Il coronavirus ci fa riscoprire
l’ambivalenza dell’umano
- Giuseppe Savagnone
Il coronavirus,
sconvolgendo le regole della quotidianità, sta evidenziando l’ambivalenza e
l’imprevedibilità del “fattore umano”, come avveniva in passato durante le
guerre, quando il pericolo faceva uscir fuori in ognuno risorse di coraggio
insospettate fino ad allora, oppure fragilità nascoste. C’è un modo costruttivo
di reagire alla drammatica sfida di questa epidemia, e ce n’è uno che può
distruggerci. In ogni caso siamo davanti a una prova che ci costringe a
chiederci chi siamo e, soprattutto, chi vogliamo essere.
Un nuovo contesto spaziale…
All’origine di
questa prova ci sono le condizioni quasi surreali in cui le nostre giornate
trascorrono. Privati della corazza delle preoccupazioni e delle attività
abituali, stiamo avendo tutti una nuova percezione dello spazio e soprattutto
del tempo.
Vivere giorno dopo
giorno, per settimane, fra le pareti di un luogo chiuso, è un esperimento che
forse avevamo visto fare con i topi, per verificarne le reazioni, ma di
cui non ci saremmo mai immaginati di diventare noi i protagonisti. Con esiti
diversi, ma egualmente problematici, se si vive da soli o in famiglia.
Nel primo caso, a
pesare è l’innaturalità dell’assenza di rapporti umani. Abbandonati come
Robinson Crusoe nella sua isola, si è liberi sì, ma di una libertà che si
rivela un vuoto e che suscita la fame di sentire la voce di altre persone.
Nel secondo, di
persone ce ne sono anche troppe, perché non si era abituati a dividere con loro
il proprio spazio vitale, col rischio di urtarsi (e non solo fisicamente) ad
ogni parola detta e ad ogni movimento fatto.
Giocano molto anche
fattori materiali: altro è vivere questa forzata reclusione in un appartamento
spazioso, provvisto di tutti i confort, altro trovarsi a gestire un gruppo
familiare numeroso in un angusto bivani, o in una casa senza riscaldamento.
…e temporale
Ancora più irreale è
il rapporto con un tempo che è improvvisamente diventato lunghissimo, svuotato
com’è dagli appuntamenti che lo scandivano. Anche chi ha continuato a studiare
e a lavorare da casa, lo fa ormai con margini di libertà molto più ampi e senza
essere incalzato dalle scadenze che prima scandivano la sua giornata. C’è poi
chi, nel nuovo contesto, ha poco o nulla da fare e che la mattina, alzandosi
dal letto, guarda alle ore che lo aspettano come a una immensa pianura senza
strade e senza segnaletica.
Qui soprattutto
possono pesare differenze culturali: questo vuoto acquista un peso diverso per
coloro che sono abituati alla lettura e per quelli che non lo sono; per i
ragazzi che, sapendo padroneggiare i mezzi telematici, potranno
egualmente seguire le lezioni collegandosi on line, e per quelli sprovvisti di
queste competenze.
Alla prova della solitudine
In questa nuova
situazione le persone stanno reagendo nei modi più disparati, riconducibili
però a due alternative fondamentali. C’è chi, nella solitudine, ha
l’impressione di impazzire e chi, invece, scopre con stupore di poter vivere
anche senza aggrapparsi agli altri.
Per i primi il
silenzio risulta insopportabile, e reagiscono tuffandosi nei social, magari
inviando ai loro conoscenti raffiche di foto, barzellette, clamorose notizie
più o meno veritiere raccattate sulla rete (è il trionfo delle fake news).
I secondi possono
viverlo come una liberazione dalle vuote chiacchiere della routine quotidiana
e l’inattesa scoperta del proprio mondo interiore, in cui far risuonare il
grande grido di dolore che in questi giorni si leva tutt’intorno .
Gli altri possono essere
“inferno”…
Anche nella forzata
coabitazione di gruppo scattano comportamenti di segno opposto. Ci sono
famiglie per cui vivere insieme tutto il giorno è un dramma, o perlomeno un
problema. Per alcune coppie il vivere in gran parte fuori casa, in ambienti
diversi, ritrovandosi solo in alcune ore, consentiva il mantenimento di un
discreto, anche se fragile, equilibrio. Costretti a stare tutto il giorno
insieme, si può scoprire di avere ben poco da dirsi. E la noia è un pessimo
indizio in una vita di coppia.
Per non dire che ci
sono situazioni in cui il rapporto era già così logorato dalle reciproche
incomprensioni da ricordare la triste considerazione di Jean-Paul Sartre:
«L’inferno sono gli altri». Si può passare il tempo a litigare per ogni minima
cosa, fingendo di confrontarsi, ma in realtà solo per dirsi “no” a vicenda.
Ci può essere di
peggio. Proprio in questi giorni si è parlato sui quotidiani della condizione
di donne esposte a violenze domestiche, che non sanno, in questa situazione,
come sfuggire ad esse.
Qualcosa di analogo
può accadere fra genitori e figli. I più giovani sono sottoposti, in queste
circostanze, alla prova più dura. La loro voglia di vivere, di uscire, di
frequentare amici, di vedersi con il proprio ragazzo o la propria ragazza, è
pesantemente frustrata. Da qui la maggior suscettibilità, le tensioni, gli
scatti d’ira da parte dei figli nei confronti dei genitori e l’esasperazione di
questi ultimi nei confronti dei figli.
…oppure, se non “paradiso”,
“purgatorio”
Ci sono però anche
famiglie che stanno cercando di cogliere il positivo in questa forzata
convivenza h24. Essa può essere l’occasione, per una coppia, di parlare
finalmente con calma di se stessi, del proprio rapporto, dei propri problemi.
Può sembrare strano, ma in un rapporto di coabitazione questo avviene molto di
rado. La comunicazione, spesso, è soprattutto funzionale alla gestione della vita
familiare e dei problemi pratici che essa comporta. Proprio perché ci si vede
sempre, si crede di essere vicini. Ma quello che ognuno dei due vive nel suo
intimo non sempre riesce a trovare il modo di esprimersi. E perfino la
comunione fisica realizzata nel rapporto sessuale può diventare una copertura
delle rispettive solitudini.
Stare in casa tutto
il giorno crea le condizioni favorevoli a comunicare “davvero”. A guardarsi. A
manifestarsi la gioia di volersi bene, scambiandosi quegli atti di attenzione
che esplicitano un amore troppe volte dato per scontato… A fermarsi, per poter
finalmente dirsi le parole non dette per la fretta di andare al lavoro o per la
stanchezza dopo una giornata stressante in ufficio.
Non è detto che
questo porti pace. Tra l’inferno dei reciproci insulti e i paradiso di una
famiglia sul modello del “mulino bianco” c’è la più probabile via intermedia di
una reciproca correzione, dolorosa ma salutare, che sarà per entrambi una
specie di purificazione – un purgatorio –, ma nella fiducia di volersi
bene.
Oltre la portaerei
Anche con i figli il
rapporto in questi giorni può essere più difficile, ma anche più costruttivo.
La vera emergenza educativa, nella nostra società, è costituita dalla mancanza
di tempo per dialogare. I genitori, specialmente se impegnati entrambi fuori
casa per lavoro, ne hanno ben poco per fermarsi e ascoltare. Fanno, sì, domande
ai loro figli – «com’è andata a scuola?», «ti sei divertito alla gita?»;
«ma chi è quel ragazzo con cui ti ho visto più di una volta?» –, ma non sono
quelle giuste. “Ascoltare” non significa voler sapere, in breve, quello che ci
interessa, ma lasciare che l’altro dica, prendendosi il tempo di cui ha
bisogno, quello che interessa a lui. Il genitore indaffarato e frettoloso non è
in grado di aver questa pazienza.
Reciprocamente, i
figli non sono spontaneamente inclini a parlare delle proprie cose. A volte per
pudore, a volte per la sfiducia di poter essere capiti, a volte perché non
vedono nei genitori persone capaci di ascoltarli davvero.
I riti della vita
quotidiana favoriscono in modo decisivo questa incomunicabilità. Non ci sono
più i momenti comuni di una volta, quando la sera si mangiava insieme e ci si
raccontava a vicenda la giornata trascorsa. Già la televisione aveva interrotto
questo scambio. Ma almeno si assisteva allo stesso programma. Oggi ormai spesso
non si mangia nemmeno più insieme o lo si fa per fuggire via subito dopo. Molte
famiglie danno così l’idea di una portaerei su cui continuamente atterrano
degli aeroplani mentre altri ne decollano, senza incontrarsi.
Ora che i voli sono
vietati – tutti a casa –, e si è obbligati a stare insieme, i genitori possono
avere più tempo per ascoltare e i figli per parlare. Anche in questo caso non
bisogna farsi illusioni: il percorso è difficile e può intrecciarsi con fasi
che ricordano il clima di scontro di cui parlavamo prima. Ma è una opportunità
che alcuni stanno riuscendo a sfruttare.
Non è un destino
Queste alternative
non sono così nette come può sembrare dalla presentazione che ne abbiamo fatto.
In realtà tra i due estremi c’è tutta una gamma di situazioni dove luci e ombre
coesistono e si mescolano. Resta vero che la maledizione del coronavirus, se da
un lato sta seminando sofferenze inaudite e morte, dall’altro ci pone di fronte
a noi stessi e ci impone delle scelte. Non certo scelte asetticamente libere:
abbiamo visto quanto sia grande il peso dei condizionamenti esterni in una
situazione che è comunque patologica. Eppure, in una certa misura è anche dalla
nostra consapevolezza e dai nostri sforzi – o, viceversa, dalla nostra resa
passiva alla sfida del coronavirus –, che dipende ciò che saremo diventati,
quando tutto questo sarà finito.
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