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martedì 31 ottobre 2017

LA RICCHEZZA NON CONDIVISA NON SAZIA, MA DISTRUGGE

Riflessione biblica 

alla 48a Settimana Sociale 

dei Cattolici Italiani

“Ho osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne. Meglio riempire un palmo di calma che due manciate di affanno e compagnia di vento” (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della sua società e alle sue vanità.
Vede ‘sotto il sole’ uomini che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet non è l’anima dello sviluppo ma solo il risultato dell’invidia sociale. Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, ‘gare posizionali’ senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio: hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le braccia nell’inattività.
Neanche questa è sapienza. È stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena. E poi ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla ‘consolazione’. Le due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico.
Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre. La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato vita ad una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro, non sono braccia generatrici di benessere né di gioia.
Nella corsa che la civiltà occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti ‘tempi’. In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro.
È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo come follia e vanitas, e la incentiviamo. È il rapporto tra l’uno e il due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: “E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non due], non ha nessuno, né figlio né fratello. C'è chi per arricchirsi depreda anche fratelli e parenti, e distrugge i legami familiari, parentali e amicali. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: «Ma per chi è il mio penare, per chi mi privo di felicità?».
Fumo anche questo, misera sorte” (4,7-8). Siamo di fronte ad una pagina stupenda, un vero e proprio distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre (‘senza fine si affatica’), e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore.

Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto. D’un tratto .......


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