mercoledì 5 febbraio 2025

LA VOCE DEL SILENZIO

  

ASCOLTARE
 IL
 CORPO

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    -di Luciano Manicardi



 Atti del Seminario sulla corporeità  

Progettando il seminario, abbiamo sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni della corporeità - in rapporto a noi stessi, alla sensibilità contemporanea, all’azione come educatori - entro una riflessione biblica. 

Perché la Bibbia non ha paura del corpo, né lo sminuisce o frammenta, ma lo considera intero, dono del Dio della vita. Con il corpo, perciò, e non nonostante il corpo, l’uomo è degno di stare in dialogo aperto col Signore. 

Non è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola che si fa carne non avrebbe potuto essere concepita in una cultura differente. 

Luciano Manicardimonaco di Bose, ha accettato con generosità di accompagnarci in questo percorso e gli siamo profondamente grati per la profondità e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni, dedicate al soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire dalla lettura della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del corpo nei Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia. Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo intellettuale. 

I tempi del seminario sono stati scanditi da tre incontri, che hanno completato senza forzature i temi affrontati e dato luce alle esperienze che i partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e umana.

 1. Ascoltare il corpo. L’esperienza spirituale di Elia in 1Re 19, 9-13 

 La crisi è deserto, sconvolgimento, clamore assordante, timore per la sorte, il futuro, la sopravvivenza. Quando la polvere si posa, nel silenzio si fanno spazio la resistenza, il coraggio, la speranza. E la vita riparte da dentro di noi.

 La crisi di un uomo, di un profeta 

 Il profeta Elia, in un momento di grave crisi della sua vita, dopo aver sconfitto e ucciso i profeti del dio Baal, viene perseguitato dalla regina Gezabele che vuole la sua vita, lo vuole uccidere, e lui è preda della paura, fugge nel deserto e lì esprime il suo sconforto e la sua angoscia. “Desideroso di morire, disse: ‘Ora basta, Signore, Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri’. Si coricò e si addormentò” (1Re 4-5). Elia vive un momento di depressione, vive una tentazione suicidaria. Le sue parole, che lo portano a paragonarsi ai suoi padri e a scoprirsi non migliore di loro, rivelano un suo attaccamento al proprio ego, un’immaturità, un protagonismo che deve essere purificato. Ma gli viene indicato di proseguire il cammino, di inoltrarsi nel deserto. 

Nel deserto occorre non disertare, potremmo dire: le crisi vanno guardate in faccia e allora possono divenire, proprio nelle strettezze in cui ci conducono, l’occasione di una rinascita. Elia si introduce nel deserto, cammina per 40 giorni e 40 notti fino a giungere al monte di Dio, l’Horeb, il monte dove Mosè aveva conosciuto la teofania (Es 19,16-25). 

 La voce del silenzio 

 Ecco come il testo descrive l’incontro con Dio: 

 Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: ‘Che cosa fai qui, Elia?’. Egli rispose: ‘Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché i figli d’Israele hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita’. Gli disse: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, la voce di un silenzio sottile. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”. 

 La traduzione che trovate nella Bibbia di Gerusalemme italiana parla di “sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12) che è la fedele traduzione delle antiche versioni greca e latina che hanno normalizzato il testo ebraico che parla inequivocabilmente di “voce di silenzio sottile”. Gli antichi traduttori hanno sentito l’espressione “voce di silenzio” come un ossimoro, tuttavia il significato dell’espressione ebraica è assolutamente certo: qui si parla di un fenomeno interiore, non di un fenomeno atmosferico come una brezza. 

Anche nei testi di Qumran viene ripresa questa espressione per indicare la liturgia angelica definita molte volte come “voce del silenzio divino”, “voce di silenzio di benedizione”. Il testo di 1Re ci pone di fronte a un silenzio che parla. Noi pensiamo che voce e silenzio si oppongano: o c’è la voce o c’è il silenzio. Ma è proprio così? John Cage scrisse un brano musicale che si intitolava “4 minuti e 33 secondi” composto di tre movimenti: il primo di 30 secondi, un secondo di 2 minuti di 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40 secondi. Un tempo in cui egli non suonava nulla. Non risuonava una sola nota. Forse far risuonare quel silenzio ci insegnerebbe qualcosa sul silenzio, come forse scoprì anche John Cage. Il quale, mentre sperimentava questo spazio privo di suoni, aveva sentito un rumore grave e uno acuto. La registrazione era avvenuta però in una stanza senza eco. Ma aveva sentito dei rumori: uno grave e uno acuto. I rumori che provenivano dal suo apparato cardiocircolatorio e nervoso. 

Anche il silenzio ha un rumore. Esiste il silenzio assoluto? Anche cercando il silenzio assoluto, in realtà ci imbatteremmo sempre nel soffio dell’aria che esce dai polmoni, nel battito del cuore, nei gorgoglii dello stomaco. 

Se l’uomo è l’essere che ha la parola, come ci ricorda Aristotele, l’uomo comunica anche con il silenzio, l’uomo è anche l’essere che sa fare silenzio. 

Fare silenzio implica che il silenzio (non il mero tacere), sia un’azione. Fare silenzio ci porta ad abitare il nostro corpo, ad ascoltare le nostre emozioni, a fare quel lavoro interiore che è fondamentale dal punto di vista spirituale. 

Tutto ciò che è spirituale, infatti, non avviene se non nel corpo. 

 L’esperienza spirituale di Elia 

 La traduzione fedele al testo ebraico del brano di 1Re ci dice che l’esperienza di Elia è interiore. L’incontro con Dio è esperienza intima, interiore. 

Alla luce della voce del silenzio possiamo rileggere il nostro testo e reinterpretarlo. Troviamo tre cose: il vento impetuoso e gagliardo, il terremoto e il fuoco, seguiti dalla voce del silenzio. 

Gli esegeti hanno riconosciuto in questo passo uno schema di tipo letterario frequente in altri testi biblici, soprattutto profetici e sapienziali. È uno schema che presenta tre cose più una. Presenta tre realtà a cui ne segue una quarta che è la più importante di tutte, quella decisiva. Per esempio, nel libro dei Proverbi sta scritto: 

 Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: ‘Basta!’ il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua e il fuoco che mai dice: ‘Basta!’” (Pr 30,15-16). 

 Si tratta di quattro cose omogenee, tutte dello stesso ordine. E l’ultima non è antitetica, ma decisiva. Analogamente in Pr 30,18-19: 

 Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente nella roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna”. 

 Le prime tre cose oltrepassano la capacità di comprensione dell’uomo, ma la quarta le supera tutte, è la più misteriosa. La cosa più comune, l’unione sessuale tra l’uomo e la donna, è anche la più sfuggente, la più ardua da comprendere. Anche nei profeti è presente questo schema. In Amos 1-2 troviamo più volte, come parola pronunciata dal Signore, l’espressione “per tre peccati di... , anzi per quattro non revocherò il mio decreto di condanna” (cf. Am 1,3.6.9.11.13; 2,1.4.6), dove il quarto peccato è la goccia che fa traboccare il vaso, quella che porta le cose al di là del limite di sopportazione, ma sempre di peccato si tratta, come per le prime tre. 

Dunque, comprendendo il testo di 1Re alla luce di questo schema, le cose elencate devono essere tutte dello stesso ordine, ma se la quarta – come abbiamo visto – è senza ombra di dubbio un fenomeno interiore, dobbiamo ricomprendere le precedenti. 

Così superiamo l’antica traduzione greca che ha reso fenomeno atmosferico quell’ultimo elemento che non lo era. Alla luce di questo dobbiamo comprendere i tre fenomeni atmosferici precedenti come fenomeni interiori. Si tratta di cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di questo schema anche l’espressione che ripete che “il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco”, va intesa indicare non una assenza assoluta ma che il Signore non era in quei fenomeni come nell’ultimo. 

 Vento, terremoto, fuoco: volontà, emozione, eros 

 Come possiamo interpretare sul piano simbolico il vento impetuoso? Non esiste in natura un vento che spacchi le rocce e le montagne. Ma in ebraico vento, ruach, significa anche alito, respiro, spirito. Ruach è forza, potenza che può schiacciare, può anche travolgere chi la detiene. Già nella tradizione ebraica il vento è stato interpretato come forza di volontà. E se c’è un profeta che è stato forte e mosso da una volontà ferrea è proprio Elia (cf. Sir 48,1-11). Lo Spirito investe anche la dimensione volitiva della persona: il volere è la capacità di una persona di decidersi per un fine, di orientare tutto se stesso, corpo, anima, spirito, per raggiungere un determinato fine. Ma l’esperienza spirituale non è riducibile a volontà. L’esperienza spirituale non può essere volontarismo. 

Il terremoto in ebraico è espresso da un termine che significa “tremore, tremito”. Che designa una dimensione psicologica più che un fenomeno atmosferico. Ci sono dei brani biblici in cui il termine designa fenomeni interiori, una reazione emotiva. In Ez 12,18 questo termine designa “trepidazione”, “tremore”, e indica una reazione emotiva dell’uomo. Se vogliamo mantenere la traduzione “terremoto”, dobbiamo comprendere che si tratta di un terremoto interiore, di uno sconvolgimento intimo. Siamo rinviati alla sfera emotiva, che certamente accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire. L’esperienza spirituale non può essere emozionalismo. 

Infine, il fuoco. Il fuoco è simbolo del farsi presente di Dio, che è fuoco divorante. Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente, un arbusto che bruciava ma non si consumava. Ma il fuoco rinvia anche alla dimensione passionale, affettiva, erotica. Nel Cantico dei Cantici, che è un inno all’amore un ragazzo e di una ragazza, non c’è mai il nome di Dio. O meglio, lo si trova una sola volta, quando si dice che l’eros è fiamma del Signore (Ct 8,6): l’eros è dipinto come fuoco. Anche qui ci viene detto che l’incontro con Dio non è estraneo alla dimensione affettiva ed erotica dell’uomo, ma anche che l’affettività non può esaurire l’esperienza spirituale. 

Dunque, volontà, emotività, affettività, hanno a che fare con l’esperienza di Dio. Ma c’è un ulteriore elemento: la voce del silenzio, che è il luogo culminante dell’esperienza di Dio, dell’incontro con lui. Ecco le tre dimensioni che sono inerenti all’esperienza spirituale, perché nulla di spirituale avviene se non nella corporeità, ma ecco anche il luogo intimo, la dimensione più profonda che supera e va ancora più in profondità dell’esperienza spirituale raggiungendo l’indicibile, l’ineffabile, il mistero. Il quarto elemento è quello in cui l’esperienza spirituale esce dall’ambiguità. Anche se non si dice che il Signore era nella voce del silenzio. Il testo narra che, come ascoltò la voce del silenzio, Elia si coprì il volto con il mantello, cosciente di essere alla presenza di Dio. Nessuno può vedere Dio, altrimenti muore (Es 33,20). Ma l’uomo può ascoltarlo: Elia si fermò all’ingresso della caverna ed ecco la voce del Signore che gli parla. Elia percepisce la presenza del Signore nella voce del silenzio, qualcosa che è più profondo delle dimensioni emotive, affettive, volitive, qualcosa che rende apofatica l’esperienza spirituale. È una voce silenziosa. Nessun eccesso di zelo, nessun sussulto emotivo, non una passione incontrollata, ma tutto che si pacifica, si sintetizza ed essenzializza in qualcosa di più profondo. 

 L’azione dello Spirito 

 Si può annotare, en passant, che i quattro simboli del vento, del sisma, del fuoco e della voce si ritrovano quasi identici in un testo capitale del Nuovo Testamento per indicare lo Spirito santo. In At 2,2-6, il testo che parla della Pentecoste, le immagini del rombo (At 2,2), del vento impetuoso (At 2,2), del fuoco (At 2,3) e della voce (At 2,6) concorrono a evocare lo Spirito di Dio e la sua discesa. Uno spirito che trova il suo inveramento nella voce che annuncia l’evangelo in tutte le lingue del mondo. 

Capiamo allora l’importanza della rilettura del testo di 1Re 19. Esso ci consente di cogliere un’esperienza spirituale che abbraccia la totalità dell’essere umano, tutta la sua corporeità. E che ci fornisce anche dei suggerimenti di tipo pedagogico: la presenza di Dio, dunque la vita di fede, concerne tutto l’essere personale e dunque corpo, anima, spirito. La dimensione volitiva è riguardata, ma mai e poi mai l’esperienza di fede può esaurirsi nel volere e men che meno nel dovere. L’esperienza spirituale abbraccia anche il mondo delle emozioni, ma non può ridursi alla dimensione emotiva. Riguarda anche la dimensione affettiva ed erotica, ma non può coincidere con l’esperienza affettiva, con il trovarsi bene nel calore del gruppo amicale. Più in profondo c’è la potenza del silenzio. Che è linguaggio da abitare, da decodificare e in cui scoprire la presenza, misteriosa, discreta, ma reale, di Dio stesso.

 Servire 


 

 

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