Visualizzazione post con etichetta studio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta studio. Mostra tutti i post

martedì 11 febbraio 2025

BASTEREBBE UNA MELA

 


Che cosa finora hai amato veramente? 

Che cosa ti ha afferrato e reso felice?

 



-         di Alessandro D’Avenia

 

Passeggio tra i sentieri che costeggiano i cortili degli antichi edifici dell'università di Cambridge dove sono stato invitato dalla Italian Society per una conferenza.

È domenica mattina, la luce del sole sbrina i prati e sbrilla le pietre antiche, cori impeccabili attraversano le svettanti vetrate delle cappelle dei college, studenti tacciono in biblioteche gremite.

A guidarmi c'è un gruppo di ragazzi italiani che studiano lì: matematica, bioingegneria, greco, intelligenza artificiale, statistica... a livelli differenti (triennio, master, dottorato). La gioia di una vocazione certa illumina i loro volti in una università tra le prime (1209), quando le università erano necessarie alla vita di una comunità: le vocazioni sono molteplici ma la realtà è una, e per scoprirla ci vuole una comunità di maestri e studenti. Mi sono commosso quando ho salutato quei ragazzi, perché hanno ancora intatto l'amore che porta alla conoscenza, che purtroppo vedo spegnersi in altri contesti. Quegli edifici secolari, in cui adulti e giovani cercano insieme, sono sorti proprio per custodire e allenare il modo specifico di ciascuno di scoprire il mondo e farne professione. Ho chiesto loro chi e dove saranno tra dieci anni, le loro risposte erano consapevoli e coraggiose. Non potrebbe essere così per tutti? 

Basterebbe una mela 

Chi fondò posti come Cambridge, nel tanto odiato Medioevo, li chiamava «universitas magistrorum et scholarium» (unione di maestri e di studenti), per indicare la comunione che comporta la ricerca della verità, perché non si dà corpo (sociale) senza uno scopo comune, come nel corpo umano ogni organo, facendo il suo, fa il tutto.

Ciascuno di noi è qui sulla Terra per raccontare il proprio stupore di fronte alla realtà, perché trasformato in lavoro va a beneficio di tutti, dall'amore per la tavola a quello per le stelle. Che cosa finora hai amato veramente? Che cosa ti ha afferrato e reso felice? Questo è ciò di cui un ragazzo ha bisogno per venire alla luce e il mondo per venire al mondo. Accade come quando dobbiamo arredare casa e cominciamo a notare i particolari di quelle altrui, i negozi di mobili e persino gli oggetti di scena nei film. Quello che prima non vedevamo «appare», perché la realtà diventa reale solo se la corteggiamo. In uno di quei giardini di Cambridge, dove già occhieggiavano timidissime fioriture, dei turisti facevano a gara per fotografarsi con una mela in testa, perché lì c'era un albero nato da quello sotto il quale Newton vide le tracce della gravitazione universale.

Una mela caduta manifestò una legge di natura che tutti avevano sotto gli occhi ma nessuno vedeva. Le leggi di ogni cosa (politica, società, arte, matematica...) sono lì fuori, ma solo chi ne è innamorato riesce a vederle, perché non si danno aumenti di conoscenza senza aumenti di amore, nelle relazioni umane come con le cose. Anche Cézanne si fece bastare qualche mela per stupire il mondo perché, se tutti guardavano ciò che lui guardava, nessuno vedeva ciò che lui vedeva: il fondamento della bellezza, cioè della vita, nel tanto trascurato «luogo comune», cioè dove siamo in comunione con la vita. Come fare ad aiutare i ragazzi a vedere al modo unico di Newton o Cézanne se non hanno mai amato una mela? Ricordo un melo in campagna da cui coglievamo i frutti per mangiarli subito dopo averli sfregati sulla maglietta, erano croccanti e a volte abitati... Quelle mele erano «vive» e mai ho creduto, come ho sentito dire ad alcuni bambini, che i frutti nascono nelle ceste del supermercato e le uova sugli scaffali. Dobbiamo restituire la realtà a ragazzi consegnati alle astrazioni digitali, persino del sesso e del cibo, perché solo la realtà, rapporto tra il nostro corpo e quello del mondo, fa innamorare della vita. Solo così una mela può svelare una legge fisica e metafisica, perché ogni cosa viva chiama in causa tutto l'universo: l'università è in ogni angolo.

Se l'educatore aiuta a rendersi conto di ciò di cui viviamo, di ciò che ci rende vivi, allora a casa e a scuola possiamo ancora allenare questo sguardo attento e gioioso sulle cose, come quando alle elementari cominciai a collezionare minerali perché un professore universitario di mineralogia me ne aveva parlato come oggetti magici e me ne aveva regalati alcuni: per me toccare quelle pietre misteriose e impararne i nomi (tormalina, pirite, quarzo, magnesite...) era viaggiare in un mondo bellissimo. Quegli oggetti erano soglie per entrare con fiducia nella realtà, come ha spiegato il grande pediatra e psicanalista Donald Winnicott: il bambino accede alla realtà attraverso «oggetti transizionali», cose che manipola, morde, stringe, come un gioco o un pupazzo (la coperta di Linus o la tigre di Calvin & Hobbes), per esplorare il mondo senza averne paura. Questi oggetti, dando sicurezza e vincendo il timore della solitudine, allenano il coraggio del bambino a esplorare la realtà.

Oggi purtroppo questi «mezzi di trasporto» (inteso sia come uscita sia come coinvolgimento amoroso) sono spesso sostituiti dallo smartphone, che però è un falso oggetto transizionale, perché non porta fuori (estasi) ma in-trattiene (stasi). Senza una relazione «corposa» e «corporea» con essa, la realtà diventa astratta e muta perché non viene interrogata, e noi a poco a poco ci disamoriamo e annoiamo: stupidi anziché stupiti. 

Guardando la campagna che si stende attorno a Cambridge, mentre vado via grato per quelle ore, ripenso a questi studenti per i quali «studio» è ancora ciò che significava in latino: «amore», tanto che Dante nel Convivio definiva lo studio «applicazione dell’animo, innamorato di una cosa, a quella cosa», un vero corpo a corpo. Mi chiedo perché questo «amore» non possa toccare a molti di più e non solo a pochi fortunati. La risposta non è solo economica (e quindi politica, oggi più che mai per i cervelli in fuga) l'avevano data già negli anni '60 gli psicologi americani Robert Rosenthal e Lenore Jacobson che, dopo aver osservato i bambini di una scuola elementare, avevano indicato ai maestri i 10 più intelligenti. Tornati un anno dopo per verificare l'esito della selezione, constatarono che quei bambini erano effettivamente divenuti i migliori della scuola. Gli insegnanti chiesero agli psicologi come, l'anno prima, li avessero identificati così rapidamente. I due svelarono che la selezione era stata una finzione, avevano scelto i 10 bambini a caso, non erano i più intelligenti ma lo erano diventati. Come? 

L'esperimento (noto anche come effetto Pigmalione) serviva a dimostrare che l'intelligenza è relazionale e quindi il rendimento dipende da come un insegnante guarda l'alunno: se pensa che sia un'aquila lo renderà aquila, se pensa che sia un asino lo renderà asino. Un bambino diventa «come» è guardato: era stato proprio il «ri-guardo» (sguardo ripetuto, cioè attento) degli insegnanti, influenzati dal pre-giudizio sui 10 prescelti, a rendere speciali quei bambini. Per dirla alla latina per diventare studenti («amanti») bisogna essere studiati («amati»), perché l'educatore «crea» effetti di essere a prescindere dalle qualità di partenza dell'allievo: l'intelligenza, come una pianta, cresce per cura.

È la dimostrazione che quella «universitas magistrorum et scholarium», unione di maestri e studenti - a cui dovrebbe aspirare ogni sistema educativo se non fosse soffocato da burocrazia, ricerca del potere e mancanza di professionalità - è necessaria per far fiorire vocazioni e accade solo grazie al «pre-giudizio» che ogni persona è unica, perché solo così lo diventerà realmente e una sola mela continuerà a chiamare in causa l'universo, perché ci sarà ancora qualcuno capace di amarla più del proprio cellulare. 

 Alzogliocchiversoilcielo

Immagine

 

sabato 21 dicembre 2024

DOVE STA LA GRAMMATICA ?


 Grammatica a scuola

allarme 

lanciato dall'Accademia della Crusca

Gli italiani fanno fatica a comprendere i testi che leggono: per l'Accademia della Crusca è colpa della scarsa conoscenza della grammatica

 

 


-di Patrizia Chimera*

 Il 58esimo rapporto annuale del Censis ha svelato un quadro preoccupante per quello che riguarda la situazione sociale del nostro Paese. Per quello che riguarda la formazione e l’istruzione sono molti i punti deboli che emergono dall’indagine. In particolare i riflettori sono puntati sulla scarsa capacità di comprendere i testi che si leggono. Secondo l’Accademia della Crusca questo “problema” potrebbe essere dovuto al fatto che non si studia e non si impara più la grammatica italiana come una volta. Qual è il collegamento tra la comprensione di un testo e la grammatica di una lingua?

La scarsa conoscenza della grammatica italiana

Gli italiani hanno gravi difficoltà a comprendere i testi, un aspetto che fa parte del cosiddetto analfabetismo funzionale. Mirko Tavoni, professore di Linguistica italiana e Filologia dantesca all’Università di Pisa, in un intervento sul sito dell’Accademia della Crusca, ha analizzato i dati del Censis, soffermandosi sulla conoscenza degli italiani della grammatica.

La domanda che il linguista si pone è la seguente: lui si chiede se “la grammatica che si fa – o forse non si fa – nella scuola secondaria abbia o non abbia conseguenze sulla migliore o peggiore comprensione dei testi: abilità, quest’ultima (Reading literacy), senza alcun dubbio di capitale importanza nei sistemi educativi di tutto il mondo”.

Il linguista si chiede anche come vengono “spese le due o tre ore di scuola dedicate alla lingua, sulle sei complessive riservate all’Italiano, ogni settimana, da due milioni e mezzo di adolescenti nel pieno del loro sviluppo intellettuale, e replicate per tre anni (alle medie) più due (al biennio) della loro vita”. La mole di tempo è molta e la domanda se questo tempo e le energie spese vengono messi a frutto bene o male. Perché questo può fare la differenza per il futuro degli studenti.

Conoscere la grammatica per comprendere i testi che si leggono

Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, che il Miur ha reso note nel 2012, non pongono troppo l’accento sulla grammatica, “né in generale né in particolare per servire a comprendere i testi”. A essere protagoniste sono le quattro abilità chiave: saper ascoltare, saper parlare, saper leggere, saper scrivere.

Il linguista, nel suo intervento, ha segnalato che 50 anni fa è iniziata la svalutazione della grammatica. I risultati di tale scelta sono sotto gli occhi di tutti, visto il rapporto del Censis e anche gli esiti delle prove Invalsi. Secondo Tavoni, però, la conoscenza della grammatica italiana ha una forte influenza nella comprensione dei testi.

“La grammatica scolastica, per quanto migliorata nella capacità di descrivere finemente la norma e l’uso, è rimasta immutata – a parte limitate iniezioni di grammatica valenziale – nell’impostazione teorica sottostante, cioè nella obsoleta routine di analisi grammaticale, analisi logica, analisi del periodo, e annesse inerti tassonomie. Appunto il tipo di grammatica che non serve granché a capire i testi”, ha poi aggiunto Mirko Tavoni.

Secondo lui, sarebbe il caso di mettere a disposizione uno strumento didattico utile ad affrontare le tematiche fondamentali “che andrebbero fatte a scuola, come la linguistica moderna ci ha insegnato da almeno trent’anni, e che costituirebbero anche l’introduzione ottimale alla comprensione dei testi”. Ad esempio, analizzare la frase in sintagmi, distinguere il livello sintattico dal livello semantico e da quello informativo, riconoscere la struttura argomentale non solo dei verbi. Per passare “dalla grammatica implicita alla grammatica esplicita, cosa che le Indicazioni nazionali raccomandano agli insegnanti di fare senza dare loro la minima indicazione su come farlo”.

Rapporto annuale del Censis e analfabetismo funzionale in Italia

Il 58° Rapporto Censis ha messo in evidenza un cambiamento generazionale. I giovani sono più attenti all’ambiente, ma frequentano un sistema scolastico che è sempre più fragile. I risultati peggiori si hanno in italiano e in matematica e sono molte le lacune per quello che riguarda la conoscenza della storia e della letteratura.

Secondo quanto è emerso, quasi la metà degli studenti delle scuole superiori (43,5% in italiano, 47,5% in matematica) non raggiunge gli obiettivi di apprendimento previsti. Anche alle scuole medie le percentuali sono allarmanti: quasi il 40% in italiano e il 44% in matematica. Molti italiani non conoscono le date fondamentali della storia italiana, come l’Unità d’Italia, o i personaggi più importanti del Risorgimento, come Giuseppe Mazzini. Scarsa anche la conoscenza di grandi eventi storici internazionali o di grandi capolavori della letteratura.

 * GIORNALISTA PUBBLICISTA

 Mondo Scuola

Immagine

 

 

 

martedì 10 settembre 2024

ELOGIO DEL MINUTO

 


-         di Alessandro D’Avenia

-          

Il presente ci raggiunge solo se gli prestiamo attenzione, ma spesso siamo troppo distratti. Abbiamo persino inventato la curiosa espressione “tempo reale” per indicare ciò che ci raggiunge il più rapidamente possibile.

 Eppure, reale non è sinonimo di veloce, come crede il nostro mondo di corsa, ma ciò di cui scopriamo la pienezza, andandogli incontro anche lentamente, non a caso contento e contenuto hanno la stessa radice: non si può esser contenti senza contenuto. Solo l'attenzione permette al tempo di essere reale, un secondo diventa un secolo (anche secondo e secolo hanno la stessa radice, secare, tagliare: il tempo, a fette). Se in un bosco taglio una mattonella di terreno 30x30, spessore due centimetri, trovo in media 1400 esseri viventi. Uno spazio minimo è così pieno di contenuto (vita) da poterci rendere contenti (vivi). Lo stesso vale per un tempo minimo, ma solo se si è attenti. A questo serve la scuola che comincia: a non vivere altrove, ad allenare l'attenzione, a scavare per bene nell'istante (ciò che sta dentro) e nel circostante (ciò che sta attorno) per trovare realtà a 18 carati, e quindi esperienza autentica. “Non pensate al domani perché a ogni giorno basta il suo peso”, è una frase luminosa di Cristo: ogni giornata, se non fuggi, è sufficiente a renderti vivo e magari ricco. Istante e circostante sì incontrano nell'unità di misura della gioia: il minuto. Come?

 Minuto è sia l'unità di tempo di 60 secondi, sia un aggettivo per indicare le dimensioni, quindi lo spazio occupato da qualcosa: corpo, pioggia, caratteri, faccende possono essere “minuti”. Lo si dice di una persona attenta ai dettagli: minuta o minuziosa. La minuta era, per i nonni, la versione base di un testo. Scaviamo con l'attenzione, la vanga dell'anima, “nel minuto”: che cosa trovo qui (circostante) e ora (istante)? Comincio io, con studio, che significava in latino desiderio, perché non si può conoscere se non ciò che si ama. C'è una piccola conchiglia dalle striature bianche e marroni. Viene dalla spiaggia che frequentavo da bambino, ricca di conchiglie a me ormai così familiari che avrei dovuto farci l'abitudine, e invece no. L'ho raccolta quest’estate: mi stupiscono sempre le regolari coste a sbalzo e i disegni a fascia in tutte le sfumature dal marrone al bianco. Mostrano, sin dalla base della catena dei viventi, una regola geometrica della vita che già basta a stupirmi: la simmetria bilaterale. Quella conchiglia è la metà di un’altra uguale. La stessa simmetria del corpo umano, del volto, del cuore. Voglio scavare oltre. Scopro che si chiama acanthocardia tubercolata, nome dato nel 1758 alla bivalve che può avere varie dimensioni ma sempre 18-20 coste radiali. Il nome latino contiene la parola cuore, si chiamano infatti anche cuori di mare, molto comuni nelle spiagge del Mediterraneo e dell'Atlantico nord-occidentale, e con una funzione fondamentale per il fitoplancton delle coste. Appartengono alla famiglia infinita di molluschi bivalvi detti cardiidae: cuori. Sulla mia scrivania c'è quindi un mezzo cuore, metà di una casa costruita con maestria e gusto da un essere i cui fossili datano a 30 milioni di anni di fa, nel periodo geologico chiamato Oligocene, quando si formarono le Alpi e l'Himalaya e si ghiacciò la calotta antartica, tanto che il mare raggiunse il livello più basso nella storia terrestre, facendo emergere passaggi che permisero la migrazione di piante e animali che si ritrovano infatti in continenti diversi. Al confronto della storia di questa conchiglia, la mia, quella dei sapiens, è iniziata un minuto fa. La solita conchiglia da passeggiata racconta una storia millenaria di cui ho solo scalfito la superficie, ma che basta a risvegliare vocazioni, dal geologo al malacologo, ispirazioni, dall'artista allo stilista, meraviglia, all'ignorante attento, cioè lo studente.

 Poco sopra c'è lo schermo del computer aperto sulle notizie: domina quella di un diciassettenne che ha ucciso padre, madre e fratello con 68 coltellate. La descrizione mi lascia sgomento ma mi commuovono le parole dei nonni che dichiarano che non lo abbandoneranno mai. In questo frammento ci sono tutte le ombre e le luci del cuore umano, sangue e cura, male e bene. Non aggiungo l'ennesima analisi del dramma, mi ricordo solo che fare l'insegnante è ascoltare i vuoti e i silenzi dei ragazzi, non solo le loro interrogazioni. Poi in questo “minuto”, a destra, c'è la colonna pericolante dei libri in attesa, dove poc'anzi ne ho poggiato uno giunto in regalo, un “presente” inatteso. Autore, Giulio Busi, titolo, “Giovanni: il discepolo che Gesù amava”. Una storia dell'evangelista che preferisco, rileggo e approfondisco. Il libro vuole smentire la tesi che quello di Giovanni sia il meno affidabile dei vangeli dal punto di vista storico. Infatti, il testo mostra che Giovanni conosce benissimo la vita del tempo e in particolare di Gerusalemme nel primo secolo: strade, usanze, sogni, intrighi...

Unico apostolo non ucciso dai persecutori del cristianesimo, si trasferirà a Efeso dove racconterà a tanti dell'uomo che gli ha cambiato la vita. Dai suoi ricordi nasce il testo più studiato e commentato al mondo. Io uno che dice di aver toccato Dio sulla Terra lo sento amico, perché ne ho bisogno. Sollevo lo sguardo dalla copertina e in questo “minuto” c'è anche un acquarello che mi ha regalato anni fa un ragazzo in una scuola. Su uno sfondo scuro una sagoma bianca, in bicicletta, solca una strada, il colore dell'asfalto è quello di un cielo notturno, il cielo sembra in terra, la terra in cielo. Sul petto della figura bianca è accesa una macchia rossa all'altezza del cuore. Geniale nella composizione e bello per dinamismo e colori, tengo l'acquarello sulla scrivania.

 Quel ragazzo, talento che ho saputo poi esser fiorito, aveva colto l'essenza del mio viaggio artistico ed esistenziale: un esploratore lento, cuore acceso (studio è desiderio), a caccia del cielo in terra. Tutte le volte che lo guardo mi ricordo che ci sto a fare qui. Il “minuto” finisce solo perché questo “pezzo” finisce, ci sarebbero infiniti finiti da scavare ma mi resta solo il tempo di leggere la massima scritta sul foglietto di un calendario da tavolo, quella di domenica 8 settembre dice: “Concentra l'attenzione su una cosa alla volta”. È vero: quanta grazia ricevuta solo per aver scavato in uno dei 1440 minuti di oggi. Che gioia poterlo fare ancora, e ancora, fino alla fine dei miei minuti. In fondo abbiamo sempre e solo il minuto per vivere, perché il passato è un “minuto” degno d'esser ricordato e il futuro un “minuto” degno d'esser desiderato. Studiare il minuto è il segreto della scuola imminente e permanente della vita senza la quale tutto si disperde nel vuoto, cioè nel non-contenuto, e quindi nello s-contento.

 Buona scuola a tutti.

Alzogliocchiversoilcielo

Immagine

 

lunedì 17 aprile 2023

SCUOLA. CONTO ALLA ROVESCIA


 È inutile studiare, se non sboccia il gusto 

per “questa” ora di lezione

La scuola prepara per un viaggio inutile, che nessuno vuole fare. È il prezzo che si paga per averla ridotta a meccanismo.

- di  Valerio Capasa

 

Anche sul muro della mia quinta campeggia un cartellone con i numeri decrescenti da 100 a 1. Ogni giorno una ragazza sale sulla sedia e ci mette una croce sopra: 62 61 60 59… A me, più che The final countdown, viene in mente Piove di Domenico Modugno: “Ciao ciao mia alunna / un autore ancora / e poi per sempre ti perderò”. E annego nel groppo in gola di questo “per sempre”: “E fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia”.

Piace sbarrare caselle anche agli insegnanti: autori, argomenti, capitoli, uno dopo l’altro. Giorni, spiegazioni, verifiche: tutti si tolgono davanti qualcosa. Non è già abbastanza che pagine, alunni e parole si cancellino da soli? Perché mettersi a soffiare a favore di vento, agevolando la già naturale smemorataggine? Io prego con i versi di Montale: “Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre”.

L’album delle figurine, una volta completato, non ha più granché di interessante. In principio era un album vuoto, che a poco a poco si riempie incollando le figurine degli autori svolti: Svevo, Pascoli, Ungaretti… E alla fine eccoli lì, tutti al loro posto, nella pagina trionfante e ingannevole, dove manca tanto di quello che speravi, a cominciare dal fatto che un album di figurine non somiglia a una partita di calcio, come un autore inserito in programma non somiglia alla lettura di un libro. Lo canta splendidamente Francesco De Gregori, e potrebbe sottoscriverlo qualunque scrittore: “Guarda che non sono io la mia fotografia / che non vale niente e che ti porti via”.

Sparita la bella esitazione dell’album incompleto, della pagina bianca, dell’ansia di scoprire e di giocarsela, rimane tutto fatto, e tutto morto. La realtà invece è realtà “quando porta con sé un segreto”. Ungaretti lo diceva della poesia, ma vale identicamente per una materia, una classe, un alunno. Invece qui son tutti in fibrillazione per completare l’album.

È l’eterna vicenda di Marta e Maria: l’una indaffarata, a preparare comprensibilmente il pranzo; l’altra che “si è scelta la parte migliore”. Mentre in aeroporto non riesco a staccare i miei occhi dagli occhi di questi ragazzi che stanno per volare via, mi pare che gli altri si agitino per riempire la valigia, dove si può schiacciare un altro argomento e poi infilarne un altro ancora, fino a scoppiare. Non badano al fatto che dopo pochi viaggi la valigia, trattata così, non potrà che rompersi, che lo spazio del cervello è quello che è, che solo alcuni possono permettersi un supplemento, e che ben altra storia sarebbe viaggiare per trasferirsi: allora sì che sarà giusto, per chi si iscrive a una determinata facoltà, portarsi dietro tutto quello che gli serve. Ma continuando a ingozzarci così, chi è che vorrà mai trasferirsi nel paese di Obesità?

Ovviamente, come nel film Mamma ho perso l’aereo, in tutta questa furia capita che ci si dimentichi della cosa più importante: “Kevin!”. Preoccupàti delle cose, finiamo per scordarci le persone.

Saint-Exupéry raccomandava tutt’altro approccio: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna e dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.  Perché di un orizzonte infinito c’è bisogno, su questi binari in cui tutto è già scritto. I riti di iniziazione li ha scanditi Brunori Sas nelle Quattro volte:

Primo step: “Devo solo arrivare alla quinta elementare”.

Secondo step: “Devo solo arrivare agli esami di maturità”.

Terzo step: “Devo solo arrivare alla fine del mese”.

Quarto step: “Devo solo arrivare a due passi dall’altare”.

Risultato finale: “e dopo quarant’anni forse andarmene in pensione / con l’orologio d’oro al polso e il gelo dentro al cuore”.

È lì che vogliamo arrivare? A sfornare professionisti anziché a educare uomini? A immetterli nel sistema senza che sappiano giudicarlo e magari ripensarlo? Fra Pcto, progetti, certificazioni, arretrati, overdose di capitoli e test d’ingresso, il meccanismo è talmente ben congegnato che è quasi impossibile trovare uno spiraglio di libertà: “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va’, per te l’ho pregato”, sussurro ancora con Montale.

Sono anni che, alla domanda “tu quanti autori fai?”, rispondo con la contro-domanda “tu quanti lettori susciti?”. Si tratta di spostare lo sguardo dagli oggetti ai soggetti. Non entro in classe per spiegare questo argomento o fare queste verifiche, ma perché questo ragazzo alzi lo sguardo, cominci a esserci, per toccare questo “scordato strumento, / cuore”.

Lo scrive ancora Montale in Prima del viaggio: si sa cosa va fatto quando ci si prepara a partire, “si controllano / valige e passaporti, si completa / il corredo”, si sistemano i nodi concettuali, ci si informa sulle sedi universitarie. “E poi si parte e tutto è O.K. e tutto / è per il meglio e inutile”. In fondo in fondo, non la sentiamo tutti l’inutilità di queste croci sopra, di questa vita sistemata, di questo gelo che cresce nel cuore, di questo mondo impersonale e agghiacciante?

Non lo cercate anche voi “un malchiuso portone” da cui possa intrufolarsi quella lezione, quel messaggio, quell’appuntamento, quell’amicizia in cui “il gelo del cuore si sfa”?

“Un imprevisto / è la sola speranza”. Può essere un ragazzo che non ha voglia di finire ma di cominciare, non di arrivare ma di vivere il presente. “E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla”. È inutile studiare, se non sboccia il gusto per il proprio viaggio, per questa ora di lezione. Stamattina c’è ancora da cantare Brunori: “Si può nascere un’altra volta”.

 

Il Sussidiario

sabato 18 dicembre 2021

SCUOLA: STARE BENE e APPRENDERE BENE

Una scuola troppo “facile” 

non favorisce le classi sociali emarginate

 



-         Stefano Quaglia

 

Qualche giorno fa ha fatto scalpore una notizia: «La commissione ha esaminato 1.532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi». I numeri si riferiscono al concorso per entrare in magistratura e precisamente ai candidati che non hanno commesso errori nella scrittura dei compiti assegnati. Un florilegio di errori di grammatica e sintassi che ci fa chiedere chi ha promosso questa gente a scuola e all’università. In realtà le cose sono molto, ma molto più complesse. Mi permetto solo di fissare quattro punti cardinali, quasi una bussola, per orientarci in questa riflessione: la scuola non può bocciare, perché è un diritto di tutti conseguire il giusto livello di istruzione e aspirare alle più elevate posizioni sociali e culturali; a forza di promuovere tutti abbiamo danneggiato i più bravi e desiderosi di impegnarsi, che spesso appartengono alle classi più fragili e socialmente marginali. La scuola non è più un ascensore sociale; la scuola non deve essere noiosa, ma piacevole. A scuola si deve star bene; se i ragazzi non imparano a scuola il sacrificio e l’impegno non saranno pronti ad affrontare la vita. I lettori avranno riconosciuto che i quattro punti cardinali rappresentano le opposte posizioni pedagogiche che si sono fronteggiate in questi ultimi quarant’anni in tema di scuola ed educazione. Da un lato l’esigenza di potenziare la scuola come luogo di socializzazione. Dall’altro la necessità di rispondere alla richiesta sempre maggiore di competenze da parte della Knowledge Society, la “Società della conoscenza”, nella quale non la ricchezza produce cultura, ma il sapere produce ricchezza.

Evidentemente qualcosa non ha funzionato. Chi nella scuola vive e lavora da qualche decennio e guarda agli eventi sempre con la dovuta passione educativa, ma anche con l’impegno di evitare derive verso la superficialità e il pressapochismo, sa bene che il nodo non sta tanto nei momenti liturgici della valutazione, come gli scrutini finali e gli Esami di Stato; il cuore della questione è nella vita scolastica di tutti i giorni, nella banale, noiosa, insostituibile routine quotidiana. Non neghiamolo: si sono perse alcune buone pratiche che invece di essere eliminate e tacciate di arcaismo pedagogico andavano valorizzate e sostenute. La prima è l’apprendimento a memoria di poesie e di testi facili, senza il quale non si può arricchire il repertorio personale delle parole; la seconda è l’esercizio della esposizione narrativa orale e scritta, che richiede tempi lunghi e distesi di esercizio e di pratica.

Se in passato la scuola superiore era frequentata da coloro che quasi naturalmente avevano queste doti, oggi abbiamo una scuola di tutti. L’universo dei nati coincide, nella scuola primaria, con l’universo degli alunni e nelle superiori ormai, pur con diverse percentuali di dispersione a seconda dei territori, la quasi totalità degli adolescenti è comunque presente per assolvere l’obbligo e conseguire un titolo. L’impegno per i docenti, dunque, si è fatto molto più difficile e complesso.

Di fronte a questa situazione era evidente che non bastasse un solo docente di italiano in ogni classe. La conoscenza della cultura letteraria è fondamentale, ma è assolutamente necessario avere una persona dedicata esclusivamente alla attività di dialogo e scrittura. Pratica questa che deve essere attivata costantemente in tutti i gradi nel corso dei tredici anni di scuola. La scrittura è un’attività difficile, richiede esercizio, maturazione, fatica, capacità di esprimersi anche oralmente. Nella società dei velocisti, ci sarà spazio per i maratoneti? Forse dobbiamo rivedere il nostro concetto di scuola. Ormai è evidente che la secondarizzazione della primaria comporta ipso facto la primarizzazione della secondaria. Trenta ore settimanali con dieci o dodici materie sono meno efficaci di venticinque con sei o sette materie svolte in modo approfondito e disteso. Ci siamo preoccupati troppo di insegnare di più invece che di insegnare meglio. E questo è il risultato. A scuola non si deve imparare tutto, ma ciò che è funzionale per imparare a imparare. Sono anni che chi sa di scuola lo ripete. Qualcuno ci ascolterà?

 

www.avvenire.it

 

 

venerdì 4 marzo 2016

Italia : STUDIARE TANTO E IMPARARE POCO - La ricerca dell'OCSE

Studiare tanto e imparare poco

il gap digitale della Scuola italiana



Una recente ricerca OCSE afferma che gli studenti italiani studiano tanto (a casa) ma imparano poco al contrario dei loro colleghi del Nord Europa.


di Paolo Ferri, università Bicocca di Milano

Una recente indagine dell’OCSE rileva come gli studenti italiani siano, nel mondo, tra i più “afflitti” dai compiti a casa. I nostri studenti delle medie superiori trascorrono, infatti, quasi nove ore la settimana a fare i “compiti” contro una media Ocse di 4,9 ore. E' il dato più elevato tra i paesi dell'area........

venerdì 18 febbraio 2011

SERVE ANCORA STUDIARE?

Il ruolo della scuola e il senso dell’impegno pedagogico. Parla la scrittrice Mastrocola.

Oggi un ragazzo può legittimamente chiedersi se lo studio serva ancora.Il dramma è che noi adulti abbiamo risposto di no...Noi che usiamo tranquillamente tutte le nuove tecnologie conoscendo Dante e Petrarca, avendo letto Tasso, Leopardi e Montale, sapendo di latino e di sintassi.  .....Insomma, vogliamo o no che i nostri ragazzi abitino anche una sfera mentale, spirituale, delle idee e non siano interamente calati nel più puro materialismo? ....Vogliamo che la scuola serva ancora a qualcosa? Cosa vogliamo che facciano i nostri figli?».  La nostra società, cioè tutti noi, è troppo concentrata sul suo ombelico, è troppo rivolta al piacere..... Si sono perduti i valori pedagogici della fatica, dell’umiltà......

Leggi: SERVE STUDIARE?