I dirigenti scolastici, quelli che una volta si chiamavano presidi o direttori didattici, chiedono che si seguano programmi standard per tutti Ma il docente deve riprendersi la sua soggettività, trasmettendo ai suoi alunni la propria impronta educativa.
di ROBERTO CARNERO
A volte si sente dire che gli insegnanti hanno tre mesi di ferie all’anno. Le cose non stanno proprio così. Nel mio liceo abbiamo terminato gli scrutini il 14 luglio, dopo aver svolto, in contemporanea agli esami di maturità, i corsi di recupero e le verifiche finali per quegli studenti che a giugno erano risultati carenti in una o due discipline. È vero, però, che gli insegnanti godono di alcuni giorni di vacanza in più rispetto agli altri professionisti. Ma è bene che sia così. Perché per insegnare bisogna conoscere, e per conoscere bisogna leggere e studiare. Tanto. Il più possibile. L’insegnante è, prima di tutto, uno studioso. E l’estate è l’occasione propizia per leggere e aggiornarsi.
D’estate anch’io, come tanti miei colleghi, riesco a leggere quei libri che ho messo da parte durante l’anno scolastico per mancanza di tempo. Insegnando Lingua e letteratura italiana, tendo a leggere soprattutto poesia, romanzi e qualche saggio. Sono testi che sicuramente risulteranno utili, oltre che per un mio arricchimento personale, anche per il mio lavoro di docente, grazie alla ricaduta didattica di ogni nuova conoscenza. Alla ripresa delle scuole, tutti i docenti sono chiamati a presentare una programmazione disciplinare relativa alle classi loro assegnate. Come lettore, come studioso, ho delle predilezioni personali nel campo della letteratura, e sarebbe bello che io potessi esprimerle nel mio insegnamento. Ma ciò può accadere con sempre maggiore difficoltà. Perché ormai da diversi anni i presidi – o, come si dice con termine più moderno, i “dirigenti scolastici” – chiedono ai professori della stessa materia di presentare la stessa programmazione. Si chiama “programmazione dipartimentale”, cioè per dipartimenti, come pomposamente (scimiottando la terminologia universitaria) si definiscono i raggruppamenti dei docenti della medesima disciplina in una scuola. Intendiamoci: le riunioni di dipartimento possono essere occasioni preziose di confronto e di arricchimento reciproco, di messa in comune di esperienze e di “buone pratiche”. Altra cosa, però, è la pretesa che tutti facciano esattamente le stesse cose.
L’obiettivo dei dirigenti è chiaro: evitare disomogeneità, nell’offerta formativa e nella valutazione, tra le diverse classi. Tuttavia questa legittima preoccupazione si traduce in una forzata standardizzazione dei percorsi didattici e in una limitazione di quella libertà creativa che uno dei punti di forza di ogni insegnamento. Il docente deve trasmettere passione, e la passione non la trasmetti se non ce l’hai. La passione per la letteratura, per esempio, non è qualcosa di astratto, ma è legata a quelle fasi della storia letteraria, a quegli autori, a quelle opere, a quei testi specifici. Oggi, invece, si cerca di perseguire a tutti i livelli un appiattimento delle differenze, un’omologazione forzata di gusti e opzioni.
Già nel 1978 Cesare Cases, in un suo celebre saggio uscito sui “Quaderni Piacentini” con il titolo Il poeta e la figlia del macellaio, ammoniva sul rischio che anche l’insegnamento fosse condizionato dalle preoccupazioni «di un capitalismo monopolistico ossessionato dalla paura che qualcosa sfugga al suo controllo e venga abbandonato al caso». Preoccupazioni analoghe sono state espresse di recente da Noam Chomsky nel librointervista (a cura di C.J. Polychroniou) Ottimismo (malgrado tutto). Capitalismo, impero e cambiamento sociale (Ponte alle Grazie, pagine 320, euro 16,80), che presenta un intero capitolo sui «pericoli dell’istruzione di mercato». Ecco, credo sia giunto il momento di tessere un elogio della soggettività nell’insegnamento. È ora che i docenti tornino a rivendicare il proprio ruolo di professionisti e di intellettuali, rifiutando quello di tristi burocrati, chiamati ad applicare pedissequamente circolari ministeriali e decreti dirigenziali. Lo scrive anche uno dei nostri più autorevoli storici della lingua, Luca Serianni, in un suo volume da poco uscito presso il Mulino, Per l’italiano di ieri e di oggi: «È assolutamente doveroso che la famiglia che manda i figli a scuola sappia che nella II A o nella II B il figlio o la figlia avrà un trattamento di alto livello; però non lo stesso trattamento, perché è giusto che ogni professore dia ai propri alunni l’impronta della sua formazione e, perché no, anche dei suoi gusti culturali». Parole da meditare, in attesa della riapertura delle scuole.
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