L'ACCOGLIENZA: ANTIDOTO AGLI STECCATI
Barriere, frontiere, muri... La modernità genera un bisogno di nuove
fortificazioni, con conseguenze tutte da valutare.
Dibattito fra i
filosofi Forti e Ronchi
Il concetto di confine. Un tema che oggi, più che mai, è attuale e fa
da cerniera tra vita individuale e collettiva, tra soggetto, mente e
città. Un tema che coinvolge non solo la politica, ma anche la società
tutta, con la sua ricaduta nella contemporaneità, su temi quali
l’accoglienza e le migrazioni, in un’epoca in cui spesso la paura
attraversa le nostre strade, provocando un brontolio che proviene sì dal
basso, ma che ha origini forse più antiche, che si ripercuotono dalla
storia dell’umanità, fino ai giorni nostri.
Il concetto di confine,
paradossalmente, ha una doppia valenza: può significare vicinanza,
adiacenza, contiguità tra ciò che è limitrofo, ma al tempo stesso può
estremizzare, creare una barriera, una frontiera, un muro. E
nonostante il nostro sia un mondo che ha fatto della globalizzazione il
suo simbolo, invece di aspirare a una dimensione universalistica,
sempre più spesso si alzano muri, segnando a tutti gli effetti un
confine, anche fisico, con l’esterno, il diverso, lo straniero. Ed è
proprio in questo solco che si inserisce la riflessione di Simona
Forti, docente della New School for Social Research di New York:
«Questo è davvero uno dei paradossi della nostra epoca.
Alla fine del
’900, la caduta del muro di Berlino non ha soltanto solleticato
l’illusione di una 'fine della storia', ma anche il sogno di
uno spazio liscio, senza confini e barriere. A uno sguardo anche
superficiale appare chiaro che al processo di globalizzazione
corrisponde una sorta di ri-feudalizzazione: la costruzione di nuove
fortezze, di nuovi muri, di feudi protetti e isolati. In poche parole, è
come se al declino degli Stati sovrani - quella che viene definita la
fine del modello Westfalia - si rispondesse con l’erigere 'stati
murati', come dice Wendy Brown.
Se si pensa alla proliferazione non di frontiere, ma di muri veri e
propri, di controlli sfinenti, ovunque nel mondo, non si può che
rimanere stupefatti. Più cresce il numero di agenzie internazionali,
più veloce diventa la circolazione di flussi informatici e finanziari
globali, più si hanno risposte difensive e reattive. Più si indebolisce
la sovranità territoriale, più le differenze locali cercano di murare
se stesse. Piccoli o grandi che siano, i privilegiati, nati e cresciuti
in un luogo al momento 'fortunato', allontanano da sé, senza pietà,
lo spettacolo di un’umanità dolente, non tanto perché portatrice di una
diversità inconciliabile, quanto piuttosto perché spettro di ciò contro
cui il temporaneo privilegio non appare più come garanzia. È ovvio
che l’accoglienza dell’immigrazione va gestita, non improvvisata e
soprattutto non sfruttata. Ma chiunque legga i numeri, le statistiche,
non può davvero pensare che in essa stia 'il problema'.
Al concetto di
confine, poi, si può legare quello di territorialità, introducendo un
ulteriore elemento nella riflessione: la nozione di identità, indagata
insieme a Rocco Ronchi, fondatore e docente della Scuola di Filosofia
Praxis: «La nozione di identità è spesso utilizzata come arma nel
dibattito politico e culturale contemporaneo, ma in realtà è una
nozione complessa, in parte legata a una dimensione profondamente
immaginaria. L’identità diventa un problema nella misura in cui è
compromessa, nel momento in cui se ne avverte la perdita.
Senza
sradicamento non c’è un’interrogazione sul tema di identità,
soprattutto per chi lo rivendica come valore forte e come principio
politico. Lo sradicato ha bisogno di un
confine che gli assicuri una realtà immaginaria, ma anche quello di
confine è un concetto ambiguo. Se non è stato trasgredito, non si
disegna, e risponde inoltre a un bisogno di sicurezza che è
espressione stessa dell’identità minacciata. Il punto è che dove c’è
sradicato, c’è bisogno di dualismo. Di un nemico e un amico, concetti
su cui si basano i pensieri identitari, perché senza nemico non c’è
identità».
Il tema di
'immaginario', a partire proprio dal senso contemporaneo di
sradicamento, è una sensazione, però, che trascende in una dimensione
geografica, quindi anche culturale; in questo senso, allora, si può
davvero parlare di confini 'fisici', quindi geografici, e confini
'immaginari', oppure stiamo parlando dello stesso grande contenitore su
cui costruiamo la nostra identità? «Credo sarebbe un enorme
risultato educare, per così dire, alla disidentificazione – spiega
ancora Forti – a percepire il paradosso di un doppio movimento, per il
quale le nostre identità sono l’esito di un impulso necessario, ma al
contempo sono risultati contingenti e transitori. So di essere
provocatoria, e in minoranza, ma sono convinta che se invece di
insistere sul multiculturalismo, quale visione che cerca di far
coabitare le differenze etniche e culturali, puntassimo sulla
consapevolezza di un io e di un noi già internamente segnati dalla
differenza con se stessi, il cambiamento di atteggiamento non sarebbe
solo locale e temporaneo, ma profondo, oserei dire rivoluzionario. La
politica ha sempre giocato su questo bisogno di protezione e di
identità. Senza una sua canalizzazione politica e culturale, il nostro
'bisogno di confini' rimarrebbe comunque, e non è detto che si
tradurrebbe in una modalità più accettabile».
Rispetto a questa tematica, Ronchi ipotizza anche una via d’uscita
dialettica, propria della narrativa del concetto, cercando di assumere
positivamente il senso di sradicamento, se lo vedessimo «non come
minaccia, ma come condizione dell’essere umano, quindi dell’homo viator,
immerso nella dimensione del viaggio - essenza stessa dell’uomo -
cambierebbe il rapporto con il concetto. In una dimensione psicologica,
poi, la questione di confine e identità sono legate a una proiezione
immaginaria che va a soddisfare o alimentare paure, nelle quali si
cerca di creare un’identità posticcia ma rassicurante.
Il mondo
globalizzato è una grande esperienza speculativa e filosofica, ha
aspetti che tutti conosciamo e che sono criticabili, ma come principio
restituisce all’umanità la sua autentica dimensione, che è universale:
«un solo mondo, un solo uomo». Identità, confine e memoria, in
definitiva, si intrecciano su concetti quali distanza e perdita,
superamento e trasgressione, esodo e condizioni dell’uomo, in un
costante oscillare tra finis, che «ci restituisce l’idea di confine come barriera», spiega Forti, e limes, che «rimanda invece ad un’accezione di confine come filtro, come permanente negoziazione su chi è dentro e chi è fuori».
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