Che cosa ti ha afferrato e reso felice?
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di Alessandro D’Avenia
Passeggio
tra i sentieri che costeggiano i cortili degli antichi edifici dell'università
di Cambridge dove sono stato invitato dalla Italian Society per una
conferenza.
È
domenica mattina, la luce del sole sbrina i prati e sbrilla le pietre antiche,
cori impeccabili attraversano le svettanti vetrate delle cappelle dei college,
studenti tacciono in biblioteche gremite.
A
guidarmi c'è un gruppo di ragazzi italiani che studiano lì: matematica,
bioingegneria, greco, intelligenza artificiale, statistica... a livelli
differenti (triennio, master, dottorato). La gioia di una vocazione certa
illumina i loro volti in una università tra le prime (1209), quando le
università erano necessarie alla vita di una comunità: le vocazioni sono
molteplici ma la realtà è una, e per scoprirla ci vuole una comunità di maestri
e studenti. Mi sono commosso quando ho salutato quei ragazzi, perché hanno
ancora intatto l'amore che porta alla conoscenza, che purtroppo vedo spegnersi
in altri contesti. Quegli edifici secolari, in cui adulti e giovani cercano
insieme, sono sorti proprio per custodire e allenare il modo specifico di
ciascuno di scoprire il mondo e farne professione. Ho chiesto loro chi e dove
saranno tra dieci anni, le loro risposte erano consapevoli e coraggiose. Non
potrebbe essere così per tutti?
Basterebbe
una mela
Chi
fondò posti come Cambridge, nel tanto odiato Medioevo, li chiamava «universitas
magistrorum et scholarium» (unione di maestri e di studenti), per indicare
la comunione che comporta la ricerca della verità, perché non si dà corpo
(sociale) senza uno scopo comune, come nel corpo umano ogni organo, facendo il
suo, fa il tutto.
Ciascuno
di noi è qui sulla Terra per raccontare il proprio stupore di fronte alla
realtà, perché trasformato in lavoro va a beneficio di tutti, dall'amore per la
tavola a quello per le stelle. Che cosa finora hai amato veramente? Che cosa ti
ha afferrato e reso felice? Questo è ciò di cui un ragazzo ha bisogno per
venire alla luce e il mondo per venire al mondo. Accade come quando dobbiamo
arredare casa e cominciamo a notare i particolari di quelle altrui, i negozi di
mobili e persino gli oggetti di scena nei film. Quello che prima non vedevamo
«appare», perché la realtà diventa reale solo se la corteggiamo. In uno di quei
giardini di Cambridge, dove già occhieggiavano timidissime fioriture, dei
turisti facevano a gara per fotografarsi con una mela in testa, perché lì c'era
un albero nato da quello sotto il quale Newton vide le tracce della
gravitazione universale.
Una
mela caduta manifestò una legge di natura che tutti avevano sotto gli occhi ma
nessuno vedeva. Le leggi di ogni cosa (politica, società, arte, matematica...)
sono lì fuori, ma solo chi ne è innamorato riesce a vederle, perché non si
danno aumenti di conoscenza senza aumenti di amore, nelle relazioni umane come
con le cose. Anche Cézanne si fece bastare qualche mela per stupire il mondo
perché, se tutti guardavano ciò che lui guardava, nessuno vedeva ciò che lui
vedeva: il fondamento della bellezza, cioè della vita, nel tanto trascurato
«luogo comune», cioè dove siamo in comunione con la vita. Come fare ad aiutare
i ragazzi a vedere al modo unico di Newton o Cézanne se non hanno mai amato una
mela? Ricordo un melo in campagna da cui coglievamo i frutti per mangiarli
subito dopo averli sfregati sulla maglietta, erano croccanti e a volte
abitati... Quelle mele erano «vive» e mai ho creduto, come ho sentito dire ad
alcuni bambini, che i frutti nascono nelle ceste del supermercato e le uova
sugli scaffali. Dobbiamo restituire la realtà a ragazzi consegnati alle
astrazioni digitali, persino del sesso e del cibo, perché solo la realtà,
rapporto tra il nostro corpo e quello del mondo, fa innamorare della vita. Solo
così una mela può svelare una legge fisica e metafisica, perché ogni cosa viva
chiama in causa tutto l'universo: l'università è in ogni angolo.
Se
l'educatore aiuta a rendersi conto di ciò di cui viviamo, di ciò che ci rende
vivi, allora a casa e a scuola possiamo ancora allenare questo sguardo attento
e gioioso sulle cose, come quando alle elementari cominciai a collezionare
minerali perché un professore universitario di mineralogia me ne aveva parlato
come oggetti magici e me ne aveva regalati alcuni: per me toccare quelle pietre
misteriose e impararne i nomi (tormalina, pirite, quarzo, magnesite...) era
viaggiare in un mondo bellissimo. Quegli oggetti erano soglie per entrare con
fiducia nella realtà, come ha spiegato il grande pediatra e psicanalista Donald
Winnicott: il bambino accede alla realtà attraverso «oggetti transizionali»,
cose che manipola, morde, stringe, come un gioco o un pupazzo (la coperta di
Linus o la tigre di Calvin & Hobbes), per esplorare il mondo senza averne
paura. Questi oggetti, dando sicurezza e vincendo il timore della solitudine,
allenano il coraggio del bambino a esplorare la realtà.
Oggi
purtroppo questi «mezzi di trasporto» (inteso sia come uscita sia come
coinvolgimento amoroso) sono spesso sostituiti dallo smartphone, che però è un
falso oggetto transizionale, perché non porta fuori (estasi) ma in-trattiene
(stasi). Senza una relazione «corposa» e «corporea» con essa, la realtà diventa
astratta e muta perché non viene interrogata, e noi a poco a poco ci
disamoriamo e annoiamo: stupidi anziché stupiti.
Guardando
la campagna che si stende attorno a Cambridge, mentre vado via grato per quelle
ore, ripenso a questi studenti per i quali «studio» è ancora ciò che
significava in latino: «amore», tanto che Dante nel Convivio definiva lo studio
«applicazione dell’animo, innamorato di una cosa, a quella cosa», un vero corpo
a corpo. Mi chiedo perché questo «amore» non possa toccare a molti di più e non
solo a pochi fortunati. La risposta non è solo economica (e quindi politica,
oggi più che mai per i cervelli in fuga) l'avevano data già negli anni '60 gli
psicologi americani Robert Rosenthal e Lenore Jacobson che, dopo aver osservato
i bambini di una scuola elementare, avevano indicato ai maestri i 10 più
intelligenti. Tornati un anno dopo per verificare l'esito della selezione,
constatarono che quei bambini erano effettivamente divenuti i migliori della
scuola. Gli insegnanti chiesero agli psicologi come, l'anno prima, li avessero
identificati così rapidamente. I due svelarono che la selezione era stata una
finzione, avevano scelto i 10 bambini a caso, non erano i più intelligenti ma
lo erano diventati. Come?
L'esperimento
(noto anche come effetto Pigmalione) serviva a dimostrare che l'intelligenza è
relazionale e quindi il rendimento dipende da come un insegnante guarda
l'alunno: se pensa che sia un'aquila lo renderà aquila, se pensa che sia un
asino lo renderà asino. Un bambino diventa «come» è guardato: era stato proprio
il «ri-guardo» (sguardo ripetuto, cioè attento) degli insegnanti, influenzati
dal pre-giudizio sui 10 prescelti, a rendere speciali quei bambini. Per dirla
alla latina per diventare studenti («amanti») bisogna essere studiati
(«amati»), perché l'educatore «crea» effetti di essere a prescindere dalle
qualità di partenza dell'allievo: l'intelligenza, come una pianta, cresce per
cura.
È
la dimostrazione che quella «universitas magistrorum et scholarium»,
unione di maestri e studenti - a cui dovrebbe aspirare ogni sistema educativo
se non fosse soffocato da burocrazia, ricerca del potere e mancanza di
professionalità - è necessaria per far fiorire vocazioni e accade solo grazie
al «pre-giudizio» che ogni persona è unica, perché solo così lo diventerà
realmente e una sola mela continuerà a chiamare in causa l'universo, perché ci
sarà ancora qualcuno capace di amarla più del proprio cellulare.
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