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Progettando il seminario, abbiamo sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni della corporeità - in rapporto a noi stessi, alla sensibilità contemporanea, all’azione come educatori - entro una riflessione biblica.
Perché
la Bibbia non ha paura del corpo, né lo sminuisce o frammenta, ma lo considera
intero, dono del Dio della vita. Con il corpo, perciò, e non nonostante il
corpo, l’uomo è degno di stare in dialogo aperto col Signore.
Non
è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola
che si fa carne non avrebbe potuto essere concepita in una cultura
differente.
Luciano Manicardi, monaco di Bose, ha accettato con generosità di
accompagnarci in questo percorso e gli siamo profondamente grati per la
profondità e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni,
dedicate al soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire
dalla lettura della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del
corpo nei Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno
aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia.
Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo
intellettuale.
I
tempi del seminario sono stati scanditi da tre incontri, che hanno completato
senza forzature i temi affrontati e dato luce alle esperienze che i
partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e
umana.
Nel
deserto occorre non disertare, potremmo dire: le crisi vanno guardate in faccia
e allora possono divenire, proprio nelle strettezze in cui ci conducono,
l’occasione di una rinascita. Elia si introduce nel deserto, cammina per 40
giorni e 40 notti fino a giungere al monte di Dio, l’Horeb, il monte dove Mosè
aveva conosciuto la teofania (Es 19,16-25).
Anche
nei testi di Qumran viene ripresa questa espressione per indicare la liturgia
angelica definita molte volte come “voce del silenzio divino”, “voce di
silenzio di benedizione”. Il testo di 1Re ci pone di fronte a un silenzio che
parla. Noi pensiamo che voce e silenzio si oppongano: o c’è la voce o c’è il
silenzio. Ma è proprio così? John Cage scrisse un brano musicale che si
intitolava “4 minuti e 33 secondi” composto di tre movimenti: il primo di 30
secondi, un secondo di 2 minuti di 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40
secondi. Un tempo in cui egli non suonava nulla. Non risuonava una sola nota.
Forse far risuonare quel silenzio ci insegnerebbe qualcosa sul silenzio, come
forse scoprì anche John Cage. Il quale, mentre sperimentava questo spazio privo
di suoni, aveva sentito un rumore grave e uno acuto. La registrazione era
avvenuta però in una stanza senza eco. Ma aveva sentito dei rumori: uno grave e
uno acuto. I rumori che provenivano dal suo apparato cardiocircolatorio e
nervoso.
Anche
il silenzio ha un rumore. Esiste il silenzio assoluto? Anche cercando il
silenzio assoluto, in realtà ci imbatteremmo sempre nel soffio dell’aria che
esce dai polmoni, nel battito del cuore, nei gorgoglii dello stomaco.
Se
l’uomo è l’essere che ha la parola, come ci ricorda Aristotele, l’uomo comunica
anche con il silenzio, l’uomo è anche l’essere che sa fare silenzio.
Fare
silenzio implica che il silenzio (non il mero tacere), sia un’azione. Fare
silenzio ci porta ad abitare il nostro corpo, ad ascoltare le nostre emozioni,
a fare quel lavoro interiore che è fondamentale dal punto di vista
spirituale.
Tutto
ciò che è spirituale, infatti, non avviene se non nel corpo.
Alla
luce della voce del silenzio possiamo rileggere il nostro testo e
reinterpretarlo. Troviamo tre cose: il vento impetuoso e gagliardo, il
terremoto e il fuoco, seguiti dalla voce del silenzio.
Gli
esegeti hanno riconosciuto in questo passo uno schema di tipo letterario
frequente in altri testi biblici, soprattutto profetici e sapienziali.
È uno schema che presenta tre cose più una. Presenta tre realtà a cui ne
segue una quarta che è la più importante di tutte, quella decisiva. Per
esempio, nel libro dei Proverbi sta scritto:
Dunque,
comprendendo il testo di 1Re alla luce di questo schema, le cose elencate
devono essere tutte dello stesso ordine, ma se la quarta – come abbiamo visto –
è senza ombra di dubbio un fenomeno interiore, dobbiamo ricomprendere le
precedenti.
Così
superiamo l’antica traduzione greca che ha reso fenomeno atmosferico
quell’ultimo elemento che non lo era. Alla luce di questo dobbiamo comprendere
i tre fenomeni atmosferici precedenti come fenomeni interiori. Si tratta di
cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di
questo schema anche l’espressione che ripete che “il Signore non era nel vento,
non era nel terremoto, non era nel fuoco”, va intesa indicare non una assenza
assoluta ma che il Signore non era in quei fenomeni come nell’ultimo.
Il
terremoto in ebraico è espresso da un termine che significa “tremore, tremito”.
Che designa una dimensione psicologica più che un fenomeno atmosferico. Ci sono
dei brani biblici in cui il termine designa fenomeni interiori, una reazione
emotiva. In Ez 12,18 questo termine designa “trepidazione”, “tremore”, e indica
una reazione emotiva dell’uomo. Se vogliamo mantenere la traduzione
“terremoto”, dobbiamo comprendere che si tratta di un terremoto interiore, di
uno sconvolgimento intimo. Siamo rinviati alla sfera emotiva, che certamente
accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire. L’esperienza
spirituale non può essere emozionalismo.
Infine,
il fuoco. Il fuoco è simbolo del farsi presente di Dio, che è fuoco
divorante. Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente, un arbusto che bruciava ma
non si consumava. Ma il fuoco rinvia anche alla dimensione passionale,
affettiva, erotica. Nel Cantico dei Cantici, che è un inno all’amore un ragazzo
e di una ragazza, non c’è mai il nome di Dio. O meglio, lo si trova una sola
volta, quando si dice che l’eros è fiamma del Signore (Ct 8,6): l’eros è
dipinto come fuoco. Anche qui ci viene detto che l’incontro con Dio non è
estraneo alla dimensione affettiva ed erotica dell’uomo, ma anche che
l’affettività non può esaurire l’esperienza spirituale.
Dunque,
volontà, emotività, affettività, hanno a che fare con l’esperienza di Dio. Ma
c’è un ulteriore elemento: la voce del silenzio, che è il luogo culminante
dell’esperienza di Dio, dell’incontro con lui. Ecco le tre dimensioni che sono
inerenti all’esperienza spirituale, perché nulla di spirituale avviene se non
nella corporeità, ma ecco anche il luogo intimo, la dimensione più profonda che
supera e va ancora più in profondità dell’esperienza spirituale raggiungendo
l’indicibile, l’ineffabile, il mistero. Il quarto elemento è quello in cui
l’esperienza spirituale esce dall’ambiguità. Anche se non si dice che il
Signore era nella voce del silenzio. Il testo narra che, come ascoltò la voce
del silenzio, Elia si coprì il volto con il mantello, cosciente di essere
alla presenza di Dio. Nessuno può vedere Dio, altrimenti muore (Es 33,20). Ma
l’uomo può ascoltarlo: Elia si fermò all’ingresso della caverna ed ecco la voce
del Signore che gli parla. Elia percepisce la presenza del Signore nella voce
del silenzio, qualcosa che è più profondo delle dimensioni emotive, affettive,
volitive, qualcosa che rende apofatica l’esperienza spirituale. È una voce
silenziosa. Nessun eccesso di zelo, nessun sussulto emotivo, non una passione
incontrollata, ma tutto che si pacifica, si sintetizza ed essenzializza in
qualcosa di più profondo.
Capiamo
allora l’importanza della rilettura del testo di 1Re 19. Esso ci consente di
cogliere un’esperienza spirituale che abbraccia la totalità dell’essere
umano, tutta la sua corporeità. E che ci fornisce anche dei suggerimenti di
tipo pedagogico: la presenza di Dio, dunque la vita di fede, concerne tutto
l’essere personale e dunque corpo, anima, spirito. La dimensione volitiva è
riguardata, ma mai e poi mai l’esperienza di fede può esaurirsi nel volere e
men che meno nel dovere. L’esperienza spirituale abbraccia anche il mondo delle
emozioni, ma non può ridursi alla dimensione emotiva. Riguarda anche la
dimensione affettiva ed erotica, ma non può coincidere con l’esperienza
affettiva, con il trovarsi bene nel calore del gruppo amicale. Più in profondo
c’è la potenza del silenzio. Che è linguaggio da abitare, da decodificare e in
cui scoprire la presenza, misteriosa, discreta, ma reale, di Dio stesso.
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