sabato 8 gennaio 2022

DON'T LOOK UP

 


Nel bel mezzo della pandemia, 
un film che forse è uno specchio

 

-         Giuseppe Savagnone *

,

Non ricordo che, in questi anni, si sia tanto parlato di un’opera cinematografica, sui nostri giornali e su Internet, come del recentissimo Don’t Look Up, del regista Adam McKay, considerato da molti “il film dell’anno”. È significativo il fatto che ciò avvenga nel bel mezzo di una pandemia, in cui sembrerebbe ci sia ben altro a cui pensare.

Può già essere interessante chiedersi il perché di questo curioso fenomeno culturale. Ma, poiché la cultura è lo specchio della nostra realtà umana, ancora più importante è provare a guardarci in questo specchio. Senza parlare del finale, che lascio alla scoperta di chi ancora non ha visto il film, ricordo qui brevemente la trama.

Una giovane dottoranda, Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), che lavora in un osservatorio astronomico del Michigan con il prof. Randall Mundy (Leonardo Di Caprio), scopre al telescopio una cometa che, dai calcoli, è diretta verso la Terra ed entro circa sei mesi la investirà, causando la distruzione dell’intera umanità. I due scienziati si precipitano a dare la notizia alle autorità. Ma, quando, finalmente, vengono ricevuti alla Casa Bianca, la Presidente, Janie Orlean (Meryl Streep), li liquida in fretta, assorbita com’è da uno scandalo sessuale che la coinvolge e dai suoi riflessi sulle elezioni di medio termine.

Il prof. Mundy e Kate, allora, per mettere in guardia il mondo, puntano sui mezzi di comunicazione, partecipando a un seguitissimo programma televisivo di intrattenimento, i cui conduttori e il cui pubblico, però, si rivelano molto più interessati, nel corso della trasmissione, al tormentone sentimentale di una nota cantante e di un dj. Intanto, però, la Presidente, per distrarre l’opinione pubblica dal suo scandalo privato, ha l’idea di rilanciare e pubblicizzare la notizia. Viene elaborato un progetto per deviare la cometa, colpendola con una flotta di missili nucleari.

L’operazione viene però annullata, all’ultimo minuto, quando l’imprenditore Peter Isherwell (Mark Rylance) – miliardario fondatore e amministratore di un’azienda di alta tecnologia e tra i maggiori finanziatori della Presidente – , scopre che il nucleo della cometa è ricchissimo di materiali rari e preziosi. Da qui la sua proposta, subito accettata dalla Orlean, di seguire un’altra strategia, frantumando piuttosto il corpo celeste e facendone cadere i frammenti sulla terra, per sfruttarli. Le perplessità del prof. Mundy e degli altri scienziati vengono ignorate e le obiezioni subito tacitate.

Ora che è stata informata dai mezzi di comunicazione, l’opinione pubblica si divide tra negazionisti, che considerano la cometa un’invenzione del potere, utilitaristi che guardano con speranza ai vantaggi economici prospettati da Isherwell, e politici, come la Presidente e il suo entourage, a cui interessano solo gli effetti mediatici ed elettorali dell’operazione. In questa frenetica ridda di reazioni, del pericolo mortale incombente sull’umanità non sembra preoccuparsi nessuno. Si preferisce non pensare. Si fanno affari, si intessono relazioni sessuali, si fanno progetti, come se nulla fosse. La cometa ormai è così vicina da essere visibile, bellissima e tremenda, a occhio nudo, ma lo slogan è quello di “non guardare in su” (don’t look up).

Mi fermo qui. Del resto, questa rapida sintesi è sufficiente a dare un’idea del contenuto del film e a cercare di rispondere alle domande da cui siamo partiti: perché sta avendo tanta risonanza in questo momento? E in che senso può rispecchiare la nostra situazione attuale?

Interpretazioni diverse

Le interpretazioni che si sono date del film sono diverse. «Una commedia dell’assurdo per parlare di pandemia e di cambiamento climatico», è il sottotitolo di una recensione on line firmata da Letizia Rogouno. Secondo questa lettura, «McKay costruisce una commedia dell’assurdo all’insegna del black humour per sottolineare le fragilità del governo americano in situazioni di emergenza», mettendo alla berlina «chi ha negato da sempre l’esistenza del Covid durante questa pandemia, o chi ignora il disastro del cambiamento climatico in corso».

«“Don’t look up”, l’anti-capitalismo che risveglia le coscienze», è il titolo della recensione di Alice Franchi su «Il Fatto quotidiano». Secondo l’autrice, «il nemico nel film è infatti è uno: il capitalismo», in particolare per le sue responsabilità nella crisi ambientale e climatica. Una lettura che ha largo spazio anche in molti altri commenti, secondo cui è la denuncia di questa crisi il vero obiettivo del regista.

«Don’t Look Up, un film che affronta il negazionismo della scienza», si intitola una recensione di Rebecca Oppenheimer, sulla rivista «le Scienze», secondo cui l’obiettivo della satira corrosiva del film sarebbe «il modo in cui troppo spesso sono respinti i risultati scientifici e gli scienziati che li scoprono». Tesi che sembra confermata dallo stesso Leonardo Di Caprio, che parla di una critica del «modo in cui troppo spesso sono respinti i risultati scientifici e gli scienziati che li scoprono».

Anche se qualcun altro ha visto nel film, piuttosto, la difficoltà degli scienziati di trovare un linguaggio veramente comunicativo, sottolineando l’impaccio del prof. Mundy e l’eccessivo nervosismo di Kate quando, nel salotto televisivo che li ospita, devono informare il grande pubblico del problema, fallendo miseramente nel loro intento di sensibilizzare gli spettatori. Queste letture hanno tutte, senza dubbio, un certo fondamento e vanno tenute presenti in uno sguardo d’insieme. In particolare quelle che fanno riferimento al negazionismo e al rapporto dell’opinione pubblica con la scienza intercettano sicuramente dei problemi attualissimi nel tempo della pandemia.

Manca però, in queste interpretazioni, il riferimento all’esperienza fondamentale su cui il film si gioca, che è la scoperta dell’imminenza della morte e la reazione di fronte ad essa. E del resto, se Don’t Look Up fosse solo una critica alla società americana, alla politica, all’economia capitalistica, allo stile dei mezzi di comunicazione, avrebbero ragione i critici – numerosi almeno quanto gli ammiratori – che sottolineano la mancanza d originalità e il carattere generico di una denuncia ormai fatta troppe volte dal cinema. Senza dire che un film per cui i due attori protagonisti hanno percepito rispettivamente compensi di 30 (Di Caprio) e di 25 (Lawrence) milioni di dollari avrebbe ben poca credibilità come critica sociale.

La fuga dal pensiero della morte

Il punto è che forse il regista – consapevolmente o inconsapevolmente (le opere spesso contengono più di ciò che i loro creatori intendevano dire) – ha messo in evidenza proprio la relatività di tutto questo insieme di fattori particolari della vita, sottolineandone la futilità di fronte alla prospettiva di una fine che li trascinerà inesorabilmente nel nulla. Ed è proprio questa relatività che i personaggi del film – politici, conduttori televisivi, finanzieri, uomini e donne comuni – non vogliono vedere.

Per questo negano l’imminenza della catastrofe, o ne minimizzano gli effetti, oppure cercano di farla rientrare nei loro schemi, calcolandone i possibili vantaggi strategici ed economici. Per questo cercano di stordirsi col sesso o con la droga, oppure semplicemente inseguendo i loro piccoli problemi quotidiani. Sulla nave che affonda, preferiscono concentrarsi sulla manutenzione dei servizi di bordo. Il senso del film non è tanto una critica della società, quanto una riflessione esistenziale. Distogliere lo sguardo dalla cometa, tenere lo sguardo ben fisso sulle “cose della vita”, lasciandosi assorbire dalla routine quotidiana come se non si dovesse morire, è la condizione per sfuggire al non senso della “vita” che sprofonda nel nulla. Per esorcizzare la paura.

Forse questo può spiegare perché, in un tempo come il nostro, dove la crisi climatica, ma soprattutto la pandemia, minacciano la sopravvivenza di tutti e di ciascuno, il film sia stato percepito nella sua estrema attualità. In realtà il problema non si pone solo oggi. Alcuni secoli fa, un pensatore molto acuto, Blaise Pascal, ha individuato nel “divertimento” (dal latino de- vertere, “volgere altrove la propria attenzione”) la reazione degli esseri umani di fronte al problema della morte. «L’uomo vuole essere felice (…). Per riuscirci bene dovrebbe diventare immortale; ma poiché non lo può, ha deciso di non pensarci».

Da qui, dice Pascal, la corsa frenetica con cui – già a quel tempo! – le persone si sforzano di esorcizzare la sola certezza della loro vita, e cioè che moriranno. «Così si spiega perché sono così ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si può guadagnare al gioco, oppure nell’inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non le vorremmo».

Il nostro problema è sfuggire al pensiero della morte: «Noi», scrive il filosofo francese, «non cerchiamo né il godimento (…), né i pericoli della guerra, né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci distrae. Questa è la ragione per cui si gusta più la caccia che la preda». I personaggi del film di McKay sono tutti a caccia di qualcosa che li distragga dalla cometa, sia essa la metafora del disastro ecologico o, più immediatamente, della pandemia. Non vogliono sollevare lo sguardo “in alto”, oltre il piano dei piccoli problemi e dei piccoli interessi della loro quotidianità, perché questo li lascerebbe esposti alla paura della morte.

E forse è un indizio di questa “fuga” anche il fatto che la stragrande maggioranza dei commenti a Don’t Look Up si sia concentrata sulla sua denunzia dei disservizi a bordo della nave e non abbia messo a fuoco l’essenziale del messaggio, e cioè che la nave stava affondando. Eppure, proprio alzando gli occhi si potrebbe scoprire che la nostra finitezza, finalmente compresa e accettata, apre lo spazio a Qualcosa o Qualcuno che la supera. Chi ha visto il film sa che questa prospettiva è presente nel finale. E che proprio da essa può scaturire anche una più autentica relazione fra le persone. È un fragile, ma autentico, segno di speranza per chi è capace di alzare lo sguardo.

 

* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento