Dal 1995 tre milioni e mezzo di abbandoni: 2 italiani su 5 hanno solo la terza media.
In una lettera ad Avvenire una proposta per vincere la dispersione scolastica.
Caro direttore, «Non uno di meno, No child left behind, Zones d’éducation prioritaires»: ma perché solo in Italia non si è ancora capito che i ragazzi persi dalla scuola e quelli che non arrivano a un livello sufficiente di competenze rappresentano un problema urgente, grave, improcrastinabile? Eppure da anni se ne discute e si indicano possibili soluzioni, ma si continua a sottovalutare la fuga da scuola di un esercito di adolescenti, enfatizzando, invece, altri problemi. Un dossier di Tuttoscuolaappena pubblicato mette di nuovo davanti agli occhi una realtà drammatica, che i lettori di Avvenire conoscono già bene: dal 1995 a oggi 3 milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola statale, il 30%. Almeno 130 mila adolescenti che iniziano le superiori non arriveranno al diploma e 2 italiani su 5 non hanno un titolo di studio sopra la licenza media, mentre un giovane su 4 non studia e non lavora, i cosiddetti Neet: Not (engaged) in education, employment or training; concetti che fotografano i 'no' che la società italiana ha detto loro.
Complessivamente, su 100 iscritti alle superiori solo 18 si laureano; il 38% dei diplomati e laureati che restano non trovano un lavoro corrispondente al livello degli studi che hanno fatto. 55 miliardi di euro di formazione buttati via, anche se il problema principale non sono certo solo le risorse, ma lo spreco di vita, speranza e futuro. Dati dai quali emerge una scuola stanca, con enormi disuguaglianze territoriali, cui non si chiede una seria rendicontazione ( accountability), anzi si diluiscono tutti i tentativi di distinguere i livelli di impegno, insegnanti con un’età media troppo alta, presi di mira da famiglie aggressive che difendono i figli anziché responsabilizzarli. Gli Early School Leavers («ragazzi che lasciano la scuola ») in Italia diminuiscono, ma troppo lentamente: la media nazionale è il 13,8% e l’obiettivo è il 10% nel 2020. Di questo passo, non ci arriveremo. Il governo sembra distratto, incapace di affrontare con decisione questo fenomeno di disprezzo dello studio e della cultura, che coincide con il declino e l’affanno dell’economia, con un voto emotivo e poco informato, con la fatica a leggere un giornale o un libro e capire i problemi: insomma un’utile ignoranza. Intanto, il sapere ormai è nel web, mobile e potenzialmente infinito, senza che questa trasfor-mazione epocale dell’apprendimento abbia aperto una seria riflessione nelle nostre classi dirigenti.
Abbiamo il record negativo in Europa di persone la cui posizione dipende dallostatustrasmesso dalla famiglia, come dimostra il 'Rapporto Fair Progress?' della Banca Mondiale. Di generazione in generazione, addirittura da secoli, si trasmettono le opportunità o gli svantaggi.
Certo, questo dipende dal modo in cui si spende il patrimonio sociale della famiglia a favore dei figli. Ma la scuola potrebbe fare la differenza relativamente a queste disuguaglianze di partenza. Infatti, comunque studiare conviene, visto che un laureato ha tre volte più possibilità di trovare lavoro di chi ha la terza media. La scuola italiana non assolve il suo ruolo di 'grande egualizzatrice'. Chi nasce in un ambiente povero del Sud, anche senza ammetterlo consciamente, 'sente' di essere destinato/a all'insuccesso. La scuola può restituire loro soprattutto la fiducia di poter imparare in modo felice, e quindi essere diversi da quello che il destino della loro nascita ha preparato per loro. Un’esperienza felice a scuola non produce solo un titolo di studio, ma soprattutto fiducia e speranza – di cui l’Italia ha un enorme bisogno – di potercela fare.
Nel 2014 l’'Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica' della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera affrontava il tema proponendo una politica per gli studenti (e non solo del personale) che avesse la riduzione della dispersione come obiettivo. Nel gennaio 2018 il documento Miur 'Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa' ne riproponeva gli obiettivi. È necessario raccogliere questa priorità, mentre anzi si cominciano a vedere passi indietro preoccupanti: si rimanda l’introduzione del test Invalsi, basato sulla comprensione e sulla logica, all'esame di maturità; si dichiara 'fallita' l’alternanza scuola-lavoro, proprio uno degli aspetti della 'Buona scuola' (certo, da migliorare) che più avvicina alla concretezza del lavoro.
La proposta al governo è assumere un obiettivo politico chiaro: ridurre considerevolmente entro il 2020 la dispersione scolastica: creare subito una cabina di regia al Ministero, potenziare la formazione professionale, monitorare e favorire l’apertura della scuola al pomeriggio e in estate, formare gli insegnanti alla comprensione del rapporto tra svantaggio sociale e apprendimento, aiutarli a motivare alla conoscenza nell’era di internet, individuare precocemente i segnali di fragilità, dare attenzione alle reti territoriali di extrascuola – molte del mondo cattolico – che in questi decenni hanno sostenuto i bambini, adolescenti e giovani, specie migranti, e dato seconde opportunità a chi aveva lasciato la scuola.
*Ordinario di Pedagogia Università Cattolica di Milano
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