconda domanda: “Non avete ancora fede?” (v. 40). Ecco le due realtà da mettere in relazione: paura e fede. Ecco la traversata da operare: dalla paura alla fede.

 Alla fine, i discepoli sono presi da un “grande timore (phóbos)” (v. 41) che sopraggiunge dopo la “grande tempesta” e la “grande bonaccia”, perché vedono l’efficacia della parola di Gesù. Ma questo timore non ha nulla a che fare con la paura di prima, è invece segno della fede, che è consapevolezza della presenza di Dio.

 Eccoci dunque giunti all’altra riva: a quella della fede generata dall’ascolto fiducioso, che sa del seme invisibile che tuttavia è presente e opera; fede che si concretizza in consapevolezza che Gesù è presente. Questo è ciò che fa la differenza, e che trasforma degli uomini impauriti in uomini di fede: sapere che Gesù è lì, nella barca, anche quando questa è piena d’acqua e sembra colare a picco. Il segno che a lui “importa” di quei discepoli e di questa umanità è che resta lì, partecipe delle vicende degli esseri umani, anche quando sembra assente e silente.

 La fede non sottrae alle tempeste, ma aiuta ad attraversarle. E attraversandole si diventa credenti. Lì, nella tentazione, come ricordano i padri monastici da Antonio in poi, si diventa credenti. Lì i discepoli cominciano a comprendere chi è Gesù: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?” (v. 41). Quella domanda che attraversa l’intero vangelo secondo Marco, dalla prima guarigione (1,27) fino alla croce (15,39), comincia a trovare una risposta.

 Monastero di Bose