«L'ordre international entre règles, coopération, compétition et nouveaux expansionnismes».
- - di Sergio Mattarella
“….
Un ordine internazionale che, come tutti i contratti sociali e le strutture
politiche, ribadisce la propria funzione conferma la propria stabilità, se
alimentato con impegno, sviluppando capacità di ascolto e adattamento, nonché
cooperazione rispetto ai fenomeni che si presentano.
La
storia, in particolare quella del XX secolo, ci ha insegnato che quest’ordine è
un’entità dinamica, subordinata a equilibri che, ovviamente, non sono immuni
dall’essere influenzati da tensioni politiche, cambiamenti economici.
Spesso,
gli squilibri che affiorano hanno radici remote: negli strascichi lasciati dai
conflitti del passato. Oppure corrispondono a pulsioni, ad ambizioni di attori
che ritengono di poter giocare una partita in nuove e più favorevoli
condizioni, con l’attenuarsi delle remore rappresentate dalle possibili
reazioni della comunità internazionale e l’emergere di una crescente
disillusione verso i meccanismi di cooperazione nella gestione delle crisi.
Quegli strumenti nati per poter affrontare spinte inconsulte dirette a riaprire
situazioni già regolate in precedenza sul terreno diplomatico.
Del
resto, la generosa fatica delle istituzioni sorte nei decenni successivi alla
Seconda Guerra Mondiale, costellata da bruschi arresti e delusioni, purtroppo
non è stata in grado di manifestare tutta la sua potenziale efficacia.
I
veti incrociati in Consiglio di Sicurezza hanno ripetutamente impedito all’ONU
di dispiegare la sua azione di pace, e, tuttavia, quanto è riuscito a esprimere
è stato un grande successo.
I
detrattori dell’Organizzazione dimenticano, comunque, tra l’altro, il suo ruolo
cruciale nel processo di decolonizzazione, o nella costruzione di un impianto
normativo per arginare l’escalation militare e favorire il disarmo.
Una
riflessione sul futuro dell'ordine internazionale non può prescindere da un
esercizio di analisi che, guardando alle incertezze geopolitiche che oggi
caratterizzano il nostro mondo, richiami alla memoria la successione di eventi,
di azioni o inazioni, che condussero alla tragedia della Seconda Guerra
Mondiale.
Apprendere
dagli errori
La
storia non è destinata a ripetersi pedissequamente, ma dagli errori compiuti
dagli uomini nella storia non si finisce mai di apprendere.
La
crisi economica mondiale del 1929 scosse le basi dell'economia globale e
alimentò una spirale di protezionismo, di misure unilaterali, con il
progressivo erodersi delle alleanze. La libertà dei commerci è sempre stata un
elemento di intesa e incontro. Molti Stati non colsero la necessità di
affrontare quella crisi in maniera coesa, adagiandosi, invece, su visioni
ottocentesche, concentrandosi sulla dimensione domestica, al più contando sulle
risorse di popoli asserviti d’oltremare.
Fenomeni
di carattere autoritario presero il sopravvento in alcuni Paesi, attratti dalla
favola che regimi dispotici e illiberali fossero più efficaci nella tutela
degli interessi nazionali.
Il
risultato fu l’accentuarsi di un clima di conflitto - anziché di cooperazione -
pur nella consapevolezza di dover affrontare e risolvere i problemi a una scala
più ampia. Ma, anziché cooperazione, a prevalere fu il criterio della
dominazione. E furono guerre di conquista. Fu questo il progetto del Terzo
Reich in Europa.
L’odierna
aggressione russa all’Ucraina è di questa natura.
Protezionismo
di ritorno
Oggi
assistiamo anche a fenomeni di protezionismo di ritorno. La Presidente della
Commissione Europa, a Davos, pochi giorni fa, ricordava che, solo nel 2024, le
barriere commerciali globali sono triplicate in valore.
Crisi
economica, protezionismo, sfiducia tra gli attori mondiali, forzatura delle
regole liberamente concordate, diedero un colpo definitivo alla Società delle
Nazioni sorta dopo la Prima guerra mondiale, già compromessa dalla mancata
adesione degli Stati Uniti che, con il Presidente Wilson, ne erano stati fra
gli ispiratori.
Si
trattò, per gli Usa, del cedimento alla tentazione dell’isolazionismo. Ma il
lavoro della Società non fu comunque vano se pensiamo che ad essa dobbiamo, ad
esempio, il Trattato contro il commercio di schiavi e la schiavitù, e siamo nel
1926.
Nel
fragile contesto degli anni fra le due guerre mondiali, percorso da un cupo
rialzarsi del nazionalismo, da allarmanti tendenze al riarmo, dal contrasto fra
gli Stati - secondo la logica delle sfere di influenza - furono circa 20 i casi
di recesso dalla Società delle Nazioni.
La
Germania, con Hitler Cancelliere, si ritirò nel 1933. Lo stesso fece il
Giappone. L’Italia uscì nel 1937. Questi ultimi due Paesi (con Francia e Impero
britannico e la stessa Germania), erano membri permanenti del Consiglio della
SdN.
Fin
dall’inizio, purtroppo, la Società delle Nazioni non seppe fare argine
all’espansionismo, alle ripetute violazioni della sovranità territoriale, in
Europa come in altri continenti.
Così,
negli anni Trenta del secolo scorso, assistemmo a un progressivo sfaldarsi
dell'ordine internazionale, che mise in discussione i principi cardine della
convivenza pacifica, a cominciare dalla sovranità di ciascuna nazione nelle
frontiere riconosciute.
Le
politiche di appeasement adottate dalle potenze europee nei confronti dei
fautori di queste dinamiche furono testimonianza di un tentativo vano di
contenere ambizioni distruttive di simile portata: emblematico rimane l'Accordo
di Monaco del 1938, che concesse alla Germania nazista l'annessione dei Sudeti,
territorio della Cecoslovacchia.
Un
abbandono delle responsabilità condusse quei Paesi a sacrificare i principi di
giustizia e legittimità, nel proposito di evitare il conflitto, in nome di una
soluzione qualsiasi e di una stabilità che, inevitabilmente, sarebbero venute a
mancare.
La strategia dell’appeasement non funzionò nel 1938. La fermezza avrebbe, con alta probabilità, evitato la guerra. Avendo a mente gli attuali conflitti, può funzionare oggi?
Quando
riflettiamo sulle prospettive di pace in Ucraina dobbiamo averne
consapevolezza.
Care
studentesse, cari studenti,
vi
vediamo, oggi, con grande apprezzamento, partecipi, attivi, pieni di progetti.
Il
vostro attuale destino, le condizioni in cui viviamo in Europa, sono frutto
delle scelte fortemente volute dopo la Seconda Guerra Mondiale, guardando
proprio ai milioni di morti delle guerre del Novecento.
Cooperazione
e non competizione. Fraternità laddove regimi e governi avevano voluto seminare
odio.
Penso
alle centinaia di migliaia di giovani che la Seconda Guerra Mondiale strappò
alle aule universitarie, alle loro famiglie.
Sul rifiuto di cedere alla violenza della prepotenza, sul sacrificio di quelle generazioni, abbiamo costruito il più lungo periodo di pace di cui l’Europa abbia goduto. Settant’anni di pace.
Certo,
per guardare alla storia di Francia, si studia la Guerra cosiddetta dei
Cent’anni (116 per l’esattezza), con l’Inghilterra. Ma, per l’intera Europa,
ricordiamo quella degli Ottant’anni, dei Trent’anni, dei Quindici anni: sono
anelli della periodizzazione che gli storici propongono, centrandola sui
conflitti.
Raramente
ci si sofferma sui periodi di pace.
È
bene, invece, parlare della pace di questi decenni come della Pace dei
Settant’anni, nel proposito che si prolunghi e non venga mai interrotta, per
dire che la pace è possibile.
Che
una pace rispettosa dei diritti della persona, delle comunità e dei popoli, è
possibile.
Che
non si tratta di aspirazioni ireniche, non sorrette da fatti. Al contrario.
Al
termine del conflitto le potenze alleate contro il morbo nazifascista si
trovarono di fronte alla necessità di costituire un nuovo ordine mondiale che
sapesse evitare gli errori del passato e fornire nuove prospettive all’umanità
stremata.
Il
primo risultato fu la Carta di San Francisco, della quale ricorrono gli
ottant’anni.
Colpisce
e coinvolge leggerne il preambolo che, non a caso, si apre con la formula “noi
popoli”. Non dice “noi Stati”, “noi nazioni”. Proclama: “noi popoli”.
Recita
infatti: Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni
dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha
portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti
fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella
eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e
piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli
obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale
possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato
tenore di vita in una più ampia libertà, e per tali fini
a
praticare la tolleranza ed a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di
buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale, ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e
l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che
nell’interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il
progresso economico e sociale di tutti i popoli, abbiamo risoluto di unire i
nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini”.
Questa
la strada lucidamente disegnata.
Nacque
quel complesso sistema di organismi internazionali con al centro le Nazioni
Unite, la prima vera organizzazione universale della storia umana, che, seppur
tra luci e ombre, ha perseguito per ottant’anni l’obiettivo primario della pace
mondiale, della crescita e diffusione della prosperità, della soluzione
pacifica delle controversie.
Senza
dimenticare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali,
essenziale tassello di questa nuova architettura.
Il
grande giurista René Cassin, che di questa Università fu studente e poi
professore, coautore della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani del 1948
e premio Nobel per la pace, scrisse, infatti “Non ci sarà mai Pace su questo
pianeta finché i diritti umani vengono violati, in qualunque parte del mondo.”
Il
dispotismo dei sistemi di impronta fascista e nazista appariva condannato dalla
storia.
Il
sistema costruito dopo il 1945 fu retto, per una lunga fase, dalla grammatica
del bipolarismo basato in primo luogo su contrapposizioni ideologiche, cui
corrispondevano, tuttavia, anche propositi di potenza. La Guerra Fredda definì
le relazioni internazionali per quasi mezzo secolo, cristallizzando i rapporti,
gli schieramenti e gli attori stessi della vita internazionale. A dominare era
il terrore dell’olocausto nucleare.
Il
9 novembre 1989, con il crollo del Muro di Berlino, si ricomponevano storia e
geografia in Europa e nel Mediterraneo dopo la frattura della Guerra fredda.
Una trasformazione epocale si realizzava e l’ordine internazionale, ancora una
volta, assumeva una nuova forma.
Il
XX secolo si concludeva con il collasso dell'Unione delle Repubbliche
Sovietiche e un nuovo assetto globale, nel quale la diffusione delle democrazie
liberali appariva preponderante.
Molti
lessero nella fine della Guerra Fredda il compimento dell’internazionalismo
kantiano: sembrava a portata di mano una pace universale fondata sui valori
liberali e democratici.
Fu
la stagione delle grandi conferenze onusiane, da quella sull’Ambiente di Rio de
Janeiro del 1992 a quella sulle Donne di Pechino nel 1995. Nascono gli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio, si amplia la membership delle
Organizzazioni Internazionali (è del 2001 l’ingresso della Cina
nell’Organizzazione mondiale del commercio), realizzando così una progressiva
integrazione degli attori nell’ordine internazionale.
L’umanità
sembrava esser divenuta consapevole di essere legata a un destino comune, a una
unica responsabilità.
La
globalizzazione
La
globalizzazione, con la crescita del commercio internazionale, la riduzione
delle distanze dovuta all’aumento e alla facilità dei trasporti
intercontinentali, il sempre maggiore flusso di passeggeri, idee, ha ampliato
gli orizzonti di libertà e spinto molti osservatori a pensare che fosse anche
il più rapido veicolo per la pace, la cooperazione, se non la
democratizzazione.
La
globalizzazione contemporanea ha prodotto un livello di integrazione
internazionale e di crescita senza precedenti nel corso della storia. Miliardi
di persone sono uscite dalla povertà. Scambi di conoscenze e opportunità sono
aumentati esponenzialmente, il progresso scientifico ha compiuto passi in
avanti impensabili e ha permesso applicazioni pratiche in ogni settore della
vita umana.
L’utopia
di un mondo “unipolare” si è consumata nel tempo di poco più di un ventennio.
Il processo si è inceppato, a fronte di scontri di interesse, spesso
all’interno delle stesse comunità, basti pensare alla ex Jugoslavia all’inizio
degli anni ‘90, all’instabilità in molti paesi del Corno d’Africa e dell’Africa
sub-sahariana, al mai risolto conflitto in Medio Oriente. Attori, spesso non
statuali - anche se, talvolta, sorretti da Stati - si propongono la
“conquista”, non esclusa la pratica di atti di terrorismo.
All’inizio
del XXI secolo ci si è così progressivamente trovati di fronte a una situazione
fluida, nella quale a prevalere erano i rischi e il sentimento di incertezza e
imprevedibilità.
La
sfida è corrispondere in modo costruttivo al nuovo che emerge.
Agli
organismi internazionali tradizionali si è affiancato il G7, a questo il G20.
Il gruppo dei “BRICS” vede espandere i suoi membri e rappresenta una quota
crescente della popolazione e della produzione economica globale, proponendosi
di agire da gruppo di pressione nella definizione di standard e nella gestione
di opportunità, quasi revival riveduto del gruppo dei Paesi “non allineati” –
allora, peraltro, davvero tali - che prese avvio con la Conferenza di Bandung,
in Indonesia, nel 1955.
Accanto
a questa nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si
riaffaccia, tuttavia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di
“sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia
generazione ha combattuto.
Tema
cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio - novelli
corsari a cui attribuire patenti - che aspirano a vedersi affidare signorie
nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal
cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle
sovranità democratiche.
Ricordiamoci
cosa detta l’Outer Space Treaty all’ Art. II: “Lo spazio extra-atmosferico,
compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da
parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od
occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile”.
La
conquista, nuova caratteristica
L’età
moderna è stata caratterizzata dalla “Conquista”, di terre, ricchezze, risorse.
Nei secoli, dall’abbandono progressivo di territori non più fertili, con le
migrazioni verso nuovi lidi. In tempi relativamente recenti, con il mito, in
America, della “Nuova frontiera”.
Regole
e strumenti ci sarebbero per affrontare questa fase e allora perché il sistema
multilaterale sembra non riuscirci, con il rischio del ripetersi di quanto
accaduto negli anni Trenta del secolo scorso: sfiducia nella democrazia,
riemergere di unilateralismo e nazionalismi?
Oggi
come allora si allarga il campo di quanti, ritenendo superflue se non dannose
per i propri interessi le organizzazioni internazionali, pensano di
abbandonarle.
Interessi
di chi? Dei cittadini? Dei popoli del mondo? Non risulta che sia così.
Le
conseguenze di queste scelte, la storia ci insegna, sono purtroppo già scritte.
È
il momento di agire: ricordando le lezioni della storia e avendo a mente il
fatto che l’ordine internazionale non è statico. E' un’entità dinamica, che
deve sapersi adattare ai cambiamenti, senza cedimenti su principi, valori e
diritti che i popoli hanno conquistato e affermato.
Quest’anno
- ho menzionato Bandung e la Carta di San Francisco - ricorrono altresì i
cinquant’anni dalla conclusione della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e
la cooperazione in Europa, insieme ai trent’anni dell’Osce, che ne è derivata.
Settantacinque
anni fa, nel mese di ottobre, veniva lanciato il Piano Pleven per una difesa
europea. Faceva seguito alla dichiarazione Schuman, del maggio dello stesso
anno, che avrebbe portato alla costituzione della Comunità Europea del carbone
e dell’acciaio.
Quarant’anni
fa, sul lago di Ginevra, il presidente Usa, Ronald Reagan, e quello dell’Urss,
Michail Gorbaciov, avviarono il disgelo che portò alla sottoscrizione del
Trattato INF che eliminò dall’Europa i missili cosiddetti di teatro.
Nel
1990, Parigi vide la sottoscrizione del Trattato CFE per la riduzione
delle forze convenzionali in Europa.
La
distensione portò a un dividendo per la pace, che si espresse con sensibili
riduzioni delle spese per armamenti, e una stagione di incontro, condivisione. Fu
l’avvio di una nuova architettura di sicurezza europea e mondiale. Ancora una
volta, dialogo e spirito di cooperazione prevalsero.
Cosa
vuol dire?
Che
la pace non è un dono gratuito della storia.
Che
statisti e popoli, per conseguirla, devono dispiegarvi il loro impegno.
Che
la pace occorre volerla, costruirla, custodirla.
Anche
con la paziente messa in campo di misure di fiducia.
Basti
pensare alla vera e propria batteria di accordi e trattati internazionali che,
nei decenni, l’hanno corroborata.
Cosa
rimane di tutto ciò?
Passo
dopo passo, i principali protagonisti hanno, dapprima, iniziato a violarli e,
poi, a denunciarli.
Quale
diventa, quindi, il prezzo della sicurezza? La minaccia dell’uso, se non la
pratica, della violenza?
Si
tratta di interrogativi che riguardano, in primo luogo, proprio l’Unione
Europea.
L’Europa
intende essere oggetto nella disputa internazionale, area in cui altri
esercitino la loro influenza, o, invece, divenire soggetto di politica
internazionale, nell’affermazione dei valori della propria civiltà? Può
accettare di essere schiacciata tra oligarchie e autocrazie?
Con,
al massimo, la prospettiva di un “vassallaggio felice”.
Bisogna
scegliere: essere “protetti” oppure essere “protagonisti”?
L’Italia
dei Comuni, nel XII e XIII secolo, suggestiva ma arroccata nella difesa delle
identità di ciascuno, registrò l’impossibilità di divenire massa critica, di
sopravvivere autonomamente e venne invasa, subì spartizione.
L’Europa
appare davanti a un bivio, divisa, come è, tra Stati più piccoli e Stati che
non hanno ancora compreso di essere piccoli anch’essi, a fronte della nuova
congiuntura mondiale.
L’Unione
Europea è uno degli esempi più concreti di integrazione regionale ed è, forse,
il più avanzato progetto - ed esempio di successo - di pace e democrazia nella
storia.
Rappresenta
senza dubbio una speranza di contrasto al ritorno dei conflitti provocati dai
nazionalismi. Un modello di convivenza che, non a caso, ha suscitato emulazione
in altri continenti, in Africa, in America Latina, in Asia.
Costituisce
un punto di riferimento nella vicenda internazionale, per un multilateralismo
dinamico e costruttivo, con una proposta di valori e standard che abbandona
concretamente la narrazione pretestuosa che vorrebbe i comportamenti dei
“cattivisti” più concreti e fruttuosi rispetto a quelli dei cosiddetti
“buonisti”.
L’Unione
Europea semina e dissemina futuro per l’umanità.
Ne
sono testimonianza gli accordi di stabilizzazione internazionale stipulati con
realtà come il Canada, il Messico, il Mercosur. Le stesse politiche di
vicinato, le intenzioni messe in campo dopo la Dichiarazione di Barcellona sul
partenariato euro-mediterraneo (siamo a trent’anni da quella data).
Occorre
che gli interlocutori internazionali sappiano di avere nell’Europa un saldo
riferimento per politiche di pace e crescita comune. Una custode e una
patrocinatrice dei diritti della persona, della democrazia, dello Stato di
diritto.
Chiunque
pensi che questi valori siano sfidabili sappia che, sulla scia dei suoi
precursori, l’Europa non tradirà libertà e democrazia.
Le
stesse alleanze si giustificano solo in base a - transeunti - convergenze di
interessi e, dunque, per definizione, a geometria variabile, o riguardano anche
valori?
L’Europa,
ricordava Simone Veil al Parlamento Europeo, nel 1979, è consapevole che “le
isole di libertà sono circondate da regimi nei quali prevale la forza bruta. La
nostra Europa è una di queste isole”.
Restare
arroccati su quest’isola non è la risposta: abbiamo bisogno di un ordine
internazionale stabile e maturo per reagire all’entropia e al disordine causate
dalle politiche di potenza, e per affrontare le grandi sfide transnazionali del
nostro tempo.
Le
attuali istituzioni non bastano, tuttavia, e le riflessioni poste in essere
dalla Conferenza sul futuro dell’Europa negli anni scorsi meritano di essere
riprese e attuate, con una politica estera e di difesa comune più incisiva,
capace di trasmettere fiducia nei confronti del ruolo europeo nella risposta
alle sfide globali.
Abbiamo
dimostrato di saper agire con efficacia nelle crisi, come durante la pandemia,
e di saperci opporre con unità di intenti alle inaccettabili violazioni del
diritto dei popoli, come nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina.
Con
la stessa efficacia d’unità dobbiamo ora rinnovarci, per salvaguardare la
sicurezza e il benessere dei popoli europei e contribuire alla pace mondiale, a
partire dalla dimensione mediterranea e dal rapporto con il contiguo continente
africano.
Non
può guidarci la rassegnazione ma la volontà di dare contenuti ai passaggi
necessari per ottenere questi risultati.
Aldo
Moro, lo statista italiano assassinato dalle Brigate Rosse, nella sua qualità
di presidente di turno delle allora Comunità Europee (raccoglievano 9 Paesi),
intervenendo nella sessione conclusiva della Conferenza di Helsinki, si
proponeva di dare senso alla fase di distensione internazionale che si
annunciava, sottolineando che significava “l’esaltazione degli ideali di
libertà e giustizia, una sempre più efficace tutela dei diritti umani, un
arricchimento dei popoli in forza di una migliore conoscenza reciproca, di più
liberi contatti, di una sempre più vasta circolazione delle idee e delle
informazioni”.
L’Unione
Europea - e in essa Francia e Italia - deve porsi alla guida di un movimento
che nel rivendicare i principi fondanti del nostro ordine internazionale sappia
rinnovarlo, attenta alle istanze di quanti dall’attuale costruzione si sentano
emarginati.
Una
strada che non è quella dell’abbandono degli organismi internazionali né quella
del ripudio dei principi e delle norme che ci governano ma di una profonda e
condivisa riforma del sistema multilaterale, più inclusiva ed egualitaria
rispetto a quanto furono capaci di fare le potenze vincitrici della Seconda
Guerra Mondiale, cui va, tuttavia, riconosciuto il grande merito di mettere
insieme vincitori e vinti per un mondo nuovo.
Servono
idee nuove e non l’applicazione di vecchi modelli a nuovi interessi di pochi.
Le
università sono candidate a far emergere queste idee.
Care
studentesse e cari studenti, la storia è incisa nei comportamenti umani.
Il
futuro del pianeta passa dalla capacità di plasmare l’ordine internazionale
perché sia a servizio della persona umana.
Le
scelte di multilateralismo e solidarietà di oggi determineranno la qualità del
vostro domani.
Si
tratta di non ripetere gli errori del passato, ma di dar vita a una nuova
narrazione.
Soltanto
insieme, come comunità globale, possiamo sperare di costruire un avvenire
prospero, ispirato a equità e stabilità.
Vi
auguro, auguro a ciascuno di voi, ogni successo negli studi che state
approfondendo, con l’auspicio che vi conducano a essere attori consapevoli e
partecipi della comunità internazionale.
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