Anniversario del Concilio di Nicea (325-2025)
In occasione dell’anniversario del primo
Concilio ecumenico cristiano, tenutosi esattamente 17 secoli fa, nel 325, a
Nicea, p. Giuseppe Oddone ha preparato un ampio articolo indirizzato agli
insegnanti dell’AIMC e dell’UCIIM, associazioni professionali di cui è
assistente ecclesiastico.
Notizie
storiche
n questo anno giubilare
del 2025 ricorre l’anniversario del primo Concilio ecumenico cristiano,
tenutosi esattamente 17 secoli fa, nel 325, a Nicea, in Bitinia, nella parte
asiatica dell’attuale Turchia, a circa 130 chilometri da Costantinopoli. Con
l’avvento al potere di Costantino, l’imperatore favorevole ai cristiani, che
aveva riunito nella sua persona tutto il potere politico, anche i pastori della
Chiesa, che dopo il decreto di Milano del 313 avevano ottenuto libertà di culto
e di visibilità, sentirono il bisogno di definire la dottrina tradizionale
della Chiesa, sia per condividere la medesima fede in contesti culturali e
politici diversi, sia per costruire, in un momento di grande espansione
missionaria e di fermento culturale e teologico, nuove comunità che si
riconoscessero come chiese sorelle nel rispetto delle legittime diversità di
linguaggio e di costumi.
Fin dalle origini il
caposaldo della fede cristiana è la professione di un solo Dio in tre Persone
distinte: Padre, Figlio o Logos fatto uomo, Spirito Santo. Quando si veniva
battezzati, si dichiarava la fede nelle Tre Persone divine. Ma il rapporto tra il
Padre e il Figlio risultava, nei dibattiti teologici del tempo, espresso ancora
in modo indeterminato ed aveva dato luogo a varie interpretazioni. Un
presbitero della Chiesa di Alessandria, Ario, seguendo uno schema concettuale
di origine platonica, affermava non solo la dipendenza di natura del Figlio dal
Padre, ma negava anche la sua divinità e la sua eternità. Per Ario il Figlio è
creazione del Padre, è una specie di demiurgo, è creato dal nulla, come
strumento della creazione di altri esseri. Lo si può chiamare Dio come lo
chiama la Chiesa, ma lo è solo in senso morale ed improprio.
Il Concilio di Nicea
La dottrina di Ario ebbe
una notevole diffusione, suscitò vivaci contrasti e dibattiti che minarono
l’unità della Chiesa e la pace religiosa, creando divisioni, tanto da
compromettere anche una serena convivenza civile. Fu lo stesso imperatore
Costantino che sentì la necessità di convocare il Concilio di Nicea. Si era
riservato il titolo di pontifex maximus, proprio degli imperatori pagani
e si considerava come “il vescovo dell’esterno” della Chiesa.
Egli mise a disposizione
dei convocati al Concilio il cursus publicus, l’utilizzo di quel sistema
di comunicazioni e di viaggi, organizzati dallo stato. Si riunirono a
Nicea secondo la tradizione più di trecento vescovi, in maggioranza dalle
Chiese d’Oriente. Dei partecipanti solo sette provenivano dalle Chiese dell’Occidente,
tra cui il vescovo spagnolo Osio, molto stimato da Costantino, e due presbiteri
romani, Vittore e Vincenzo, come delegati del Papa Silvestro ormai in età
avanzata.
Secondo le testimonianze
di storici antichi la prima sessione del Concilio avvenne il 20 maggio del 325.
I vescovi si radunarono nella grande sala del palazzo imperiale e presero posto
nei loro seggi a destra e a sinistra del luogo riservato all’imperatore.
Attesero in silenzio la sua venuta. Al segno convenuto tutti si alzarono:
Costantino entrò nella sala vestito di porpora e tutto risplendente d’oro,
“simile a un angelo celeste di Dio”, accompagnato da alcuni famigliari
cristiani della sua corte. Quando giunse al suo posto gli fu portato un seggio
tutto d’oro. Si sedette solo dopo aver invitato i vescovi a fare altrettanto.
Il vescovo più vicino all’imperatore gli rivolse un breve discorso di saluto.
Poi Costantino prese la parola e si espresse in latino, ringraziando Dio ed
affermando che la pace della Chiesa era per lui la cosa più importante, più
importante persino delle guerre esterne contro coloro che minacciavano i
confini dell’Impero.
Il primo problema affrontato dai padri
conciliari fu la discussione della dottrina ariana. Si sentì il bisogno di
definire in termini precisi la fede tradizionale a riguardo della natura di
Cristo-Figlio in relazione a quella di Dio-Padre. Il termine più discusso fu la
parola “consostanziale”, della stessa sostanza del Padre (homoousios).
Esso venne accettato e la dottrina ariana fu condannata. Si trattarono nel
Concilio di Nicea anche altre questioni riguardanti la data della Pasqua da
celebrarsi la prima domenica dopo il plenilunio di primavera; inoltre si cercò
di definire l’organizzazione giuridica della Chiesa con quattro sedi
patriarcali (Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria d’Egitto), e furono
stabilite norme disciplinari che riguardavano la condotta dei chierici. Il 19
giugno 325, probabile data della chiusura del Concilio, venne promulgata la
breve redazione finale del simbolo niceno. Tutti lo sottoscrissero ad eccezione
di due vescovi.
Il simbolo niceno
È utile conoscere il simbolo niceno nella
redazione integrale, tradotta in italiano, senza le aggiunte fatte poi dal
Concilio di Costantinopoli. “Crediamo in un solo Dio, Padre
onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un
solo Signore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, nato dal Padre, unigenito, cioè
dalla essenza del Padre, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non
creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono
state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso, si è incarnato
e si è fatto uomo. Ha patito, è risuscitato il terzo giorno, è salito al cielo,
e verrà a giudicare i vivi e i morti. E nello Spirito Santo”.
Seguiva una formula di scomunica e di condanna
delle dottrine di Ario. “Coloro poi che dicono: "che vi fu un tempo in cui
Egli non era; e che prima di essere generato non era; e: che è stato fatto da
ciò che non era o da un'altra persona o sostanza; o: che il Figlio di Dio è
creato, variabile, mutevole, costoro la Chiesa cattolica li anatematizza
(condanna)”.
L’imperatore Costantino
congedò poi al termine del Concilio i vescovi con un sontuoso banchetto, con
donativi per ognuno di loro e con un discorso conclusivo li esortò a vivere
nella concordia e nella pace.
Nonostante il Concilio di
Nicea, l’arianesimo, che aveva anche numerosi simpatizzanti nella corte
imperiale e tra i vescovi dell’impero, continuò ancora per alcuni decenni;
divenne oltre che una dottrina eretica una specie di partito politico, e fu
considerato con simpatia da alcuni successori di Costantino, in particolare
dall’imperatore Costanzo, probabilmente perché la dottrina di Ario poteva
giustificare meglio la volontà di potere assoluto nell’immenso dominio romano.
L’eresia ariana fu debellata nella Chiesa solo
nel Concilio di Costantinopoli, nel 381, che riprese e perfezionò, dopo la
speculazione teologica dei tre grandi Padri Cappadoci, S. Basilio Magno, S.
Gregorio di Nazianzo e S. Gregorio di Nissa, il credo proposto nel Concilio di
Nicea. Il simbolo niceno, rivisto ed ampliato, chiamato simbolo
niceno-costantinopolitano o semplicemente credo niceno è in uso nella liturgia
della Chiesa.
Importanza storica ed
ecclesiale
Il Concilio di Nicea fu
sempre considerato dai cristiani come un evento fondamentale e avvolto,
soprattutto nelle chiese orientali, da una venerazione religiosa. Esso rimane
anche oggi uno stimolo all’unità della Chiesa. Continua infatti ad accomunare i
cristiani di tutte le Chiese: i cattolici, gli ortodossi, i luterani, i
calvinisti, gli anglicani, gli evangelici, i pentecostali.
È significativo che il simbolo niceno cominci
con la parola “Crediamo” al plurale per evidenziare tra varie Chiese
un’appartenenza comune. Il credo niceno nella sua formulazione originale è
normalmente utilizzato nelle assemblee generali del Concilio ecumenico delle
Chiese.
Ricordare oggi il
Concilio di Nicea comporta inoltre, oltre all’impegno per l’ecumenismo e per
l’unità della Chiesa, l’approfondimento e il rinnovamento della fede in Gesù
Cristo, nel mistero trinitario, nella celebrazione dell’Eucaristia. “Il Verbo
si fece carne e dimorò tra noi…. Dio nessuno lo ha mai visto. L’Unigenito Dio,
che è nel seno del Padre, egli lo ha rivelato” (Gv 1, 14.18). Gesù Cristo è
pertanto vero uomo, e vero Dio, non in senso derivato, ma Dio vero da Dio vero,
coeterno col Padre, generato prima di tutti i tempi, non creato: è una Persona
trinitaria che possiede in modo perfetto la natura divina e la natura umana.
Proclamando la divinità di Cristo e il mistero dell’incarnazione, della morte e
della risurrezione di Gesù, il Concilio di Nicea ha precisato e riaffermato
anche il monoteismo trinitario, l’unico Dio in tre persone eguali e distinte,
Padre, Figlio e Spirito Santo, mistero dalla Chiesa sempre professato
nell’amministrare il sacramento del battesimo.
Se non si accetta la
divinità di Cristo, svanisce anche il mistero trinitario e si snatura tutto il
cristianesimo. Il Padre possiede l’unica natura divina come colui che dona
tutto, il Figlio possiede l’unica natura divina come colui che tutto riceve, lo
Spirito possiede l’unica natura divina come vincolo d’ amore tra il Padre ed il
Figlio. Tre Persone (si è persona quando si è in relazione con un tu)
sussistenti in un’unica natura o sostanza, posseduta da ciascuna persona divina
con una relazione diversa. Il cristianesimo professa quindi l’unità di Dio, che
non è unità numerica, ma di natura, di sostanza, perché Dio è comunione, Dio è
amore. Egli è venuto a noi nel tempo con il mistero del suo Figlio che si fa
uomo, muore e risorge per noi per comunicarci la sua stessa vita divina,
rendendoci suoi figli: una realtà d’amore che avvolge anche tutta la nostra
esistenza terrena.
Testimonianze poetiche e mistiche
Il mistero trinitario ha
affascinato anche tanti poeti, antichi e moderni. Il nostro poeta Dante, poeta
della fede cristiana tanto da desiderare di ricevere la corona poetica sul
fonte del suo battesimo, prova un brivido nella sua intelligenza prima e poi
nel suo cuore contemplando il mistero di Dio uno e trino e il mistero
dell’incarnazione di Cristo, termine ultimo del suo e del nostro cammino
spirituale.
“O luce etterna che sola
in te sidi, Sola t’intendi, e da te intelletta E intendente te ami e arridi.
(Par. XXXIII, 124-126)” Ossia: Dio è Uno (luce che sola
sussisti in te stessa) sola ti intendi (Padre) e da te compresa, e comprendente
te (Figlio), ami e riempi di gioia (Spirito Santo): in sintesi ciascuna delle
tre persone divine è soggetto ed oggetto di intelligenza e di amore. Per
intercessione di Maria, Dante ha potuto prima fissare lo sguardo dentro questa
luce eterna, ha intuito il mistero della unità di Dio, vi ha visto legato con
amore nel suo profondo tutto ciò che per l’universo si squaderna, ossia tutta
la vicenda umana e tutta la sua storia personale e ha provato per questo una
gioia indescrivibile. Poi nella profonda e chiara essenza divina vede
tre cerchi di colori diversi ma con la stessa superficie, il secondo riflesso
dal primo e il terzo come un fuoco prodotto egualmente dall’uno e dall’altro.
Ed aggiunge: Oh come è inadeguato il nostro linguaggio davanti a tanto mistero!
Infine, nel cerchio
riflesso del Figlio, proprio dentro di esso, del colore stesso divino, gli
appaiono le sembianze di un uomo, di Cristo, e gli occhi del poeta si fissano
completamente su di lui: si sforza di capire come la natura umana possa unirsi
e collocarsi nel secondo cerchio della natura divina. La sua intelligenza non è
capace di tanto: ma una folgorazione di grazia, dell’“amor che muove il sole e
l’altre stelle”, soddisfa il suo desiderio, placa la sua volontà con senso di
serenità e di pace, mette in movimento la sua vita, che ora si volge senza aver
più sobbalzi o strappi, come una ruota che gira con un moto circolare uniforme.
San Giovanni della Croce intitola una sua poesia sul mistero trinitario “La
fonte”.
La Trinità è una sorgente
di vita che scorre e zampilla anche se fonda è la notte della fede. Io so bene
– dice il poeta - dove essa ha in suo nascondiglio. Questa fonte non ha
origine, anzi ha dato origine a tutte le cose; in essa non si trova fondo e nessuno
può guadarla; la sua luce non si oscura mai e ogni luce è uscita da lei. Non
esiste realtà più bella e cielo e terra bevono della sua bellezza. La corrente
(il Figlio) che fluisce da tale fonte è altrettanto vasta e onnipotente; la
corrente (lo Spirito) che procede dalle prime due (dal Padre e dal Figlio) non
è preceduta da nessuna delle altre due, è coeterna con loro. Questa eterna
fontana è nascosta nel pane vivo dell’Eucaristia per donarci la vita. La
vivente fonte trinitaria, che io desidero - dice San Giovanni della Croce - io
la vedo in questo mistero! Siamo chiamati a dissetarci di quest’acqua viva, del
mistero trinitario, celebrando l’Eucaristia nella notte della fede. Il mistero
dell’incarnazione, inseparabile dal mistero trinitario, è particolarmente
presente in tutta la spiritualità cristiana e in ogni esperienza mistica.
Ognuno di noi, durante il suo pellegrinaggio terreno, nella propria interiorità
può sperimentare in modo unico e personale di vivere fra le braccia e nella
mente di Dio Padre, nel cuore e col cuore di Cristo, avvolto e permeato dallo
Spirito. Sentire la presenza trinitaria è una realtà che trasforma
profondamente la vita quotidiana. È in sintesi quanto viene proclamato al
termine di ogni preghiera eucaristica: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a Te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e
gloria! Amen”.
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