ROBERTO CARNERO
Mentre è
imminente l’apertura delle scuole, si moltiplicano le riflessioni
sull’istruzione e sulla professione docente, quasi a fornirci un viatico per
cominciare al meglio il nuovo anno scolastico. Oltre al libro di Adolfo Scotto
di Luzio, «La scuola che vorrei», pubblicato da Bruno Mondadori (l’autore è
stato intervistato su 'Agorà' del 3 settembre da Roberto I. Zanini), esce per
Mondadori un «Elogio del ripetente» di Eraldo Affinati. Il titolo – che ricorda
il celebre «Elogio di Franti» scritto, ormai molti anni fa, da Umberto Eco a
difesa dell’alunno 'cattivo' della scolaresca del libro «Cuore» – dice subito
l’ottica molto particolare di Affinati, che oltre a essere uno scrittore è
anche, in prima persona, un insegnante.
Quando
parliamo di scuola in genere facciamo riferimento al punto di vista degli
adulti (insegnanti, presidi, pedagogisti, sociologi ecc.). Affinati ha provato
invece, forte della sua esperienza, a mettersi dalla parte degli studenti, di
quelli meno bravi, meno motivati, meno 'performanti' (come si dice con una
parola orribile), insomma dei ripetenti, di quei ragazzi che vanno ad
ingrossare le cifre della dispersione scolastica.
Questo
proposto da Affinati può essere un esercizio molto utile per tutti i maestri e
i professori che si accingono a iniziare un nuovo anno di lavoro. In una
situazione tutt’altro che rosea: oltre ai ben noti problemi congiunturali che
riguardano il capitolo Istruzione, siamo in presenza di una generale perdita di
autorevolezza, di riconoscimento e di significato dei processi formativi agli
occhi della società, e dunque anche agli occhi dei ragazzi e delle loro
famiglie.
Insegnare in
certi contesti richiede che i docenti siano non soltanto solidi professionisti,
ma missionari e a volte persino eroi. Eppure l’insegnamento è un lavoro
dannatamente importante. In quello spazio tra la cattedra e il banco si gioca
il rapporto tra le generazioni e si forma, nelle giovani menti dei discenti, il
senso di un’identità collettiva, sul piano morale e civile. È un rapporto
delicatissimo quello tra i ragazzi e i loro maestri, che spesso sono gli unici
adulti con i quali essi entrano in contatto, se si escludono i genitori e i
familiari. Ma spesso i maestri sono lasciati soli, abbandonati a se stessi,
privi di strumenti adeguati a un compito così difficile in sé e in più
complicato da molti fattori esterni. Chissà come veniamo visti noi professori
dai nostri studenti.
Sappiamo che certi nostri modi di comportarci, certe modalità espressive,
persino certi tic rimarranno impressi per sempre nella loro memoria. Ma anche
gli alunni rimangono nella memoria di noi professori, quando facciamo bene il
nostro lavoro. Alcuni di noi puntano sulla severità e sul distacco, altri su un
rapporto amichevole e quasi 'alla pari', altri ancora oscillano pericolosamente
tra questi due estremi.
La verità – che emerge anche dallo
sguardo degli alunni 'difficili' di Affinati, le cui voci sono chiamate a
raccolta nel suo libro – è che molto spesso gli insegnanti riversano nel
rapporto educativo i problemi non risolti delle loro esistenze. E i giovani
hanno un sesto senso per captare queste debolezze e magari per approfittarsene.
Ma non si può proprio dire che la colpa di quanto a scuola non funziona sia
sempre dei 'Franti-ripetenti'.
www.avvenire.it – 12 settembre 2013
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