Scuola, contro l’ideologia di competenze e merito
Vari libri recenti prendono di mira questi concetti:
si devono ridiscutere i paradigmi pedagogici attuali, basati su una visione
aziendalistica ed economicista del sapere, riscoprendone le basi etiche e cognitive
di ROBERTO CARNERO
Nel 1979
usciva negli Stati Uniti un saggio del sociologo Neil Postman (1931-2003),
destinato a diventare celebre: Teaching as a Conserving Activity. Potremmo
tradurre quel titolo con qualcosa come «L’insegnamento come attività di
conservazione». Il libro di Postman fu pubblicato due anni dopo anche in Italia,
da Armando Editore, con un titolo diverso: Ecologia dei media. La scuola come
contropotere (ora in una nuova edizione a cura di Giampiero Gamaleri, Armando,
pagine. 126, euro 12). Quell’idea di “conservazione” veniva lì veicolata dal
sottotitolo (in cui si parla di “contropo-tere”), mentre il titolo principale (
Ecologia dei media) alludeva a una delle tematiche centrali del volume, vale a
dire l’invadenza dei moderni mass media nel mondo occidentale (allora si
trattava soprattutto della televisione, essendo ancora di là da venire i
cosiddetti new media e gli odierni social). Al punto che fin dal 1971 lo
studioso aveva istituito alla New York University (dove insegnava), una
cattedra così chiamata, che terrà per tutto il resto della sua vita.
«L’istruzione
cerca di conservare la tradizione mentre l’ambiente esterno è innovatore»,
scriveva Postman. È questo un male? Non necessariamente. Perché “conservare”
ciò che è stato tramandato significa anche “resistere” alle attrattive,
effimere e superficiali, di quella che sempre Postman chiamava la «società
adescante», tutta appiattita sull’hic et nunc di una sorta di eterno presente
privo di spessore e di profondità. Da qui l’idea che, resistendo, la scuola
possa configurarsi – appunto – come un “contropotere”, recuperando le radici
etiche e cognitive su cui basare il futuro dei giovani: aiutandoli così a
orientarsi in un mon- do globalizzato e sempre più interconnesso.
Ma oggi in Italia è possibile concepire la scuola in
questi termini? La domanda è legittima, e la risposta, purtroppo, sembra virare
più verso il negativo che verso il positivo. Questo perché tutte le riforme e
riformine più recenti vanno in una direzione che lascia poco spazio alla
discussione in merito ai paradigmi pedagogici assunti in questi ultimi anni.
Scelte programmatiche e metodologiche fondamentali (che cosa insegnare e come
insegnarlo) sono state spesso imposte in maniera autoritaria, attraverso leggi
votate frettolosamente (magari ricorrendo alla fiducia per evitare ogni
dibattito parlamentare, come è accaduto al Senato con la legge 107/2015, la
cosiddetta “Buona Scuola”) o addirittura con semplici circolari ministeriali
che, sotto l’apparenza di fornire indicazione pratiche su specifiche questioni,
hanno l’effetto di scalzare e sovvertire modelli didattici consolidati. A
vantaggio di un “nuovo che avanza”, senza però la minima disamina critica e,
soprattutto, senza alcuna forma di coinvolgimento degli addetti ai lavori, vale
a dire gli insegnanti, il cui ruolo viene così svilito al rango di quello di
semplici esecutori di decisioni calate dall’alto.
Ciò viene
lucidamente raccontato nel saggio dello storico Mauro Boarelli, Contro
l’ideologia del merito (Laterza, pagine 152, euro 14), in cui si mostrano le
radici di certi concetti sempre più presenti nell’innovazione didattica
stabilita per legge: la misurabilità, le competenze, il capitale umano, la
meritocrazia. Tutte idee transitate dal mondo dell’economia e dell’azienda a
quello dell’educazione e della scuola.
Soffermiamoci,
per esempio, sulla “didattica per competenze”, promossa, sempre più,
dall’Unione Europea a partire dall’inizio degli anni Novanta, fino alla
promulgazione, nel 2006, del Quadro delle “competenze chiave”. Questo e altri
documenti sono chiaramente accomunati da una visione utilitaristica della
conoscenza. Una di queste competenze è definita “imparare a imparare”. Ora,
nessuno nega che sia essere buona cosa trasmettere ai giovani l’idea che
l’apprendimento è un processo che non si esaurisce con la scuola ma che dovrà
continuare lungo tutto l’arco della vita.
Tuttavia si
capisce anche che ciò è funzionale a un mercato del lavoro che richiede dosi
sempre maggiori di flessibilità: anziché portare nella scuola un dibattito sui
modelli economici e produttivi esistenti, magari per criticarli nelle loro
storture e per pensare di migliorarli in relazione ai diritti delle persone, si
preferisce spingere gli individui ad adattarvisi fin dalla più giovane età,
cioè sin dagli anni della scuola. Scrive Boarelli: «Non si tratta di “imparare
a imparare” come occasione di sviluppo culturale, senza immediati fini
utlitaristici, ma di apprendere una forma specifica di comportamento:
l’adattamento alle esigenze dell’impresa e alle forme specifiche della
“flessibilità” di cui essa ha bisogno ». E aggiunge: «Le competenze giocano un
ruolo determinante in questo processo di subordinazione alla visione del mondo
economico, perché spingono i sistemi educativi ad abbandonare la costruzione di
saperi critici in favore dell’organizzazione di saperi strumentali».
Tendenze di
questo tipo si esprimono in concreto in pratiche come quella dei test Invalsi,
che elevano a feticcio il mito della misurabilità dell’apprendimento. Prove che
hanno l’effetto di chiudere, uniformare, banalizzare e decontestualizzare la
conoscenza. Una conoscenza che, nel momento in cui viene chiesto allo studente
di individuare la risposta giusta (preconfezionata) tra quelle già fornite
dall’estensore della prova, viene deprivata di ogni dimensione critica,
creativa o anche solo collaborativa, con la conseguenza di impedire
qualsivoglia sviluppo di un pensiero divergente. «Il “capitale umano”, le
“competenze” e la valutazione standardizzata sono parti di uno stesso sistema
concettuale che ingloba la vita sociale nella sfera produttiva», conclude
Boarelli, e (aggiungiamo noi) la scuola in una visione aziendalistica ed
economicistica del sapere e della cultura.
Sono, queste,
preoccupazioni condivise anche dagli autori degli scritti raccolti da Piero
Bevilacqua nel volume, da lui curato, Aprire le porte. Per una scuola
democratica e cooperativa( Castelvecchi, pagine 192, euro 17,50). In un
intervento dedicato alla “scuola delle competenze”, Anna Angelucci denuncia
l’impossibilità di impostare un dibattito serio e aperto sui cambiamenti in
atto: «Qualunque resistenza, ascrivibile al tentativo di esercitare, sul piano
etico, forme di libero arbitrio o, sul piano culturale, spazi di libertà nella
concezione della cultura e nella riflessione sul nesso
insegnamento/apprendimento o magari, sotto il profilo metodologico, possibili
opzioni di falsificabilità di una teoria che ci viene imposta come una
teleologia, deve essere, e viene, abortita sul nascere».
Il sospetto è
che le riforme della scuola siano – di fatto – pezzi della riforma del mercato
del lavoro. E il potere economico è così forte, autoritario e repressivo (non a
caso, già nei primi anni Settanta, Pasolini negli Scritti corsari scriveva la
parola “Potere” sempre con l’iniziale maiuscola, intendendo quello
dell’economia e dell’industria, cioè del neocapitalismo avanzato) da non
lasciare alcuno spazio per una contestazione al suo pensiero unico. Chi si
oppone ad esso viene tacciato di passatismo, misoneismo, disfattismo.
L’insegnante che rifiuta di “aggiornarsi” è la bestia nera di questa retorica
del nuovo, che canta le magnifiche sorti e progressive della scuola digitale,
della didattica per competenze, dell’alternanza scuola-lavoro (altro fondamentale
tassello, quest’ultima, di tale asservimento della scuola all’azienda). Mentre
forse, in realtà, sta solo provando a mettere in atto forme di resistenza
civile, vedendo ancora nella scuola una possibilità di “contropotere” (rispetto
allo strapotere del più bieco neoliberismo).
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