Criminalità
organizzata, corruzione e giustizia: da Giovanni Paolo II a Francesco,
l’ipocrisia blasfema di chi uccide e delinque e poi va in chiesa senza rimorsi
di GIANFRANCO RAVASI
Intendiamo col termine “legalità”
l’osservanza delle leggi, un capitolo estremamente vario nelle sue applicazioni
perché deve calibrare l’incontro tra l’oggettività della norma e la
soggettività della coscienza e dell’adesione del singolo. Si tratta di un
incrocio spesso arduo nella sua concretezza, come insegna il tema
dell’obiezione di coscienza che non è possibile affrontare ora nelle sue
molteplici sfumature e implicazioni. Noi ci accontentiamo, invece, di
sviluppare la questione con una premessa di indole generale e con una
successiva applicazione particolarmente grave e rilevante che attiene al
sistema criminale alternativo alla legalità. La premessa punta al legame tra
etica e legalità, considerato dal punto di vista della morale. Mentre è
evidente che alcune norme giuridiche sono cogenti anche in sede etica, possono
esserci di primo acchito imposizioni legali prive di impatto morale. Tuttavia,
anche in questo settore si possono registrare esempi significativi che
ripropongono quel vincolo.
Facciamo un paio di esempi.
Pensiamo innanzitutto al codice della strada che, a una prima impressione, può
apparire solo come un regolamento legale asettico, apparentemente estraneo al
dominio morale. Ma come non vedervi in azione anche una delle virtù cardinali,
la prudenza? Una sua violazione grave, che conduce al cosiddetto “omicidio
stradale”, rivela chiaramente che l’osservanza di quelle regole ha un rilievo
non solo penale ma anche morale. Ancor più emblematico è il secondo esempio che
suggeriamo, quello riguardante il sistema fiscale. Esso può sembrare solo una
struttura politico-gestionale della cosa pubblica. Si tratta, invece, di una
realtà che è finalizzata al bene comune e, come tale, ha implicazioni etiche.
Non era, perciò, corretta una
prassi spesso in passato sostenuta anche in ambito teologico secondo la quale
l’evasione o l’elusione fiscale era considerata merepoenalis, cioè
un’imposizione che ricadeva soltanto sotto il regime della punizione legale e
non aveva ridondanza morale. Si è, così, creato indirettamente anche quello
scarso senso dello Stato, tipico di alcuni paesi a matrice cattolica. Certo da
un lato, la corruzione politica cade già evidentemente sotto il marchio non
solo della penalità ma anche della moralità. D’altro lato, però, essa non può
costituire un alibi per l’evasione fiscale. L’osservanza delle norme tributarie
è da san Paolo esaltata in modo netto e in chiave morale-religiosa nel
paragrafo già citato della Lettera ai Romani (13,1-7), tanto che egli giunge al
punto di affermare: «Pagate le tasse: quelli che sono incaricati dell’esazione
sono al servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si
devono le tasse, versate le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore,
il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (13,6-7). Non si dimentichi che
allora a capo dell’impero romano c’era Nerone.
Affermato il legame dell’etica
col diritto attraverso i due esempi appena indicati, ora possiamo allargare la
nostra considerazione su una grave questione spinosa, la coesistenza serena e
persino codificata tra sacro e criminalità, una contiguità che trasforma la
religione in un sostegno paradossale per giustificare l’illegalità e il
delitto. In questo ambito svetta la realtà mafiosa, studiata secondo tale
prospettiva da vari saggi, tra i quali spiccano quelli di Alessandra Dino, La
mafia devota. La Chiesa, la religiosità, Cosa Nostra e di Salvo Palazzolo e
Michele Prestipino, Il codice Provenzano. Siamo in presenza di un fenomeno
registrato già dai profeti biblici che lo condannavano con veemenza.
Lapidaria è, al riguardo, una
frase che Isaia mette in bocca a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità»
(1,13). E il discorso divino proclamato dal profeta è molto articolato,
giungendo al punto di denunciare come farsa sgradevole la ritualità del
criminale, la sua preghiera ipocrita, le sue false devozioni, perché ben altro
è il culto che Dio si attende: «Cessate di fare il male, imparate a fare il
bene, cercate la giustizia» (1,16-17). La religiosità dei mafiosi ignora questo
che è il cuore della vera fede e, senza imbarazzo – come ricorda il citato
magistrato Prestipino, che del tema è un grande esperto (potremmo dire in
corpore vili) – si giunge al paradosso per cui «un killer di Cosa nostra, ogni
volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e
pregava s. Rosalia perché lo proteggesse e perché l’azione andasse a buon fine
e, dopo averla commessa, tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito
dell’azione ». Queste degenerazioni blasfeme e idolatriche si sono trasformate
in un vero e proprio culto perverso tra i “narcos” del Messico con la
venerazione della “Santa Muerte”, modellato sulla popolare Vergine di
Guadalupe. Da noi le esemplificazioni sono più immediate, come attestano i
“pizzini” religiosi ( sic!) di Bernardo Provenzano che citavano
ininterrottamente Dio, Gesù Cristo e la divina Provvidenza o come si scopre
attraverso gli altarini, i vari santini, persino le Bibbie e i testi
spirituali, i libri di preghiere ritrovati nei covi o nei bunker dei mafiosi.
In realtà si tratta di una
deformazione religiosa in cui la Chiesa deve ora porsi – e lo fa anche sotto lo
stimolo delle staffilate di Giovanni Paolo II o di papa Francesco e delle
testimonianze di figure come il beato don Pino Puglisi – in antitesi assoluta a
questa che è in realtà irreligiosità e ipocrisia blasfema, divenendo una
costante spina nel fianco di ogni forma mafiosa. Questa scelta può essere anche
una catarsi per certe connivenze del passato quando alcuni pastori in anni di
guida di una diocesi o parrocchia non osavano pronunciare mai la parola “mafia”
o “’ndrangheta” o “camorra”, oppure quando parroci, come ricordava Alessandra
Dino nel suo saggio, ai funerali di un capo-mafia non esitavano ad appellare
alla «giustizia divina, la sola che non sbaglia e alla quale nessuno può
sottrarsi e raccontare il falso, mentre quella terrena può commettere grandi
errori».
Come ha sottolineato il noto
magistrato Giuseppe Pignatone, la religiosità mafiosa sfrutta «il legame
esistente tra la Chiesa e larghi strati delle popolazioni dell’Italia
meridionale » adottandolo come «sovrastruttura permanente attraverso cui
camuffare la reale essenza dell’organizzazione» basata sulla violenza,
l’ingiustizia, l’illegalità, ossia sull’esatto opposto dell’autentica fede.
Meritano, perciò, di essere
segnalati gli inequivocabili appelli e giudizi che il magistero ecclesiale più
alto ha moltiplicato in questi ul- decenni, a partire dalle ormai famose parole
di san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento: «La nostra fede esige
una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte,
profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e
della convivenza civile». Nel 2010 erano, invece, i vescovi italiani a
«condannare con forza una delle piaghe più profonde e durature del Mezzogiorno,
un vero e proprio cancro, una tessitura malefica... Le mafie sono la
configurazione più drammatica del 'male' e del “peccato”».
Nello stesso anno, il 3 ottobre
2010, a Palermo era Benedetto XVI a sollecitare i giovani a «non cedere alle
suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo».
Un monito che papa Francesco ha ribadito con sdegno a Napoli, nel quartiere
emblematico di Scampia il 21 marzo 2015, ricorrendo a quell’inedito termine
secondo il quale «la corruzione spuzza», evocando quindi non solo il fetore del
sangue versato ma anche il tanfo morale che avvolge quella struttura perversa.
Ed è dei nostri giorni l’impegno comune di Chiesa e Stato con tutti i loro
organi istituzionali – soprattutto nella regione calabrese –- per erigere una
barriera contro la violenza mafiosa, togliendole gli alibi religiosi delle
processioni e dei santuari (Polsi ne è un’attestazione esplicita).
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