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giovedì 14 dicembre 2017

IL BUON SENSO DEL NON SENSE. Insegnare la lingua italiana.


L’importanza del giocare 
con le parole per esplorare 
i recessi profondi del linguaggio

                                                                                                                                                     
Gli insegnanti si chiedono spesso in che modo trasmettere la passione per la lingua italiana e per i testi letterari a studenti magari un po’ restii ad apprezzare l’arte della parola scritta. Non c’è dubbio che una delle strategie più efficaci in termini di trasmissione del sapere (e questo vale per tutte le materie) sia il divertimento. Quando si diverte, il ragazzo impara meglio e più volentieri. Ciò vale non soltanto nella scuola primaria, ma anche in quella secondaria, medie e superiori. Questo perché attraverso la modalità del gioco e del sorriso si innesca uno stato d’animo in cui l’emozione diventa produttiva in termini di conoscenza. Si può provare a insegnare così anche l’italiano e la letteratura. Due libri usciti di recente offrono spunti interessanti in tal senso. Il primo è la riproposta, presso Einaudi, dei “Versi del senso perso” di Toti Scialoja (prefazione di Paolo Mauri, pagine 290, euro 13,00); il secondo un ricco saggio di Stefano Bartezzaghi dal titolo “Parole in gioco. Per una semiotica del gioco linguistico” (Bompiani, pagine 272, euro 17,00).
Vissuto tra il 1914 e il 1998, Scialoja è stato pittore, scenografo e poeta. Nel 1989 aveva raccolto in quel volume tutte le sue poesie, a lungo riservate a un pubblico di amici.
Versi divertenti, adatti ai bambini, ma capaci di strappare un sorriso, o magari una riflessione trasognata, anche ai grandi: «Topo, topo, / senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?». O ancora: «Sul lido ionico / sbuca da un fornice / di pietra pomice / una formica / dagli occhi d’onice / e si precipita / nel Mare Ionio». 
 Non mancano i rimandi metaletterari (come in questi versi che richiamano il Dante del primo canto del Purgatorio, «sì che di lontano / conobbi il tremolar della marina», magari mediato dal D’Annunzio della lirica I pastori: «O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della marina!»): «A mezzogiorno, nella luce piena, / sui tavolini del Caffè Ruschena, / conobbi il tremolar dell’amarena». Si chiedeva Giorgio Manganelli: «Non sarà Scialoja un petrarchesco che si è bruscamente accorto di quante possibilità offre una meticolosa dementia praecox? ». 
In realtà, la lucidità dei suoi giochi linguistici è estrema. Come scriveva lo stesso Scialoja, «nel nonsense la parola è alla prova del nulla». Il saggio di Bartezzaghi, a sua volta, mostra come l’odierna cultura di massa abbia ripreso dalla classicità e dal folkore l’abitudine alle combinazioni linguistiche per adattarle alla contemporaneità: dall’enigmistica alla pubblicità, dalla satira ai tweet. Insomma, quello che va capito è che i giochi di parole non sono un ozioso passatempo per umoristi un po’ retrò, ma che possono al contrario valere come utili esercizi per sviluppare un’approfondita conoscenza del lessico, della grammatica, della sintassi, e da ultimo per avvicinare con maggiore consapevolezza, favorendo l’acquisizione di tali competenze, alla letteratura stessa. 
In un libro del 1986, dal titolo “I Draghi loco pei! (riproposto da Einaudi una decina d’anni fa), Ersilia Zamponi, docente di Lettere presso la Scuola media “Gianni Rodari” di Crusinallo (frazione di Omegna, in provincia di Verbania), aveva raccolto i materiali relativi alle attività da lei realizzate con i suoi studenti in alcuni corsi pomeridiani di “giochi di parole” (il titolo dell’opera era appunto un anagramma dell’espressione “giochi di parole”; “locopei” è aggettivo inventato).                          L’autrice pensò bene di mandare una copia del volume a Umberto Eco, accompagnando l’invio con una lettera in cui gli assicurava che quelle attività erano state organizzate «oltre il normale programma". L’illustre semiologo, che mostrò di apprezzare molto il libro, le rispose così: «Si rassicuri, signora, questi esercizi potrebbe benissimo farli “invece” del programma». E proseguiva: «Infatti se l’insegnante fa rovesciare il senso di una poesia, siamo ben al di là del gioco: perché per rovesciare il senso, occorre prima capirlo, e poi esplorare il vocabolario, ed esercitare il buon senso... Non vedo a che cosa altro debba servire la scuola».
           Aveva proprio ragione.
Roberto Carnero


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