domenica 31 agosto 2025

MECCANIZZARE L'UMANO ?

 


  Uomo o macchina? 

Ci salverà la libertà creatrice

 


-       di Andrea Lavazza

 Nel loro nuovo libro, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti affrontano il rischio di meccanizzazione dell’umano.

Il digitale trasforma l'esperienza in dato, l’antidoto è il recupero dello spirito.

Quando il titolo è già un esperimento che pare riuscito (verifiche ulteriori a cominciare da oggi), un saggio ambizioso e tempestivo muove subito il dibattito culturale.

Macchine celibi è la più recente analisi dei trend sociali dell’oggi a firma di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti.

Il sottotitolo – Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo? – fa intuire il focus del volume (il Mulino, pagine 184, euro 17,00), ma non svela l’arcano.

E oggi l’impazienza e la curiosità, lo sappiamo, si traducono nel digitare sui nostri dispositivi ben prima di consultare un libro.

Si può provare con la tradizionale ricerca sui motori del web, oppure ricorrere direttamente a un chatbot.

Subito si entrerà nel mondo dell’arte di Marcel Duchamp, autore dell’opera Il grande vetro, di cui l’espressione scelta dai due autori del volume identifica una parte.

Il punto è che sia leggendo le descrizioni fornite sia guardando le fotografie disponibili in rete non risulta molto chiaro il senso della complessa installazione completata nel 1923.

Ma questo è solo il lato passivo del sistema, che in questo caso non risponde in modo esaustivo come di solito accade alle nostre richieste.

Sul lato attivo, invece, è difficile immaginare un prompt capace di indurre l’intelligenza artificiale a concepire qualcosa di paragonabile alla creazione di Duchamp: un’opera che si fa metafora della condizione umana.

È qui che Giaccardi e Magatti mostrano come l’essere umano mantenga ancora un proprio spazio insostituibile di produzione di senso: la macchina non possiede l’ultima parola.

L’arte, ma non solo, può seguire percorsi che sfuggono alla rigida funzionalizzazione dell’IA e dell’intero processo tecno-capitalistico, per quanto questo abbia raggiunto un livello di potenza inedito.

Quello che costituisce l’epilogo del lavoro di ricognizione e di proposta svolto dai due sociologi dell’Università Cattolica (ben noti ai lettori di “Avvenire”) è quindi già in nuce contenuto nel titolo e inverato dal piccolo test descritto sopra.

Secondo gli autori, il sogno di Leibniz di un linguaggio universale matematico è oggi realtà di fronte a noi che, tuttavia, possiamo invocare la ribellione surrealista che rivendicava il potere del sogno e dell’irrazionale.

Nella sua creazione, giocosa e inquietante allo stesso tempo, Duchamp incarna infatti la tensione tra questi poli: sopra la sposa irraggiungibile, sotto gli aspiranti nubendi che si agitano inutilmente.

Come scrivono Giaccardi e Magatti, «a poco a poco, senza accorgercene, ci trasformiamo in macchine celibi: sempre più simili ai dispositivi “intelligenti” da cui dipendiamo, e come loro assoggettati alla legge ferrea di un movimento continuo ed efficiente, che però rischia di girare a vuoto, rincorrendo avidamente schegge di un desiderio messo al servizio dei poteri che dominano le tecnologie digitali”.

L’avvento dell’IA onnipresente porta all’estremo la razionalizzazione moderna.

È un farmaco: cura e veleno insieme.

Promette ordine, ma genera nuove angosce, disuguaglianze, solitudini.

La domanda, dunque, è se possiamo usare le tecnologie per umanizzare il mondo o se saremo definitivamente meccanizzati.

Il quadro che emerge dallo sguardo largo e profondo messo in campo nel libro, pur non negando i grandissimi progressi in molti ambiti grazie agli strumenti digitali, appare decisamente negativo.

Rispetto al tecnottimismo o neutralismo di chi vede le macchine come qualcosa che non sarà mai come noi perché esse non hanno scopi né emozioni né desideri (per esempio, Maurizio Ferraris nel suo recente La pelle), Giaccardi e Magatti sono orientati a un tecnopessimismo oggettivo, che vede l’essere umano tendere all’assimilazione verso il modello computazionale: «Oggi l’uomo sempre più si fa macchina, mentre la macchina si fa sapiens: il piano umano e quello meccanico diventano sempre meno distinguibili.

Nasce così il regno delle macchine celibi, dove l’essere umano viene modellato da ciò che lui stesso ha costruito, dentro un orizzonte chiuso e autoreferenziale, che non ammette esteriorità alcuna».

Il digitale trasforma ogni esperienza in dato, ogni relazione in informazione calcolabile.

Ciò aumenta efficacia e velocità, ma riduce lo spazio del senso e della libertà.

La modernità liquida descritta (criticamente) da Bauman a molti sembrava aprire un’era di felicità rotte tutte le catene che limitavano l’individuo.

Facciamo invece i conti con un panorama di insoddisfazione, rancore quando non disperazione.

La diagnosi degli studiosi è stringente: «L’apertura dello spazio di autonomia e autodeterminazione del singolo ha segnato un passaggio epocale cruciale.

Tuttavia, questo passaggio ha di fatto promosso una struttura della personalità narcisistica, centrata sul proprio benessere, la deregulation dei significati e la convinzione di un progresso illimitato e universale.

Per forzare e accelerare in questa direzione si è scelto di indebolire i contesti relazionali e valoriali, sia interpersonali che sociali e istituzionali, ritenuti troppo vincolanti, se non addirittura oppressivi.

Il problema è che proprio questi stessi contesti in passato aiutavano a gestire il rapporto col fallimento, la frustrazione, il negativo e in ultima istanza con l’angoscia della morte: tutti aspetti che, pur nella rincorsa al benessere, non possono essere mai completamente rimossi dalla vita, individuale e collettiva».

Abbiamo paradossalmente il mondo in tasca, eppure siamo concentrati sul nostro ombelico, e per di più in preda all’ansia.

Come l’operaio fordista era privato delle proprie competenze alla catena di montaggio, così nel 2025 l’individuo sembra espropriato della propria autonomia cognitiva dagli algoritmi.

Si produce una miseria simbolica: impoverimento del linguaggio, uniformazione culturale, incapacità di attribuire significati profondi.

Gli autori provano a ricostruire le radici psicosociali della rabbia diffusa nelle società contemporanee.

La perenne insicurezza prodotta da aspettative performative, le disuguaglianze economiche, la perdita di riferimenti culturali e la sfiducia nelle istituzioni alimentano risentimento e aggressività.

Populismi e leader carismatici sfruttano questa rabbia, combinando promesse tecnocratiche con strategie emotive: nasce così il tecnopopulismo, che usa il digitale per manipolare e mobilitare, attingendo a miti del progresso illimitato e a forme distorte del cristianesimo per restringere la cerchia di coloro cui si possono riconoscere pieni diritti.

Di fronte a una crisi inedita, Giaccardi e Magatti propongono di recuperare la dimensione dello spirito: non come categoria religiosa in senso stretto, ma come libertà creativa, capacità di generare senso e anche apertura al trascendente.

Lo spirito diventa condizione per resistere alla riduzione tecnico-performativa e per costruire nuove forme di convivenza.

Contro la riduzione digitale e populista, gli autori rilanciano la necessità di pensare la complessità.

Servono a questo fine tre passaggi chiave: riconoscere la pluralità, coltivare il dialogo, sviluppare il pensiero critico.

Una società democratica deve essere “una società che pensa di più”, non solo che funziona meglio.

Dobbiamo perciò diventare poeti sociali, capaci di intrecciare tecnica, relazioni e senso, altrimenti ci ridurremo appunto a macchine celibi, ingranaggi isolati ed efficienti ma sterili.

 Quello di poeta sociale (immagine introdotta da papa Francesco in un incontro del 2021 con i rappresentanti dei movimenti sociali) rappresenta un modello antropologico e politico che non rifiuta la tecnica, ma la reintegra dentro una visione più ampia di umanizzazione del mondo.

Si tratta di una risorsa per rigenerare la democrazia e la convivenza, un’alternativa anche politica all’individuo-macchina, che sappia coniugare creatività, relazionalità e responsabilità collettiva.

Individuato il percorso, resta da coltivare una generazione di poeti sociali che ci preservi dalla meccanizzazione dell’umano.

 www.avvenire.it

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