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sabato 9 agosto 2025

IL MITO FRAGILE DEL MERITO

 

Disuguaglianze

 ed 

eclissi del Welfare

 

 

-di VITTORIO PELLIGRA

 C’è un racconto che amiamo sentirci ripetere. Un racconto che accarezza il nostro orgoglio e ci solleva dal peso della sorte. È il mito del merito: l’idea che il successo sia il riflesso limpido del talento e della fatica, la giusta ricompensa per chi ha saputo impegnarsi, l’esito naturale di un gioco equo dove le regole valgono per tutti allo stesso modo. Questo racconto è radicato a fondo nelle società occidentali, ma con differenze significative. Negli Stati Uniti, per esempio, il mito fiorisce come un vero e proprio dogma laico: chi ha, ha meritato; chi non ha, non ha fatto abbastanza. Nell’Europa nordica, invece, il merito convive con un senso più ampio di giustizia: anche chi è caduto merita cura, e chi ha corso più veloce, spesso, lo può fare perché c’è qualcun altro che gli ha spianato la strada.

La questione centrale è che l’adesione al mito non ha una valenza puramente individuale. Come hanno mostrato Alberto Alesina e George-Marios Angeletos, in un celebre studio, infatti, la fede più o meno convinta nella meritocrazia modella le scelte politiche: quanto più crediamo che il mercato premi il merito, tanto meno siamo disposti a tassare chi ha di più per sostenere chi ha di meno.

Le nostre credenze non fotografano il mondo in maniera obiettiva: lo costruiscono e lo plasmano. Se penso che il sistema sia giusto, accetterò le sue disuguaglianze. Se le accetto, non vorrò cambiarlo. Così, il mito del merito diventa una profezia che si autoavvera – e lo Stato sociale, lentamente, svanisce.

Come è stato possibile smontare così facilmente il Reddito di cittadinanza, o bloccare un’iniziativa legislativa sul salario minimo, ignorare il fatto che i lavoratori poveri sono raddoppiati negli ultimi dieci anni e far uscire del tutto il tema delle povertà dal dibattito politico? Eppure, anche i miti, a volte, si incrinano. Quando la disuguaglianza cresce troppo, e i più ricchi sembrano vivere in un altro mondo, il racconto vacilla. Uno studio recente di Sánchez Rodríguez e colleghi (2023) ha mostrato che l’aumento eccessivo delle diseguaglianze può ridurre la fede nella meritocrazia. Quando il divario si fa troppo ampio e diventa impossibile giustificarlo con l’impegno e il talento, le persone aprono gli occhi e iniziano a dubitare. Che il merito sia un’illusione ben confezionata?

Gli esseri umani non sono né perfettamente egualitari né fanatici del merito. Cercano un equilibrio.

Desiderano che le opportunità siano distribuite con equità, ma accettano che i risultati differiscano – a patto che le regole del gioco siano chiare e il campo non sia truccato. È un equilibrio sottile, fragile. Basta un’ombra – la corruzione, il nepotismo, il razzismo sistemico – e tutto si incrina.

Il messaggio che ci consegnano questi studi e questi autori è semplice ma profondo: le credenze meritocratiche non sono neutrali. Non sono solo una lente attraverso cui guardiamo il mondo: sono il telaio su cui costruiamo le nostre politiche, i nostri giudizi morali, il nostro consenso allo Stato. Ma sono anche vulnerabili. E quando si spezzano, ci lasciano nudi di fronte alla diseguaglianza, senza più le parole per giustificarla, né la forza per combatterla.

Con i divari che crescono e il Welfare che arretra, la sfida oggi non è solo redistribuire risorse. È riformare il nostro immaginario. Ricostruire una narrazione della giustizia che tenga insieme la valorizzazione del talento e il riconoscimento dei limiti, il premio all’impegno e la cura per chi è rimasto indietro. Perché nessuno prospera da solo e nessuno si salva da solo. Una società giusta non è quella in cui ognuno riceve in base a ciò che ha dato, ma quella in cui ognuno può dare ciò che ha, senza che la sorte o il privilegio decidano in partenza chi può contribuire e chi no.

 www.avvenire.it

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giovedì 25 gennaio 2024

SINGOLARISMO e ODIO SOCIALE


 «Questa è la stagione dell’odio sociale

 Comunità a rischio, serve un pensiero»

“Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé e ciò porta a compiere azioni contro i fragili”

INTERVISTA A STEFANO ZAMAGNI

-         di DIEGO MOTTA

 

Non è più paura, non è nemmeno disprezzo del povero. «Sta accadendo molto peggio: siamo ormai in presenza di odio sociale». Nel 2019, Stefano Zamagni non aveva esitato a parlare con Avvenire di «aporofobia»: erano i tempi dell’offensiva contro il Terzo settore, della criminalizzazione della solidarietà voluta anche a livello istituzionale. Cinque anni dopo, l’intellettuale bolognese che ha guidato la Pontificia accademia delle scienze sociali, ricostruisce lo scenario attuale in modo ancora più diretto, guardando all’Italia e all’Europa. «Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé da una parte dell’opinione pubblica e questo porta a compiere azioni contro la persona fragile». Sullo sfondo c’è la violenza gratuita contro gli ultimi, siano essi migranti, disabili, senza dimora, detenuti: la cronaca è piena, quotidianamente, di fatti che rimandano al desiderio di supremazia di pochi prepotenti verso i più deboli, di persone escluse o nascoste, di dimenticati che rivendicano il diritto ad esistere, mentre il dibattito pubblico tende a relegare tutto questo nelle periferie, esistenziali e mediatiche. Così, nei bassifondi della nostra scala sociale, si avverte avanzare un senso di disumanità che preoccupa per le conseguenze possibili.

 Professor Zamagni, si moltiplicano gli “invisibili”. Eppure si fa finta di non vedere o, peggio, si cerca di negare qualsiasi emergenza sociale per non creare allarme nell’opinione pubblica. Perché questa ostilità verso il povero?

 Siamo abituati a parlare di povertà come di un fenomeno legato al reddito, ma la povertà è anche emarginazione, indifferenza. Con l’aporofobia eravamo al disprezzo degli indigenti, adesso siamo all’odio sociale, un fenomeno mai visto prima a queste latitudini. Odio e violenza hanno un’origine comune e questo spiega ciò che sta succedendo in questa epoca storica. L’odio sociale ha un inizio, 30 anni fa, quando in America nasce anche nel mondo universitario una corrente di pensiero che poi approderà in Europa e nel nostro Paese: si tratta del singolarismo.

 L’altra faccia dell’individualismo.

 Il singolarismo è l’estremizzazione dell’individualismo, che nasce invece molto tempo prima, all’epoca dell’Il-luminismo. In quella fase storica, l’individuo almeno era parte della comunità, aveva un’appartenenza. Il singolarismo recide proprio questo tipo di legame: adesso ognuno si pensa come un unicuum e, in quanto tale, deve differenziarsi. L’atteggiamento aporofobico è stata una prima conseguenza della diffusione del singolarismo, che prevede l’espulsione e l’annullamento dell’altro.

 Se l’individualismo è stato superato, allora adesso diventa a rischio anche la comunità.

 Esatto. Di questo passo dovremo fare i conti con la scomparsa della comunità, che è già in atto. È la seconda secolarizzazione: nella prima, la società e il mondo andavano avanti come se Dio non esistesse. In questa seconda secolarizzazione, che stiamo vivendo, la vita pubblica procede come se a essere assente fosse l’idea stessa di comunità. Così si spiega ad esempio il calo di partecipazione alla democrazia e ai suoi riti, a partire dalle elezioni: chi va a votare oggi, se non gli anziani, che si sono formati nella stagione in cui il singolarismo non c’era?

 Ma una società che tende a escludere fino ad annullare la dimensione comunitaria, non è condannata a incattivirsi?

 Certo. Oggi, non a caso, c’è molta meno felicità pubblica: una volta si mangiava meno ma si era più felici. Se si taglia il cordone ombelicale con la comunità, l’essere umano sarà sempre più solo. Negli Stati Uniti, il 52% della popolazione soffre di solitudine. Ma è una solitudine esistenziale, che si accompagna all’aumento delle disuguaglianze sociali. Detto questo, io resto ostinatamente ottimista.

 Perché?

 Perché la persona umana nasce per la felicità. Bisogna tornare a rileggersi il capitolo 5 della “Fratelli tutti”, per immaginare la miglior politica. Papa Francesco ha intuito prima e meglio di tutti che bisogna tornare a pensare. Noi tutti, anche il Terzo settore, nella dimensione sociale abbiamo posto più enfasi sull’azione che sul pensiero. La prospettiva va capovolta e tanti non credenti l’hanno capito, paradossalmente. Sono proprio loro a riconoscere che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto in grado di indicare una di via d’uscita, a patto che si aumenti però il tasso di produzione del pensiero. La Parola viene dal pensiero ed è necessario, anche nel mondo cattolico, investire di più nelle occasioni capaci di generare “pensiero pensante” e non “pensiero calcolante”.

 È ancora convinto che la società civile sia più avanti della politica?

 Sì, a patto che si esca una volta per tutte dal dibattito fuorviante incentrato sul bipolarismo Stato-mercato e si riconosca il ruolo del Terzo settore. Attenzione, la mancanza di una dimensione comunitaria fa male anche al mondo del volontariato e della cooperazione, però i segnali positivi non mancano: penso all’Economy of Francesco, al recente elogio del modello di economia civile arrivato da parte di Sergio Mattarella. Serve fiducia e il mondo cattolico in questo senso ha molte carte da giocare.

«L’individualismo è stato superato dal singolarismo: il prossimo va annullato o espulso» «L’antidoto all’aumento di disuguaglianze e solitudini?

Rileggiamo il capitolo 5 della “Fratelli tutti”»

 

www.avvenire.it


 

lunedì 27 giugno 2022

SCUOLA. DISUGUAGLIANZE INVISIBILI


 Le diseguaglianze 

che non si vedono 

senza dati per tutti

 

Attraverso i dati INVALSI è possibile conoscere quanti studenti dell’ultimo anno di Scuola secondaria di secondo grado escono dalla scuola senza aver acquisito le competenze fondamentali, sebbene siano stati promossi.
Questa forma di dispersione scolastica è stata definita implicita, o nascosta, e dai risultati INVALSI 2021 sembra che la pandemia abbia fatto aumentare ancora di più questo fenomeno all’interno della scuola italiana rispetto al periodo pre-Covid.
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La pandemia potrebbe avere aggravato il problema della dispersione scolastica, soprattutto nelle sue componenti più difficili da individuare e quantificare perché più sotterranee.

Attraverso i dati INVALSI 2021 su base censuaria, quella cioè che comprende tutti gli studenti italiani che partecipano annualmente alle Rilevazioni nazionali, è possibile individuare i ragazzi che al termine della scuola superiore non hanno raggiunto le competenze fondamentali e  quindi corrono seriamente il rischio di avere prospettive di inserimento nella società e nel lavoro ridotte.

Questa forma di dispersione scolastica, definita implicita o nascosta, è un fenomeno complesso e articolato che può derivare da diverse cause e fattori.

Con la pandemia sono aumentati i dispersi impliciti…

Analizzando i risultati delle Prove INVALSI si osserva che nel 2021 in Italia il 9,5% degli studenti termina la Scuola secondaria di secondo grado con competenze di base decisamente inadeguate, 2,5% punti in più rispetto al 2019.

Crescono anche le differenze territoriali della percentuale di dispersione implicita, con un valore che parte da 2,6% per il Nord, raggiunge l’8,8% al Centro fino ad arrivare al 14,8% nel Mezzogiorno, 12,2 punti in più rispetto alle regioni del Nord Italia.

Alcune regioni del Mezzogiorno però hanno una percentuale di dispersi impliciti decisamente più alta rispetto alla media nazionale e al resto delle regioni italiane; Calabria, Campania, Sicilia, Puglia, Sardegna, Basilicata e Abruzzo. Solamente in Valle d’Aosta, Piemonte, Prov. Aut. di Trento, Friuli-Venezia Giulia, Molise e Basilicata il fenomeno si sta riducendo.

…ma anche quelli totali

Volendo valutare la dispersione scolastica nel suo insieme si devono sommare questi dati a quelli forniti dall’ISTAT sulla dispersione esplicita.

A causa della pandemia anche la dispersione totale è aumentata notevolmente. Se si sommano i dati degli ELET - Early Leaving from Education and Training - e quelli sulla dispersione implicita emerge infatti che il 23% dei giovani della fascia d’età 18-24 anni ha lasciato la scuola prima di effettuare l’esame di Stato, oppure l’ha terminata senza acquisire competenze di base minime (nel 2019 erano il 22,1%).

Questo significa che quasi uno studente su quattro ha abbandonato la scuola o l’ha terminata senza acquisire le competenze di base minime.

Ma chi sono gli studenti che rimangono indietro?

Attraverso l’indice ESCS, un parametro utilizzato a livello internazionale per definire lo status socio economico e culturale della famiglia di provenienza, è possibile analizzare questi dati confrontandoli con il contesto sociale entro il quale sono stati ottenuti.

Attraverso i dati INVALSI di quest’anno scolastico si osserva che la dispersione implicita è aumentata maggiormente per gli studenti che provengono da ambienti meno avvantaggiati.

Se nel 2019 il 7,3% degli studenti con un ESCS sotto la media è uscito dalla scuola senza le competenze minime richieste, nel 2021 questo fenomeno è aumentato di 5 punti percentuali, arrivando al 12,3%.

Senza i dati INVALSI alcuni fenomeni rimarrebbero nascosti

Grazie alle Prove INVALSI è possibile quindi far luce su un fenomeno preoccupante che rischia di rimanere fuori dalle statistiche ufficiali.

Questi giovani, che conseguono il titolo di scuola superiore, ma senza avere raggiunto le competenze fondamentali previste, rappresentano un’emergenza per il Paese.

Poter individuare, numericamente e geograficamente, chi sono i giovani che ricadono nella categoria dispersione implicita significa poter pianificare azioni di supporto in modo da ridurre le difficoltà che si troveranno ad affrontare non solo nello studio ma per il resto della vita.

Approfondimenti

·         I Risultati delle Prove INVALSI 2021

·         Le Prove INVALSI 2021 in pillole

·         I tanti perché della dispersione scolastica

·         Le cause della dispersione scolastica

·         La dispersione scolastica non è solo banchi vuoti

MINISTERO ISTRUZIONE

 

sabato 7 agosto 2021

VACCINI E POLITICA


I VACCINI E LA DIMENSIONE ETICA DELLA POLITICA

 

Il paradosso di cui si tace

Mentre nei Paesi occidentali si litiga sul diritto di non vaccinarsi – i giornali sono pieni delle polemiche su questo punto –, al resto del mondo viene di fatto negato il diritto di vaccinarsi. È il paradosso evidenziato da una presa di posizione dell’Oms – l’Organizzazione mondiale della sanità –, che proprio in questi giorni ha fatto alle nazioni ricche la proposta di ritardare la somministrazione della terza dose dei vaccini, per cederne una parte a quelle povere, che non sono state finora in grado di garantire ai loro abitanti neppure la prima dose.

La richiesta – peraltro subito respinta su entrambe le sponde dell’Atlantico – si collocava in un contesto in cui i Paesi industrializzati già da tempo si sono accaparrati l’80% delle dosi disponibili. Una mossa preventiva che ha creato una evidente disparità.

E tuttavia il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nella sua ultima dichiarazione, non ha insistito su questo punto, riconoscendo la legittimità della preoccupazione dei governi occidentali di garantire la salute dei loro cittadini. «Però» – ha aggiunto – «non possiamo accettare che Paesi che hanno già utilizzato la maggior parte dei vaccini vogliano utilizzarli ancora di più, mentre le popolazioni più vulnerabili del mondo continuano a rimanere senza protezione».

Sta di fatto che nei Paesi ricchi è già vaccinata il 51% della popolazione, a fronte dell’1,36% dei Paesi poveri. In tutta l’Africa, solo il Marocco dispone di vaccini per più del 20% della popolazione. Negli altri Stati africani, secondo i dati dell’Unicef, non si arriva neppure al 5%. In alcuni, come il Mali, il Chad e il Congo, si è addirittura al di sotto dell’1%.

Sono cifre impressionanti, indice di una disparità che nessun argomento può giustificare. La rivista «Nature» ha previsto che la maggior parte degli abitanti dei Paesi poveri potrà accedere al vaccino solo fra due anni. Se tutto va bene… E Ma di tutto questo i nostri giornali e le nostre televisioni non parlano, o parlano pochissimo.

A completare questo quadro inquietante, arriva adesso la notizia che le multinazionali farmaceutiche produttrici di Pfizer e Moderna – ovviamente appartenenti al quel mondo ricco che non si preoccupa delle sorti di quello povero – hanno chiesto e ottenuto dall’Unione Europea un consistente incremento di prezzo sui loro vaccini. Ogni dose di Pfizer passerà da 15 a 19,50 euro, mentre ogni dose di Moderna da 19 a 21 euro.

Le logiche della politica attuale

Non sono un “complottista” e non penso che ci siano dietro tutto quello che sta accadendo delle macchinazioni ordite da “oscuri poteri”. Non c’è bisogno di queste ipotesi fantascientifiche per spiegare i paradossi di un pianeta che continua ad essere, anche nei momenti di emergenza come questo, diviso tra ricchi e poveri e in cui i primi prosperano mentre i secondi muoiono. Basta rendersi conto che gli egoismi nazionali e i meccanismi del profitto – quelli sì, internazionali – agiscono inesorabilmente, se lasciati a se stessi, per segnare la disparità tra chi è più forte e chi è più debole. Le motivazioni umanitarie hanno un loro ruolo, soprattutto nei discorsi ufficiali, ma incidono solo nella misura in cui non si pongono in contrasto con gli interessi particolaristici degli Stati più forti.

Questo non annulla, evidentemente, le differenze tra regimi democratici e totalitari, tra Stati che calpestano apertamente i diritti umani e Stati che cercano in qualche modo di tutelarli, anche se tra molte contraddizioni, tra politiche spudoratamente imperialiste e politiche più attente al rispetto dei popoli. Ma queste distinzioni, che sarebbe qualunquistico negare, non impediscono alla politica – almeno a quella che abbiamo sotto gli occhi – di ispirarsi in ultima istanza alla legge del più forte. La verità e la giustizia, nei casi migliori, non sono del tutto ignorate, come non lo è il bene comune, ma solo nella misura in cui non entrano in contrasto con gli interessi di parte.

Per non essere “idioti”

Di questa situazione ci si può rendere conto oppure no. Nella seconda ipotesi ci si può dedicare con totale passione a risolvere i problemi della propria vita – tutelarsi dal contagio, vaccinarsi oppure no, salvaguardare il proprio lavoro nei tempi della pandemia, ecc. – ignari della loro relatività rispetto a quelli di miliardi di persone che vedono messa in gioco la loro sopravvivenza a causa della povertà.

I greci avevano un termine, per indicare le persone che pensano solo alle cose proprie – in greco “idia” –, che è passato nella nostra lingua come un generico insulto, ma che andrebbe recuperato nel suo significato etimologico: “idiotai”, idioti. In questo senso, “idiota” sarebbe colui che crede di potersi salvare da solo, ignorando i problemi degli altri, oppure, come membro di una comunità politica, di poter realizzare gli interessi di quest’ultima senza curarsi di quelli del pianeta.

Se invece ci si rende conto della situazione, l’alternativa è tra rassegnarsi, magari evitando di pensarci – molti lo fanno –, oppure cercare di allargare ad altri la propria consapevolezza che c’è nel mondo attuale qualcosa di profondamente sbagliato, e tentare di creare, insieme, le condizioni per un cambiamento radicale.

È possibile questo? La sola via che vedo è un profondo rinnovamento della politica. A cominciare dal basso. I capi di governo che oggi respingono la proposta dell’Oms di rinviare la terza dose del vaccino per aiutare chi è più povero, non sono, ovviamente, degli egoisti, e forse personalmente praticano forme di carità vero i bisognosi. Ma sanno bene che l’opinione pubblica dei loro Paesi li crocifiggerebbe se essi si preoccupassero. Soprattutto nei Paesi democratici, è il consenso a generare e legittimare il potere politico.

Perciò, se non cambiano la mentalità e gli atteggiamenti pratici degli elettori, non c’è da stupirsi che quelli degli eletti siano quelli che sono. Aristotele pensava che la politica fosse una parte – la più elevata – dell’etica. Dopo Machiavelli, noi abbiamo separato le due cose. Così, oggi molti italiani avrebbero gravi scrupoli morali se, vedendo una persona annegare, non facessero nulla per salvarla, ma apprezzano che il loro governo si accaparri i vaccini, anzi protesterebbero esasperati se decidesse di darne una parte a chi non ne ha.

Il problema dei vaccini ci pone davanti all’urgenza di educare i cittadini a recuperare la dimensione etica della politica. Si scoprirebbe, allora, che la morale non consiste nel sacrificarsi per gli altri, ma nel comprendere che il nostro bene, al di là delle apparenze immediate, non può prescindere da quello altrui. Anche a proposito dei vaccini, è stato osservato che, in un mondo ormai globalizzato, è illusorio credere di salvarsi dal Covid da soli. È interesse anche dei ricchi che i poveri abbiano la possibilità di vaccinarsi.  Forse anche di questo, e non solo della obbligatorietà o meno del vaccino, dovremmo prima o poi avere il coraggio di parlare.

 

www.tuttavia.eu



 

venerdì 20 novembre 2020

LA POVERTA' EDUCATIVA? UNA QUESTIONE DI COMUNITA!

 
Oltre due italiani su tre pensano che durante il lockdown siano aumentate le disuguaglianze.  

«Ora la responsabilità per recuperare il 'gap' educativo non ricada solo sulla scuola»

 

-         Paolo Ferrario

      

Non può essere caricata esclusivamente sulle spalle della scuola, la responsabilità di «crescere» le nuove generazioni, ma questo deve essere un impegno, un imperativo di tutta la comunità. Ne è convinto il 67% degli italiani, secondo un’indagine di Demopolis per l’impresa sociale “Con i bambini”, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, realizzata in occasione della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si celebra domani. «La povertà educativa deve interessare tutti, non solo la scuola e non solo la famiglia, ma l’intera comunità educante», sottolinea il presidente di “Con i bambini”, Carlo Borgomeo. Un lavoro tanto più importante in presenza di un’emergenza sanitaria che, per due italiani su tre, avrà gli effetti più pesanti proprio sui più piccoli, che ne pagheranno il prezzo più alto, soprattutto a lungo termine.

A peggiorare la situazione ci pensa anche una distribuzione diseguale delle opportunità dell’istruzione tra i territori: soltanto il 9% degli intervistati ritiene che la scuola italiana garantisca uguali opportunità per tutti. Il 65% è convinto che le opportunità non siano equamente distribuite e il 23% ritiene che sia garantita solo ad alcuni. Un dato peggiorato dai lunghi mesi di sospensione della didattica in presenza, con il ricorso massiccio alla Dad: la mancanza di dispositivi informatici adeguati e di connessioni idonee si è rivelata un problema nel 14% dei casi, dato che cresce al 22% al Sud e nelle Isole. Ma nell’esperienza degli intervistati, le difficoltà di bambini e ragazzi nel seguire la didattica a distanza sono state, in prevalenza, d’altra natura: principale problema, indicato dal 45%, la scarsa capacità di attenzione nell’apprendimento a distanza, realizzato integralmente nell’ambiente casalingo. Inoltre, i genitori testimoniano i servizi che più sono mancati ai figli, e che - presumibilmente - continueranno a lungo a mancare. Sette su 10 citano le attività ludiche e ricreative, quella dimensione fertilissima del gioco compromessa dalle apprensioni per la necessaria sicurezza sanitaria. Il 65% ricorda la rinuncia a palestre, centri sportivi ed all’attività motoria necessaria nelle fasi di crescita. Inoltre, il 42% dei genitori intervistati ricorda quanto sia mancata ai figli la partecipazione a laboratori e ad altre attività educative extrascolastiche. «Una delle questioni più gravi che riguardano bambini e ragazzi di oggi è la mancanza di pari opportunità di accesso ai servizi, e sappiamo come questa emergenza non ha fatto che accrescere alcune povertà e diseguaglianze», conferma Claudia Fiaschi portavoce del Forum del Terzo Settore.

A preoccupare è la crescita esponenziale della povertà educativa, tanto che il 90% degli italiani ritiene importanti, per lo sviluppo del Paese, efficaci azioni di contrasto. Interventi che per il 53% degli intervistati è oggi più importante di un anno fa. In questa situazione di emergenza pandemica, per sostenere bambini e ragazzi in Italia, servirebbe innanzi tutto rimuovere gli ostacoli per l’accesso alla didattica a distanza (63%), ma anche un rinnovato impegno degli insegnanti (59%). Il 46% ricorda l’urgenza di intervenire anche rispetto alla povertà materiale delle famiglie. Sostegno, anche a distanza, da parte di educatori ed una maggiore attenzione alle esigenze dei ragazzi, anche nell’informazione e sui media, sono interventi richiesti da 1 intervistato su 3. Il 30% ricorda inoltre come serva l’impegno di tutti per restituire importanza ai diritti di ragazzi e bambini ed il 26% sollecita un accesso esteso alle attività extrascolastiche.

 

www.avvenire.it

 

domenica 22 gennaio 2017

LE PENTOLE DEL DIAVOLO - Pochi ricchi e miliardi di poveri!

LA RICCHEZZA
 DEL MONDO 
IN MANO A POCHI      NABABBI

di Giuseppe Savagnone

Chi lo dice che le cose non cambieranno mai? Cambiano, eccome! Solo che noi non ce ne accorgiamo, anche perché, nella ridda di notizie inutili (a quanto pare Brad Pitt ha una nuova fiamma!) da cui siamo tempestati ogni giorno, nessuno ci informa dei cambiamenti veramente importanti. Un’eccezione a questo silenzio è il recentissimo rapporto della Oxfam – una confederazione internazionale composta da 18 organizzazioni di Paesi diversi – , da cui risulta che le disuguaglianze economiche a livello mondiale si accrescono a una velocità vertiginosa. Nel 2010 erano i 388 uomini più ricchi a possedere quanto la metà più povera del pianeta (oltre 3 miliardi e mezzo di persone). Dopo soli quattro anni, nel 2014, per realizzare questa equivalenza, ne bastavano 80. Nel 2015, 62. Oggi, secondo i dati pubblicati nel rapporto, ad avere da soli quanto tutti i miserabili della terra messi assieme (426 miliardi di dollari!), sono in 8. Possiamo leggere i loro nomi sulla famosa rivista «Forbes»: Bill Gates, Amancio Ortega, Warren Buffet, Carlos Slim, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Michael Bloomberg.
Attenzione: non si tratta soltanto di geni solitari che si sono fatti da sé. È il meccanismo dell’economica neo-capitalistica oggi dominante a produrre questi effetti. I soggetti sopra elencati sono, infatti, in buona compagnia, se è vero che nel 2015 si è calcolato che l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%. Non è l’eredità del passato: la forbice si è andata sempre più allargando in questi ultimi decenni. Tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero della popolazione mondiale è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Il tutto legato ai processi economici e finanziari che non fanno capo solo a singoli individui, ma a potenti aziende: nel biennio 2015/2016 dieci tra le più grandi multinazionali hanno realizzato complessivamente profitti superiori a quanto raccolto dalle casse di 180 Paesi del pianeta.

L’Italia non fa eccezione alla regola. Stando ai dati del 2016, l’1% più facoltoso della popolazione ha nelle mani il 25% della ricchezza nazionale netta. I primi 7 miliardari italiani posseggono una ricchezza superiore a quella complessiva del 30% più povero dei nostri connazionali. E anche nel nostro Paese il processo è in corso di svolgimento. La classe media, che ne era il tessuto base, si sta disfacendo. Pochi diventano sempre più ricchi, la maggior parte scivola inesorabilmente nella povertà……..

mercoledì 2 novembre 2016

SCUOLA PER TUTTI?


 Il grande bluff 

della scuola per tutti

Forma i forti, non recupera i deboli


Nel saggio «Scuola di classe» Roberto Contessi svela l’inganno dietro le promozioni facili: una scuola classista che dà le giuste competenze solo a chi ha alle spalle una famiglia solida. Mentre gli altri non riescono a colmare lo svantaggio di partenza

      La scuola italiana? Non funziona più da ascensore sociale, ma da nastro trasportatore. 

     Nel senso che porta tutti o quasi al traguardo del diploma ma senza riuscire a colmare le diseguaglianze di partenza. 

       E’ questa la tesi di fondo del saggio-pamphlet Scuola di classe di Roberto Contessi, professore di storia e filosofia al liceo Giulio Cesare di Roma. 

     Ma come, 50 anni dopo la Lettera a una professoressa di Don Milani, siamo ancora lì? 

    «Sì e no - spiega il professor Contessi -.

  Perché oggi siamo di fronte a un nuovo classismo di tipo culturale: non più ricchi contro poveri ma culturalmente …… 

Leggi: SCUOLA DI CLASSE