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venerdì 7 novembre 2025

OMBRE SULLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA


 L’esplodere del caso Almasri cade all’indomani della definitiva approvazione della riforma della giustizia e getta un’ombra inquietante sul rapporto del nostro governo con le leggi – in questo caso quelle internazionali – e con la magistratura.

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di Giuseppe Savagnone  

 Una vicenda inquietante

Fin dall’inizio, infatti, la vicenda del torturatore libico ha evidenziato l’intento dell’esecutivo di eludere le prime e di attaccare la seconda.

A cominciare dal video in cui Giorgia Meloni – rivolgendosi ai suoi sostenitori invece che riferire in parlamento – dopo aver dichiarato che la responsabilità del sorprendente rimpatrio di un criminale era tutta dei giudici della Corte, aveva  accusato quelli italiani di perseguitarla: «La richiesta di arresto della Corte Penale Internazionale», aveva affermato con la consueta grinta –  «non è stata trasmessa al Ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla legge, e per questo la Corte d’Appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, piuttosto che lasciarlo libero noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente per ragioni di sicurezza con un volo apposito come accade in altri casi analoghi. Questa è la ragione per la quale la procura di Roma oggi indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri».

Una tesi fatta propria con forza per giorni dal governo e dai giornali di destra, ma clamorosamente smentita dallo stesso Nordio, chiamato a riferire in Parlamento e costretto ad ammettere che la richiesta di arresto era in effetti stata consegnata, ma, essendo scritta in inglese, c’erano stati problemi nella lettura.

Quanto alla motivazione della premier per spiegare il rimpatrio di Almasri – la sua pericolosità – l’ovvia obiezione è stata che proprio per questo sarebbe stato più logico tenerlo in prigione piuttosto rimandarlo in Libia, la roccaforte dove era al sicuro e dove ha potuto continuare a consumare i suoi crimini.  

Alla fine di una serie di bugie e di scaricabarile, è venuta finalmente la dichiarazione che alla base della decisione c’era stata la ragion di Stato.  Ammettendo così i legami, creati dal nostro governo e anche recentemente riaffermati, con la fazione libica di cui Almasri è un importante esponente, per bloccare il flusso dei migranti. Col risultato che, ora che questa fazione è stata messa in minoranza, e Almasri è stato arrestato, la Libia risulta paradossalmente più rispettosa dell’Italia nei confronti del diritto internazionale e della Corte che lo tutela.

La riforma della giustizia fra tecnica e politica

Non è un episodio incoraggiante in un contesto in cui, da parte del governo e della maggioranza, si continua a ripetere che la riforma della giustizia – in realtà riforma della magistratura – costituisce, come hanno detto la premier e il ministro Nordio, «un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini» e rappresenta  «un traguardo storico (…)  a favore degli italiani»,  e non «una legge punitiva contro la magistratura».

Da qui il moltiplicarsi delle raccomandazioni perché il referendum che dovrà decidere della sua conferma o meno non venga affrontato in una prospettiva politica, ma solo guardando al contenuto tecnico del testo approvato dal parlamento

«Il prossimo step sarà il referendum», ha detto il ministro della Giustizia. «Mi auguro che venga mantenuto in termini pacati, razionali e non politicizzati».  Perciò, ha aggiunto, «è bene che la magistratura, come io auspico, esponga tutte le sue ragioni tecniche ma per l’amor del cielo non si aggreghi a forze politiche per farne una specie di referendum pro o contro il governo».

A favore della riforma

In realtà, ci sono argomenti giuridici che possono giustificare la separazione delle carriere. Essa è la logica conseguenza del passaggio, con la riforma del codice di procedura penale del 1989, dal sistema inquisitorio del processo a quello accusatorio. Quest’ultimo, infatti, è basato sul principio dialettico secondo cui la verità può essere accertata dando spazio alla discussione tra parti – il pubblico ministero e l’avvocato – in una posizione di parità dialettica.

In questa logica la figura del pubblico ministero e quella del giudice si diversificano nettamente e non prenderne atto rende plausibili i timori di chi  imputa all’attuale processo di essere ancora sbilanciato a favore dell’accusa – di fatto ancora troppo legata al giudice – rispetto alla difesa. Da qui anche il pericolo di errori giudiziari a danno di innocenti, di cui purtroppo non mancano esempi anche clamorosi, come il caso di Enzo Tortora.

Oltre a introdurre la separazione della carriere e la conseguente creazione di due distinti Consigli superiori della magistratura, la riforma prevede anche l’introduzione del sorteggio come sistema per la scelta sia dei rappresentanti “togati” che di quelli “laici”, provenienti cioè dalla politica.

Anche qui ci sono motivazioni che possono essere riconosciute senz’altro ragionevoli, in particolare la necessità di ridimensionare il ruolo delle correnti in cui attualmente si distribuiscono i membri della magistratura, dopo le rivelazioni, emerse nel corso del caso Palamara, circa il ruolo che l’appartenenza ad esse ha finora avuto nell’assegnazione di cariche di prestigio nei tribunali.

Da qui, l’opportunità di impedire che, grazie a un sistema elettorale basato sui giochi delle correnti, accedano ai due nuovi CSM persone che poi, per restituire il favore ricevuto, distribuiscano incarichi ai loro sostenitori. L’introduzione del sistema del sorteggio mira a vanificare il peso che le correnti hanno già alla base, annullando il loro ruolo nella scelta dei membri dei due CSM e di conseguenza anche all’interno di essi.

È su questi punti che molti giuristi, al di là degli schieramenti politici, insistono  nell’esprimere il loro favore alla riforma.

Tuttavia…

L’ermeneutica ci ha insegnato, tuttavia, che un testo va letto nel suo contesto. È così anche di quello della legge di riforma, che non è caduto dal cielo, ma si colloca all’interno di un dibattito politico su cui non è possibile chiudere gli occhi.

E il caso Almasri rientra in questo contesto, perché evidenzia, al di là delle assicurazioni, un atteggiamento vittimistico persistente, da parte della nostra premier, nei confronti dei magistrati sia stranieri che, soprattutto italiani, volto a mascherare le reali responsabilità del governo nei confronti del principio di legalità. 

Un vittimismo ereditato, del resto, dal personaggio – Silvio Berlusconi – che rappresenta in qualche modo l’ispiratore e il nume tutelare non solo di Forza Italia (che ne mantiene il nome nel suo simbolo elettorale), ma di tutta la maggioranza,

E al cavaliere, nella sua vita « bloccato da una magistratura ideologizzata», come ha detto la sua compagna Marta Fascina, è stata dedicata questa riforma da tutte le forze di governo. 

Paradossale che, al tempo stesso, si sia potuto sostenere –  come ha fatto il vicepremier Tajani, celebrandola come «un momento storico, una vittoria epocale, politica e morale», con cui «si realizza il grande sogno di Berlusconi». – che essa «non ha nulla a che vedere con le interpretazioni malevole fatte, perché nessuno vuole attaccare la magistratura». 

Ora, senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, nessuno può mettere in dubbio che una riforma fatta in nome di Berlusconi vada “contro” quei giudici che il cavaliere ha sempre accusato di essere  «comunisti» o,  in alternativa malati di mente: «Questi giudici», affermava nel 2003, nella sua veste di presidente del Consiglio, «sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».

Non stupisce, perciò, che, il quotidiano più vicino a Meloni, «Libero», diretto dal suo ex portavoce Mario Sechi, abbi sintetizzato il senso della nuova legge col titolo «Vince Giorgia, brinda Silvio» e una vignetta in cui è rappresentato  Berlusconi pesantemente assiso – schiacciandolo sotto di sé – su un palazzo di giustizia, mentre, in tenuta da veglione di capodanno, brinda esultante.  

La posta in gioco

E sulla scia del cavaliere membri del governo e della maggioranza attuale, con toni sprezzanti, ripetutamente attaccano i giudici, cercando di delegittimarli accusandoli di travalicare per motivi ideologici le loro competenze. .

Proprio alla vigilia dell’approvazione definitiva della riforma, la premier l’ha indicata come «la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza» tornando poi sulla questione, dopo lo stop della Corte dei Conti al progetto del Ponte sullo Stretto, definendolo «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento».

L’idea che la magistratura, come del resto il governo e il parlamento, sia uno dei tre organi costituzionalmente rappresentativi dello Stato e meriti dunque rispetto non sembra neppure sfiorare la nostra presidente del Consiglio e i suoi ministri, molto sensibili, invece, agli attacchi nei confronti dell’esecutivo che, a loro avviso, infangano e danneggiano l’Italia.   

Vengono misconosciute, qui, la logica e le regole dello Stato liberal-democratico, che prevedono precisamente il diritto/dovere dell’organo giudicante di esercitare un controllo sulle attività degli altri due, sanzionandone le eventuali illegittimità.

È questo il senso della separazione dei poterei sancita dalla nostra Costituzione. Ed è questo il senso dell’autonomia di ogni organo rispetto agli altri. la magistratura non può dettare le linee politiche al governo. Ma quest’ultimo non può sindacare le sentenze dei giudici.

È stato detto più volte che per fermare l’azione di un governo e di un parlamento eletti con i voti dei cittadini i giudici dovrebbero a loro volta candidarsi e farsi eleggere. Dimenticando che è la nostra Costituzione ad aver posto un organo che non dipende dal consenso popolare, nella consapevolezza, che il potere assoluto del popolo ha sempre portato ai totalitarismi.

Le ragioni tecniche a favore della riforma non possono per questo essere dimenticate. Ma il clima in cui sono state fatte valere è chiaramente politico e non nel senso in cui questo termine indica il riferimento al bene comune, ma nell’accezione meno nobile, che identifica la politica con il gioco dei partiti.

In un quadro più sereno, si potrebbe pensare al modo di garantire la parità tra accusa e difesa, ma senza creare un corpo separato di pubblici ministeri consacrati univocamente all’accusa e a rischio, perciò, di diventare veramente un pericolo per la corretta amministrazione della giustizia.

Così come si dovrebbe studiare insieme il modo di evitare l’indebita ingerenza delle correnti nelle nomine degli alti magistrati, senza dover ricorrere a un sistema come quello del sorteggio, che mortifica la logica della rappresentanza, sottraendola alla scelta dei rappresentati e consegnandola al caso.

Questo dovrebbe accadere in un paese democratico. Adesso la parola va ai cittadini, nella speranza che essi siano più capaci di sviluppare un confronto più simile al dialogo di quello che si è svolto finora in parlamento. Ma deve essere chiaro che la posta in gioco non è il funzionamento della magistratura, ma la comprensione e il rispetto dello spirito della nostra Costituzione.

www.tuttavia.eu


 

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