Ci salverà la libertà creatrice
- di
Andrea Lavazza
Il
digitale trasforma l'esperienza in dato, l’antidoto è il recupero dello
spirito.
Quando
il titolo è già un esperimento che pare riuscito (verifiche ulteriori a
cominciare da oggi), un saggio ambizioso e tempestivo muove subito il dibattito
culturale.
Macchine
celibi è la più recente analisi dei trend sociali dell’oggi a firma di Chiara
Giaccardi e Mauro Magatti.
Il
sottotitolo – Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo? – fa intuire
il focus del volume (il Mulino, pagine 184, euro 17,00), ma non svela l’arcano.
E
oggi l’impazienza e la curiosità, lo sappiamo, si traducono nel digitare sui
nostri dispositivi ben prima di consultare un libro.
Si
può provare con la tradizionale ricerca sui motori del web, oppure ricorrere
direttamente a un chatbot.
Subito
si entrerà nel mondo dell’arte di Marcel Duchamp, autore dell’opera Il grande
vetro, di cui l’espressione scelta dai due autori del volume identifica una
parte.
Il
punto è che sia leggendo le descrizioni fornite sia guardando le fotografie
disponibili in rete non risulta molto chiaro il senso della complessa
installazione completata nel 1923.
Ma
questo è solo il lato passivo del sistema, che in questo caso non risponde in
modo esaustivo come di solito accade alle nostre richieste.
Sul
lato attivo, invece, è difficile immaginare un prompt capace di indurre
l’intelligenza artificiale a concepire qualcosa di paragonabile alla creazione
di Duchamp: un’opera che si fa metafora della condizione umana.
È
qui che Giaccardi e Magatti mostrano come l’essere umano mantenga ancora un
proprio spazio insostituibile di produzione di senso: la macchina non possiede
l’ultima parola.
L’arte,
ma non solo, può seguire percorsi che sfuggono alla rigida funzionalizzazione
dell’IA e dell’intero processo tecno-capitalistico, per quanto questo abbia
raggiunto un livello di potenza inedito.
Quello
che costituisce l’epilogo del lavoro di ricognizione e di proposta svolto dai
due sociologi dell’Università Cattolica (ben noti ai lettori di “Avvenire”) è
quindi già in nuce contenuto nel titolo e inverato dal piccolo test descritto
sopra.
Secondo
gli autori, il sogno di Leibniz di un linguaggio universale matematico è oggi
realtà di fronte a noi che, tuttavia, possiamo invocare la ribellione
surrealista che rivendicava il potere del sogno e dell’irrazionale.
Nella
sua creazione, giocosa e inquietante allo stesso tempo, Duchamp incarna infatti
la tensione tra questi poli: sopra la sposa irraggiungibile, sotto gli
aspiranti nubendi che si agitano inutilmente.
Come
scrivono Giaccardi e Magatti, «a poco a poco, senza accorgercene, ci
trasformiamo in macchine celibi: sempre più simili ai dispositivi
“intelligenti” da cui dipendiamo, e come loro assoggettati alla legge ferrea di
un movimento continuo ed efficiente, che però rischia di girare a vuoto,
rincorrendo avidamente schegge di un desiderio messo al servizio dei poteri che
dominano le tecnologie digitali”.
L’avvento
dell’IA onnipresente porta all’estremo la razionalizzazione moderna.
È
un farmaco: cura e veleno insieme.
Promette
ordine, ma genera nuove angosce, disuguaglianze, solitudini.
La
domanda, dunque, è se possiamo usare le tecnologie per umanizzare il mondo o se
saremo definitivamente meccanizzati.
Il
quadro che emerge dallo sguardo largo e profondo messo in campo nel libro, pur
non negando i grandissimi progressi in molti ambiti grazie agli strumenti
digitali, appare decisamente negativo.
Rispetto
al tecnottimismo o neutralismo di chi vede le macchine come qualcosa che non
sarà mai come noi perché esse non hanno scopi né emozioni né desideri (per
esempio, Maurizio Ferraris nel suo recente La pelle), Giaccardi e Magatti sono
orientati a un tecnopessimismo oggettivo, che vede l’essere umano tendere
all’assimilazione verso il modello computazionale: «Oggi l’uomo sempre più si
fa macchina, mentre la macchina si fa sapiens: il piano umano e quello
meccanico diventano sempre meno distinguibili.
Nasce
così il regno delle macchine celibi, dove l’essere umano viene modellato da ciò
che lui stesso ha costruito, dentro un orizzonte chiuso e autoreferenziale, che
non ammette esteriorità alcuna».
Il
digitale trasforma ogni esperienza in dato, ogni relazione in informazione
calcolabile.
Ciò
aumenta efficacia e velocità, ma riduce lo spazio del senso e della libertà.
La
modernità liquida descritta (criticamente) da Bauman a molti sembrava aprire
un’era di felicità rotte tutte le catene che limitavano l’individuo.
Facciamo
invece i conti con un panorama di insoddisfazione, rancore quando non
disperazione.
La
diagnosi degli studiosi è stringente: «L’apertura dello spazio di autonomia e
autodeterminazione del singolo ha segnato un passaggio epocale cruciale.
Tuttavia,
questo passaggio ha di fatto promosso una struttura della personalità
narcisistica, centrata sul proprio benessere, la deregulation dei significati e
la convinzione di un progresso illimitato e universale.
Per
forzare e accelerare in questa direzione si è scelto di indebolire i contesti
relazionali e valoriali, sia interpersonali che sociali e istituzionali,
ritenuti troppo vincolanti, se non addirittura oppressivi.
Il
problema è che proprio questi stessi contesti in passato aiutavano a gestire il
rapporto col fallimento, la frustrazione, il negativo e in ultima istanza con
l’angoscia della morte: tutti aspetti che, pur nella rincorsa al benessere, non
possono essere mai completamente rimossi dalla vita, individuale e collettiva».
Abbiamo
paradossalmente il mondo in tasca, eppure siamo concentrati sul nostro
ombelico, e per di più in preda all’ansia.
Come
l’operaio fordista era privato delle proprie competenze alla catena di
montaggio, così nel 2025 l’individuo sembra espropriato della propria autonomia
cognitiva dagli algoritmi.
Si
produce una miseria simbolica: impoverimento del linguaggio, uniformazione
culturale, incapacità di attribuire significati profondi.
Gli
autori provano a ricostruire le radici psicosociali della rabbia diffusa nelle
società contemporanee.
La
perenne insicurezza prodotta da aspettative performative, le disuguaglianze
economiche, la perdita di riferimenti culturali e la sfiducia nelle istituzioni
alimentano risentimento e aggressività.
Populismi
e leader carismatici sfruttano questa rabbia, combinando promesse tecnocratiche
con strategie emotive: nasce così il tecnopopulismo, che usa il digitale per
manipolare e mobilitare, attingendo a miti del progresso illimitato e a forme
distorte del cristianesimo per restringere la cerchia di coloro cui si possono
riconoscere pieni diritti.
Di
fronte a una crisi inedita, Giaccardi e Magatti propongono di recuperare la
dimensione dello spirito: non come categoria religiosa in senso stretto, ma
come libertà creativa, capacità di generare senso e anche apertura al
trascendente.
Lo
spirito diventa condizione per resistere alla riduzione tecnico-performativa e
per costruire nuove forme di convivenza.
Contro
la riduzione digitale e populista, gli autori rilanciano la necessità di
pensare la complessità.
Servono
a questo fine tre passaggi chiave: riconoscere la pluralità, coltivare il
dialogo, sviluppare il pensiero critico.
Una
società democratica deve essere “una società che pensa di più”, non solo che
funziona meglio.
Dobbiamo
perciò diventare poeti sociali, capaci di intrecciare tecnica, relazioni e
senso, altrimenti ci ridurremo appunto a macchine celibi, ingranaggi isolati ed
efficienti ma sterili.
Si
tratta di una risorsa per rigenerare la democrazia e la convivenza,
un’alternativa anche politica all’individuo-macchina, che sappia coniugare
creatività, relazionalità e responsabilità collettiva.
Individuato
il percorso, resta da coltivare una generazione di poeti sociali che ci
preservi dalla meccanizzazione dell’umano.
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