e
il destino dell’Europa
-
di Giuseppe Savagnone
La
fine dell’Occidente
Neppure
nei loro incubi peggiori Zelensky e i leader europei avrebbero potuto
immaginare il radicale capovolgimento della posizione degli Stati Uniti da
indefettibili alleati del governo di Kiev a suoi accusatori, con toni del
tutto simili a quelli usati da Putin.
È
passato poco più di un mese dall’insediamento di Trump, il 20 gennaio scorso,
ma è stato sufficiente per far crollare tutte le illusioni di una transizione graduale
dalla precedente linea alla nuova.
Il
presidente americano, con una violenza di linguaggio inusuale nei rapporti
diplomatici, ha definito Zelensky un «comico mediocre» e un «dittatore»,
attribuendogli la responsabilità di aver iniziato la guerra e di aver
sperperato i miliardi di aiuti inviati dall’America.
Ma,
al di là delle parole, sono stati i fatti a segnare la completa
emarginazione di Kiev, esclusa dai negoziati tra Stati Uniti e Russia iniziati
a Riad proprio per decidere del suo destino. E non è solo l’Ucraina ad essere
stata completamente spiazzata dal “ciclone Trump”.
L’Europa
nel suo complesso, compreso il Regno Unito, che non fa parte dell’UE, si è
trovata ridotta al ruolo di spettatrice – se non addirittura forse di
vittima sacrificale – di una trattativa tra due imperi che non le hanno
riconosciuto alcun ruolo nel decidere una questione che la riguarda
direttamente e per cui da tre anni si batte, pagando un prezzo altissimo.
È
la fine della stretta cooperazione che, dalla fine della seconda guerra
mondiale, ha unito le due sponde dell’Atlantico e in cui si è identificato ciò
che da ottant’anni chiamiamo “Occidente”. Ed è anche la più grave crisi
della NATO, sua espressione militare, che in questi tre anni è stata
protagonista della guerra tra Russia e Ucraina, e che ora si trova
improvvisamente rinnegata dalla sua nazione-guida, gli Stati Uniti.
Una
guerra giusta gestita nel modo sbagliato
Chi
ha seguito la rubrica di questi “chiaroscuri” forse ricorderà che la
loro linea costante, a partire già dai primi sviluppi della guerra, è stata
molto critica nei confronti dell’invasore russo, ma anche verso l’impostazione
data dai paesi occidentali, sulle orme degli Stati Uniti.
Senza
minimamente attenuare la gravità della minaccia imperialista di Putin e dei
comportamenti criminali del suo esercito – si pensi alle atrocità di Bucha e al
rapimento di ventimila bambini ucraini, sottratti alle famiglie e portati in
Russia – , abbiamo però rilevato anche il ruolo che hanno avuto, nello scoppio
del conflitto, l’espansione a macchia d’olio della NATO, in violazione degli
accordi intercorsi nel 1989 tra Bush sr e Gorbaciov, e il rifiuto del
presidente Biden di rispondere alle pressanti richieste di Mosca di avere
garanzie che l’Ucraina non sarebbe entrata anch’essa (come chiedeva)
nell’alleanza militare antirussa.
Forse
non sarebbe bastata un’assicurazione americana in questo senso ad evitare
l’invasione. Quello che però è certo che neppure una parola fu spesa per
cercare di impedirla.
Come
è certo che, dopo l’inizio del conflitto, invece di tentare di avviare almeno
un dialogo, in vista di una possibile intesa, la linea degli Stati Uniti e dei
paesi della NATO fu di sforzarsi di ridurre la Russia a «un paria» (parole
di Biden), tempestandola di sanzioni ed escludendola da tutti gli spazi
internazionali, comprese le manifestazioni sportive e culturali, fino a
rifiutare la partecipazione alle paraolimpiadi di Pechino agli atleti
(disabili) russi per il solo fatto di essere tali.
Già
allora – nell’aprile dal 2022 – ho pubblicato su «Tuttavia» un
chiaroscuro dal titolo: «Non è così
che si costruisce la pace». Sforzandomi di spiegare che demonizzare e
isolare il nemico, nella convinzione così di poter ottenere la pace solo
vincendo la guerra – come credeva di poter fare Zelensky – , si è sempre
rivelata solo una tragica illusione.
Un’illusione
che, nel caso dell’Ucraina, è stata pagata sulla loro pelle dalle centinaia di
migliaia di giovani morti o feriti in questi tre anni di accaniti quanto
sterili combattimenti.
Una
pace necessaria gestita in modo ancora più sbagliato
Detto
ciò, oggi la svolta di Trump è ancora più assurda e unilaterale. Fino
a due mesi fa la pace veniva confusa con la vittoria militare, ma la guerra era
comunque a difesa della libertà di un popolo; ora il presidente
americano la identifica con la imposizione incontrastata degli
interessi degli Stati Uniti, alle cui decisioni gli altri devono
sottostare.
Nelle
ricostruzioni delle cause del conflitto prima spesso si taceva sulle indirette
responsabilità della NATO; ora, al G7, gli Stati Uniti si sono incredibilmente
rifiutati di riconoscere che esso è cominciato con una «aggressione
russa».
Zelensky
organizzava unilateralmente negoziati di pace a cui non invitava la Russia;
Trump riapre il dialogo con il paese aggressore lasciando fuori quello
aggredito. Alla demonizzazione del popolo russo come tale è subentrata ora la
pretesa di riscrivere la storia, riabilitando non il popolo, ma il suo cinico
dittatore, che la Corte Penale Internazionale ha condannato per «crimini contro
l’umanità».
A
rendere ancora più squallida la nuova impostazione del problema è la forte
connotazione commerciale datale da Trump. Anche al tempo di Biden, gli Stati
Uniti hanno fatto affari d’oro a spese dell’Europa, che, con la rottura causata
dal conflitto, ha dovuto acquistare a costi assai maggiori dall’alleato
americano il gas e altre forniture essenziali che prima riceveva a prezzi
minori dalla Russia. Per non parlare del mercato delle armi, in cui le
aziende americane hanno un netto predominio, e che ha visto realizzare con la
guerra profitti record.
Ma ciò
a cui oggi assistiamo non ha precedenti. Se prima fossero stati in gioco degli
interessi, si sarebbe insistita comunque su motivazioni etico - politiche,
considerate determinanti. Trump sembra infischiarsene di queste motivazioni e
mette in primo piano, piuttosto, l’aspetto finanziario ed economico.
L’Ucraina,
se vuole essere tutelata, deve pagare. Al presidente americano la libertà del
suo popolo preme pochissimo, mentre gli fanno gola le sue “terre
rare”. Il «Telegraph» e il «Financial Times» hanno parlato di una
bozza di accordo tra Stati Uniti e Russia, ancora confidenziale, in cui, in
cambio di protezione, ai capitali americani sarebbero aperti lo
sfruttamento dei giacimenti minerari, porti, infrastrutture, petrolio, gas.
«Peggio di quanto imposto alla Germania a Versailles», ha notato qualcuno.
L’Europa
al bivio
In
questo quadro, l’Europa si trova davanti alla prova più difficile
dalla fine della seconda guerra mondiale. Il tandem con gli Stati Uniti le
aveva consentito di restare nel limbo di una unione economica che non è mai
riuscita a passare alla fase dell’unità politica.
Il
prevalere delle logiche nazionali su quelle comunitarie è stato del resto
sancito, ultimamente, dal crescente consenso popolare verso i partiti
sovranisti, apertamente ostili ad ogni organismo sovra-nazionale, alcuni dei
quali sono addirittura andati al potere, come in Ungheria e in Italia.
Da
qui il successo, nell’ambito della UE, della proposta della Meloni, che
neutralizzava il problema dell’unità, dirottandolo esclusivamente su un tema
caro anche ai nazionalisti, quello della “difesa dei confini” dai flussi
migratori.
In
questo modo la politica europea si riduceva a confermare e sostenere i singoli
Stati nel chiudersi sui propri interessi, alzando muti verso l’esterno. In
questa logica, i partiti di centro sono stati sempre più risucchiati dalla
linea delle destre, come è accaduto in Germania, dove la CDU ha votato una
risoluzione antimigranti alleandosi per la prima volta nella storia
con Alternative für Deutschland, il partito neonazista.
Ora
il ciclone Trump costringe l’Europa a fare la scelta che finora aveva
potuto evitare, quella tra rimanere allo stato attuale di frammentazione
politica – con la prospettiva di diventare una colonia degli Stati Uniti
e/o della Russia – , oppure muovere rapidamente verso una vera unità.
Il
dibattito sulla creazione di una forza di difesa comune è un passo in questa
direzione. Come lo è il passaggio dalla leadership morale della nostra premier,
– vistosamente spiazzata dalle scelte di Trump, che hanno reso impossibile ogni
mediazione – a quella del suo eterno rivale, il presidente Macron, fautore di
una più drastica soluzione unitaria (anche se sospetto di volerla porre
sotto l’egemonia francese).
Il
problema è che all’Europa manca qualcosa di più di un esercito comune: manca
l’anima. Il rifiuto del riferimento alle sue radici cristiane, nel preambolo
della sua Costituzione, durante il dibattito svoltosi tra il 2005 e il
2007, è stato sintomatico di un distacco dalla tradizione spirituale che
ne aveva ispirato e guidato – con mille contraddizioni – la nascita e lo
sviluppo.
Distacco
del resto evidenziato dal fatto che l’unica convergenza dei paesi europei si è
trovata nel rifiuto di accogliere gli stranieri bisognosi, in aperto contrasto
con le parole del Vangelo in cui Gesù si identifica proprio con loro (cfr. Mt
25).
Condivise
sono rimaste solo le regole a cui i singoli Stati devono attenersi nella
gestione della loro economia, pena sanzioni per le loro infrazioni. Troppo poco
per dar luogo a una visione condivisa del bene comune europeo che possa
giustificare la rinunzia alla piena sovranità nazionale.
È
la denuncia di questo vuoto la sola cosa giusta nell’arrogante discorso che il
vicepresidente degli Stati Uniti Vance ha tenuto a Monaco il 14 febbraio
scorso: «La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la
Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno. Quello che mi
preoccupa è la minaccia dall’interno: l’arretramento dell’Europa da alcuni dei
suoi valori più fondamentali».
Salvo
poi a indicare questi “valori” in quelli dei Altrnative für Deutscland
sposando, contraddittoriamente, la tesi secondo cui tutti i mali
europei derivano dall’«aprire le porte a milioni di immigrati non
controllati». Chi ha un’identità forte non ha paura dell’“altro”. È
proprio la linea difensiva prevalsa in questi ultimi anni a rivelare
il vuoto dell’Europa. E non sarà qualche concessione di Trump sulla
partecipazione alle trattative con la Russia e sui dazi a riempirlo.
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