Al di
là delle news,
la crisi della natalità
di Giuseppe Savagnone
Avrebbe
forse meritato maggiore attenzione, da parte della stampa e dell’opinione
pubblica, il dato, pubblicato in questi giorni, dall’Istat, secondo cui nel
2019 il numero delle nascite, in Italia, è ulteriormente diminuito di 19.000
bambini (-4,5%) rispetto all’anno precedente, toccando un minimo storico dal
tempo dell’Unità. Abituati come siamo a lasciarci polarizzare dalle novità che
“fanno notizia” – le news –, rischiamo di non percepire
la direzione dei grandi processi a medio e lungo termine che maturano anno per
anno, e da cui in realtà il nostro futuro dipende molto più che da singoli
eventi su cui tanto si discute.
Il
riflesso sulle pensioni
In
questo caso la gravità della situazione avrebbe dovuto essere percepita se non
altro alla luce dall’altro dato, anch’esso ufficiale, che il numero delle
pensioni erogate dall’Inps, nel nostro Paese, ha superato per la prima volta
quello degli stipendi. Perché non è necessario essere particolarmente inclinati
alla matematica per aver chiaro che cosa questo significhi per le future
generazioni. In passato un lavoratore poteva contare, per ricevere la meritata
pensione, sui prelievi che lo Stato faceva dagli stupendi dei suoi due o tre
figli. Era una piramide la cui base, normalmente abbastanza ampia (i figli a
volte erano anche più d due o tre), di soggetti produttivi, sosteneva senza
problemi il vertice, costituito dal pensionato.
Era
già allarmante, nel recente passato, la progressiva riduzione di quella base.
Il numero di giovani lavoratori che potevano mantenere gli anziani a riposo è
andato diminuendo sempre di più. Oggi sappiamo che il rapporto è
addirittura sceso al di sotto della parità. Grazie anche a riforme come
quella della “quota cento”, fatta dal precedente governo, che ha ulteriormente
favorito l’aumento dei pensionati (220.000 in più rispetto all’anno
precedente). Se continua così, chi verrà dopo di noi, i nostri figli, non potrà
più avere la ragionevole fiducia di godere, alla fine del proprio servizio
professionale, di un reddito garantito. Si parla tanto di “diritti”, ma noi
stiamo sistematicamente violando – in questo come in altri campi – quelli delle
generazioni future.
L’occasione
sprecata degli stranieri
Per
un certo periodo a compensare questi vuoti c’è stata l’immigrazione, con
l’arrivo di lavoratori stranieri i cui stupendi hanno dato ossigeno al nostro
sistema pensionistico. Il precedente presidente dll’Inps, Tito Boeri – silurato
dal governo giallo-verde anche per questo –, si era sforzato disperatamente di
spiegarlo, dati alla mano, chiedendo una politica di progressiva integrazione
che permettesse di fa passare dal lavoro “in nero” a quello “in regola” i
cosiddetti “clandestini”. I “decreti sicurezza” – emanati dal Conte 1 e mai
abrogati dal Conte 2, malgrado il cambiamento della formazione governativa
– hanno messo una pietra tombale su questo progetto, rendendo sempre più
difficile quella integrazione e respingendo gli stranieri verso un quasi
inevitabile permanenza nella clandestinità.
Un
Paese di vecchi
Ma
l’emergenza pensionistica è solo un aspetto – sia pure di immediata
rilevanza economica – di un problema più ampio. Stiamo sempre più diventando un
Paese di vecchi. Il tasso di natalità è di 1,5 figli per donna, quando ce
ne vorrebbero almeno due per mantenere il nostro livello di popolazione.
Perfino gli stranieri, che avevano in una prima fase sopperito a questo deficit
di natalità e contribuito a mantenere discretamente alto il numero degli alunni
nelle nostre scuole primarie, da una parte sono stati scoraggiati dal venire in
Italia (-8,6%) dall’altra sembrano essersi adeguati al trend degli italiani.
Il
risultato, secondo lo studio Istat, è che la nostra popolazione
dovrebbe scendere dai 60 milioni e 391mila residenti del 2019 ad appena 28
milioni alla fine di questo secolo. Anche altri Paesi del mondo stanno avendo
una flessione, ma noi siamo in prima linea.
La
mancanza di una politica per la famiglia
Le
cause ovviamente sono tante. Una però è subito evidente, ed è la mancanza di
una seria politica a favore della famiglia tradizionale – quella, per
intenderci, che genera figli – e della maternità. Nella crescente
attenzione ai diritti individuali l’Italia è rimasta sempre più indietro,
rispetto anche ad altri Paesi europei, nel sostegno alla comunità familiare
come tale, anzi ha promosso una serie di misure legislative, in nome della
libertà individuale, che ne indebolivano i legami costitutivi, senza
controbilanciarle – come invece si è fatto altrove – con altre che almeno
incoraggiassero comunque alla generazione di figli.
Già
al tempo del referendum sull’aborto
Il
problema, del resto, ha radici antiche. Clamoroso il fatto che, già nella
storica disputa sulla legalizzazione dell’aborto, non si sia mai pensato, prima
di arrivare allo scontro sui princìpi, a promuovere di comune accordo – fautori
e oppositori – una politica che, predisponendo una serie di contributi e
di servizi, rendesse comunque più libera la scelta delle donne, dando loro,
prima che il triste diritto di interrompere la gravidanza, quello di portarla a
termine. Dall’una e dall’altra parte, si sono fatte dichiarazioni, si sono
enunciati grandi valori, e non si è fatto quello che era più ovvio e più
necessario.
Nessuna
meraviglia: si era al tramonto di una stagione in cui a governare era stato il
partito dei cattolici, da sempre entusiasti tutori della sacralità della
famiglia, ma che non aveva fatto per essa nemmeno la metà di quello che si era
invece fatto nella laicissima Francia.
E
si è continuato sempre così, fino ad oggi. Molta retorica, sovrabbondanti
promesse, qualche occasionale bonus bebè, ma non un’organica legislazione in
grado di incoraggiare la generatività. C’è da stupirsi che siamo agli ultimi
posti nel mondo?
Il
problema del lavoro
Al
di là dei fattori che riguardano direttamente la famiglia, ce ne sono altri che
l’hanno colpita indirettamente. Penso alla difficoltà di trovare un lavoro
prima di un certa età (e talvolta anche dopo…), che ovviamente ritarda la
possibilità per le coppie di progettare di avere un figlio. Oppure, anche
quando il lavoro c’è, alla sua precarietà (pardon, in politically correct si
dice “flessibilità”): chi può pensare di mettere al mondo un bambino
quando sa che il suo contratto scade dopo un anno? E questo già prima della
pandemia. Che succederà adesso?
Non
solo biologia
La
mancanza di fecondità degli italiani non è però solo un fatto che riguarda la
biologia. Da molti anni si parla di un “declino” dell’Italia che non è tanto
una questione demografica o, come alcuni credono, economica, ma riguarda le
risorse più profonde di vitalità del nostro Paese. del resto, sono gli
economisti a sottolineare che la decrescita del Pil dipende da una crisi della
produzione, che a sua volta deriva da quella del consumo, le cui origini vanno
cercate in una diffusa sfiducia. Manca la speranza nel futuro.
La
rabbia e la paura non generano nulla
Le
passioni dominanti di questi ultimi anni sono state la rabbia e la paura. Ma
con esse non si genera nulla. Con la rabbia si rimpiange qualcosa del passato
che si è perduto, con la paura ci si trincera nell’esistente, difendendolo con
le unghie e con i denti. Perché si possa generare bisogna, invece, aprirsi al
futuro, preferire il rischio alla sicurezza, immaginare ciò che ancora non
esiste invece di aggrapparsi a ciò che non esiste più.
La
mancanza generatività biologica è così una metafora di quella spirituale e
culturale che ci rende un Paese di vecchi anche a prescindere dall’anagrafe.
Non mancano, naturalmente le eccezioni che potrebbero essere invocate per
smentire questa diagnosi. Ma è pur vero che molte grandi espressioni del genio
italiano sono state possibili proprio per il fatto che sono state realizzate
all’estero.
Tornare
a generare per riscoprirsi un popolo
In
ogni caso, resta il problema di fondo di un risveglio delle risorse morali e
spirituali del nostro popolo. La ripresa economica, che pure è una urgenza
assoluta, in questo momento difficilissimo, non può essere affidata solo a
misure che piovono dall’alto. A parte le perplessità – che purtroppo condivido
– sull’efficacia di queste ultime, anche nella migliore delle ipotesi esse non
possono sostituire uno spirito di iniziativa, una creatività, un coraggio che
esige l’impegno di tutti. Per uscire dalla crisi bisogna di nuovo ritornare a
generare: non solo figli, ma anche idee, esperienze, relazioni costruttive…
Magari riscoprendo, così, di essere quello che ci siamo dimenticati di essere:
un popolo.
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