“Ho
osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono
che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre
dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne.
Meglio riempire un palmo di calma che due manciate di affanno e
compagnia di vento” (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della
sua società e alle sue vanità.
Vede ‘sotto il sole’ uomini
che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet
non è l’anima dello sviluppo ma solo il risultato dell’invidia sociale.
Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, ‘gare
posizionali’ senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo
vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio:
hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di
questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le
braccia nell’inattività.
Neanche questa è sapienza. È
stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena. E poi
ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo
possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla ‘consolazione’. Le
due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se
è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le
occupa col solo lavoro frenetico.
Il frutto del lavoro e
dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di
non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato
dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre. La
nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato
vita ad una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un
legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia
inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro,
non sono braccia generatrici di benessere né di gioia.
Nella corsa che la civiltà
occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la
seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di
vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti
‘tempi’. In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza
dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi
lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro
ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e
solo per il lavoro.
È difficile dire se oggi
soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il
manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro
poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici.
Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo
come follia e vanitas, e la incentiviamo. È il rapporto tra l’uno e il
due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: “E tornai a
considerare quest'altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non
due], non ha nessuno, né figlio né fratello. C'è chi per arricchirsi depreda anche fratelli e parenti, e distrugge i legami familiari, parentali e amicali. Eppure senza fine si
affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: «Ma per chi è il
mio penare, per chi mi privo di felicità?».
Fumo anche questo, misera
sorte” (4,7-8). Siamo di fronte ad una pagina stupenda, un vero e
proprio distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto
profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un
uomo solo, che lavora troppo, sempre (‘senza fine si affatica’), e la
molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la
chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa
non sazia, non appaga il nostro cuore.
Alimenta soltanto la fame
di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o
l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E
la giostra continua a girare, sempre più a vuoto. D’un tratto .......
Leggi: LA RICCHEZZA CHE NON SAZIA
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