venerdì 28 dicembre 2018

UNA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO, 70 ANNI FA

Al termine di un anno speciale per la Costituzione italiana, quello del suo 70° genetliaco, si vuole riflettere sul fondamento della nostra Repubblica, in modo da verificare se e quanto esso – a distanza di tempo – sia ancora solido e saldo o invece scricchioli. 


di Alberto Randazzo*

Secondo il noto incipit della nostra Carta, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (art. 1, I comma); in questo modo, i Padri costituenti vollero imprimere il senso dell’intera Costituzione e in un certo senso tracciare il cammino, per il futuro, della società italiana.
Si mette in chiaro che l’Italia è una Repubblica (esito del referendum del 2 giugno del 1946, dal quale – si badi – non si può tornare indietro: a norma dell’art. 139 Cost., la forma repubblicana non è soggetta a revisione costituzionale), democratica (tangibile reazione al regime totalitarista che aveva afflitto gli italiani) e, appunto, fondata sul lavoro, quasi a voler significare che essa sia “il prodotto di un reiterato sforzo collettivo” (A. Morrone) e, al tempo stesso, offrire una “chiave di lettura dell’intero testo” (R. Bin-D. Donati-G. Pitruzzella); come ebbe a dire Fanfani, il 22 marzo 1947, in Assemblea Costituente, “l’espressione ‘fondata sul lavoro’ segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione”.
           Centralità della tematica del lavoro
In un’era come quella che stiamo vivendo, nella quale per un verso si discute di disoccupazione e di neet (quei giovani che sono senza lavoro e non lo cercano) e, per altro verso, di “intelligenza artificiale” e di “Industria 4.0” – espressioni che connotano l’avvento della “quarta rivoluzione industriale” – sembra urgente chiedersi quale sia lo “stato di salute” di uno dei cardini dell’impianto costituzionale e, soprattutto, quali prospettive si aprano per il lavoro in Italia.
Potrebbe dirsi, semplificando al massimo, che anche (o forse soprattutto) da questo dipende il futuro della nostra “Repubblica democratica”, per la semplice considerazione in base alla quale il venire meno del suo principale fondamento non potrebbe che indebolirne la “struttura” e, forse, la sua stessa sopravvivenza.
           Legge e società
Lungi dal voler fare catastrofismi, non si può non ricordare che, in generale, il fenomeno giuridico cammini di pari passo con quello sociale, che la Costituzione debba essere considerata nel suo essere “dinamica” e non “statica” e che il progresso è anzi incoraggiato dalla Carta (si veda, ad es., l’art. 9, I comma, Cost., in base al quale “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”).
Detto questo, però, sembra palese che la diffusione di nuove tecnologie, che sono programmate per avere un’“intelligenza” tale da poter sostituire l’essere umano nello svolgimento delle più svariate mansioni, possa porre un serio problema di effettività del diritto-dovere al lavoro, proclamato nell’art. 4 Cost. (da leggere insieme al già cit. art. 1 Cost.). Proviamo a definire la cornice entro la quale ci muoviamo. Appare opportuno ricordare che costante preoccupazione dei Framers fu quella che si rischiasse di riconoscere in Costituzione un diritto non esigibile, in quanto non azionabile dinanzi a nessun giudice, non potendosi avanzare allo Stato una pretesa di lavorare e non configurandosi quindi un diritto ad ottenere un posto di lavoro.
Diritto al lavoro?
Come osservò Ruini, infatti, si trattava di un “diritto potenziale”, inscritto in Costituzione perché “il legislatore ne promuova l’attuazione” (v. la Relazione al Progetto di Costituzione); pertanto, ciò che è certo è che il tema dell’occupazione dovesse (e debba) essere ai primi posti dell’“agenda politica” (per inciso, preoccupa la recente misura, frutto proprio di una scelta politica, con la quale sono state bloccate le assunzioni a tempo indeterminato nella P.A. fino al 15 novembre 2019).
       Tuttavia, la proclamazione del lavoro quale oggetto di un diritto-dovere volto a favorire “il progresso materiale e spirituale del Paese” (art. 4 Cost.), sebbene sconti il problema della sua esigibilità, è però fondamentale per una serie di diritti disseminati fra le trame della Carta, che da esso ricevono forza e legittimazione e che ad esso sono strettamente connessi, in quanto sue esplicazioni o manifestazioni (e che sono ben azionabili in sede giudiziaria).
Le tutele costituzionali dei lavoratori
Si fa riferimento al fatto che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36, I comma) o al “diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite” (art. 36, III comma); si pensi, inoltre, alla tutela della donna, che “ha gli stessi diritti e – a parità di lavoro – le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, venendo salvaguardato “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare” e protetta la sua condizione di madre (art. 37, I comma), e a quella dei minori (art. 37, III comma) e degli inabili (art. 38).
Viene inoltre sancita la libertà sindacale (art. 39) e il diritto allo sciopero (art. 40), ma anche “il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” (art. 46).
Non si dimentichi poi che, a norma dell’art. 35, “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (I comma), anche “cura[ndo] la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (II comma) e promuovendo e favorendo la tutela apprestata al diritto al lavoro sul piano internazionale (III comma); assai significativo, poi, anche alla luce delle vicende di attualità che coinvolgono il nostro Paese, è il riconoscimento della “libertà di emigrare” e la tutela del “lavoro italiano all’estero” (IV comma).
A quest’ultimo proposito, per un fatto di “coerenza”, non si potrebbero non prestare idonee garanzie a chi si trova costretto ad emigrare dal proprio Paese per cercare lavoro nel nostro; ma questo è un altro discorso che non si può fare in questa sede.
Lavoro, solidarietà, dignità
Inoltre, non si può non mettere in luce lo stretto collegamento che sussiste tra il lavoro e i valori di dignità e solidarietà; il primo, infatti, nel suo essere oggetto di un diritto, appare servente alla realizzazione della seconda ed, al tempo stesso, nel suo essere oggetto di un dovere, è espressione della terza.
Se ne ha, quindi, che la crisi del lavoro, dal quale dipende lo sviluppo della persona, non possa avere ricadute significative sui valori ora richiamati. In particolare, come ha affermato papa Francesco il 27 maggio 2017, “gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono ‘unti di dignità’ ”, ma la dignità di ogni lavoratore non potrà mai essere tutelata (e realizzarsi) senza la “dignità del lavoro”, come accade nel caso del “lavoro in nero, quello gestito dal caporalato” o dei “lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità” (passaggi, gli ultimi due, del Messaggio che il Sommo Pontefice ci ha rivolto il 26 ottobre 2016, in occasione della 48° Settimana Sociale che si è svolta a Cagliari). In definitiva, allora, “non ci può essere lavoro senza dignità, né dignità senza lavoro” (G.M. Flick).
Tutela del lavoro e progresso tecnologico
Se quello appena delineato in estrema sintesi è il modello costituzionale del diritto-dovere al lavoro, ci si può chiedere come esso sia conciliabile con la crescente sostituzione della macchina all’uomo, specialmente a fronte dei già alti tassi di disoccupazione presenti nel nostro Paese.
Inoltre, alla luce di quanto detto, occorre domandarsi quale sia la strategia migliore per contrastare il lavoro nero e quale debba essere l’operazione culturale da compiere perché si comprenda che si lavora non esclusivamente per il raggiungimento di interessi personali ma per il perseguimento dell’interesse collettivo (i primi, infatti, che sono innegabili, non possono che essere funzionali al secondo).
Spunti per una riflessione
Lungi dal volere azzardare risposte nel ristretto spazio di un post, si vuole qui offrire solo qualche spunto da affidare alla riflessione del lettore, perché ognuno possa sentirsi interpellato e possa provare a fare la propria parte. È necessario infatti un impegno sia sul piano politico ma anche, appunto, su quello individuale; prezioso e irrinunciabile è infatti il contributo che ognuno, in quanto “parte di un tutto”, può (meglio, deve) offrire a servizio del bene comune, ma ciò richiede un rinnovato “senso del lavoro” ed un’etica del (e nel) lavoro che ci si augura possano essere sempre più avvertiti e “vissuti” perché possa aversi davvero quel “progresso materiale e spirituale” (art. 4 Cost.) del quale la società italiana ha tanto bisogno.

Insomma, il futuro della Repubblica non può non dipendere da quanto saranno salde le sue fondamenta; a tutti noi – nessuno escluso – il compito di non farle scricchiolare.




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