L'INQUIETUDINE DEL COMUNICARE
Ricordo che in occasione delle interviste (e sono state tante) mi chiedeva
sempre: “Di quanti secondi hai bisogno?”. Poiché conosceva l’importanza della
sintesi per la comunicazione televisiva, si metteva nei panni del giornalista e
cercava di semplificargli il compito. Non voleva ricevere le domande in anticipo
e non chiedeva mai di rileggere le risposte. Si fidava. Aveva totale rispetto
dell’autonomia del giornalista. D’altra parte quella del giornalismo era una
passione che lui stesso aveva coltivato da ragazzo. Poi fu l’altra chiamata a
prevalere, ma per lui quella del giornalista restò sempre una missione.
Studioso della Bibbia e uomo della Parola, Martini ebbe una considerazione
altissima della comunicazione. All’inizio degli anni Novanta, quando era
arcivescovo a Milano, dedicò al comunicare due celebri lettere pastorali, Il
lembo del mantello ed Effatà! Apriti! Due documenti che per me e,
credo, per tanti altri giornalisti sono stati fondamentali. Perché ci hanno
ricordato che la comunicazione, prima di essere problema tecnico, è questione
morale. Questione che riguarda il senso profondo del rapporto con l’altro.
Martini non parlava mai tanto per parlare, non girava attorno, non svicolava.
Non si lasciava condizionare dalle preoccupazioni di opportunità politica o
ecclesiale. Ogni sua parola era come una luce. Andava dritta al cuore e alla
mente dell’interlocutore. A dispetto del tono, pacato e perfino monocorde, il
suo linguaggio inquietava e metteva letteralmente in crisi, nel senso che
obbligava a scegliere, a pensare. Il verbo “inquietare” gli piaceva molto.
Diceva che il cristiano non è e non può essere un uomo comodo, per se stesso e
per gli altri. Quando istituì la cattedra dei non credenti disse che la sua
speranza era di inquietare e lasciarsi inquietare. Perché in ogni credente c’è
qualcosa del non credente, e viceversa. Celebre è anche la sua distinzione tra
pensanti e non pensanti, l’unica, diceva, davvero importante.
L’altissima considerazione che aveva del comunicare non era il frutto di un
suo pallino intellettuale o conseguenza del suo essere studioso delle sacre
scritture. Era frutto della sua fede. Lo vediamo bene nel testo raccolto nel bel
libroColti da stupore, là dove, occupandosi della misteriosa
comunicazione avvenuta nel sepolcro di Gesù, spiega che proprio in quel luogo,
nella notte di Pasqua, ci fu la comunicazione più radicale di ogni tempo. Lo
Spirito Santo si comunica e ridona il soffio della vita a Gesù. Si può
immaginare qualcosa di più sconvolgente? La morte sconfitta, per sempre,
attraverso la comunicazione. Attraverso la comunicazione del Padre che dona se
stesso, per amore.
Il Dio dei cristiani è un Dio che parla, ma non solo e non tanto per
ordinare. È un Dio che ascolta e chiede ascolto, che interpella, che si mette in
relazione, che inquieta, che consola, che indica la strada, che sta vicino. È un
Dio comunicatore. Un Dio che raggiunge il vertice della comunicazione divenendo
esso stesso Parola viva, incarnata. Ecco dove nasce la passione di Martini per
il comunicare. Ed ecco dove nasce la sua preoccupazione per una comunicazione
che tanto spesso può essere formale, vuota, debole, priva di autentico
coinvolgimento.
Quando comunichiamo, noi sempre doniamo noi stessi, o almeno qualcosa di noi
stessi. E ascoltando ci mettiamo nella condizione di accogliere il dono
dell’altro. Senza questa predisposizione non c’è comunicazione degna di tale
nome. Ci potrà essere, al più, un’informazione, magari anche accurata. Ma
comunicare è un’altra cosa. Il comunicare riguarda la comunità, l’essere in
comunione. Comprensibile dunque l’attenzione dedicata dal cardinale Martini ai
nuovi strumenti del comunicare e alle nuove frontiere.
In lui non ci fu mai rifiuto preventivo. Prevalse sempre la fiducia. Come Pio
XII, come Giovanni Paolo II, vedeva nei moderni mezzi di comunicazione autentici
doni di Dio, messi a disposizione della libertà dell’uomo. Non gli piaceva
scagliare anatemi. Preferiva raccomandare la vigilanza e il senso di
responsabilità. Della televisione, per esempio, non sopportava la naturale
invadenza e la tendenza a ridurre la parola a un rumore di fondo, indistinto e
senza significato. Però ne capiva l’importanza per la tempestività e per la
capacità di entrare nelle case di tutti, indipendentemente dalla condizione
sociale e dallo status culturale.
Quando poi ci fu l’avvento dell’informatica accolse la novità con
disponibilità e, ancora una volta, con fiducia. Vedeva bene i rischi, ma gli
interessava di più mettere in luce le potenzialità positive. Vide nella
rivoluzione del web il pericolo di una comunicazione ancora più spersonalizzata,
ma mise l’accento soprattutto sulla possibilità di accrescere il tasso di
fraternità attraverso la conoscenza reciproca.
Fino agli ultimi giorni usò il computer e la posta elettronica con
riconoscenza, perché gli permettevano di restare in contatto con tante persone
nonostante la perdita della voce. Sempre curioso e interessato a tutto, gli
piaceva ricevere notizie e rispondeva sempre. Messaggi semplici, per forza di
cose, ma mai banali.
Ricordo che quando un mio servizio televisivo su di lui faticò non poco per
andare in onda (perché il direttore del Tg1 di allora decretò che gli italiani
non erano interessati alle vicende di un vecchio cardinale, e i vicedirettori si
dissero d’accordo con lui), gli scrissi una mail per chiedergli scusa. Ero
mortificato nei suoi confronti e sbigottito davanti a un tale miscuglio di
ignoranza e arroganza da parte dei miei superiori. Lui mi rispose: “È un bene
essere respinti”. Cinque parole che conservo gelosamente e che sono
preziosissime nel mio lavoro.
Il Parkinson gli tolse la parola e lo limitò nei movimenti. Per battere sui
tasti del computer o semplicemente per vergare la sua firma doveva fare una gran
fatica, ma considerava quelle difficoltà una benedizione, perché lo obbligavano
ad andare ancora di più al cuore della comunicazione, togliendo ogni orpello,
ogni fronzolo inutile.
Anche Pietro e Paolo, come Gesù, sono stati uomini della comunicazione. E con
le loro diversità, così marcate, ci dicono che il cristianesimo è religione
plurale, che ama le differenze. Il cristiano non è mai per l’uniformità. La
Parola è chiamata a incarnarsi ovunque, in contesti diversissimi. In quanto
gesuita, Martini amava la complessità e stare sulla frontiera. Per questo capiva
bene le difficoltà dei Papi e pregava per loro.
Quando lo dipingevano come un anti-Papa sorrideva e diceva che lui, semmai,
era un ante-Papa, uno che, da pastore in mezzo al popolo, percorreva in anticipo
le strade che il Papa avrebbe dovuto a sua volta affrontare. Non dimentichiamo
che, nonostante la malattia, negli ultimi mesi della sua vita terrena chiese di
poter incontrare il suo coetaneo Benedetto XVI, prima a Roma e poi di nuovo a
Milano. Per guardarsi negli occhi. Per comunicare davvero.
Aldo Maria Valli, vaticanista del TG1
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