e
la fine delle differenze
-di
Giuseppe Savagnone*
Una
seduta parlamentare tempestosa
Il
caso Almasri continua a spaccare il mondo politico e l’opinione
pubblica del nostro paese. Per capirci qualcosa, come sempre, la cosa migliore
è cominciare dai fatti. Ridotti all’essenziale, essi si possono riassumere
così: la Corte Penale Internazionale aveva chiesto al governo italiano
l’arresto del generale libico Almasri per crimini contro l’umanità, il
ricercato in effetti è stato arrestato ma poi – e qui le
interpretazioni divergono radicalmente – è stato rilasciato e rimpatriato
in Libia con un volo di Stato.
Il
governo ha dato la sua versione nell’informativa resa, il 5 febbraio
scorso, dai ministri Nordio e Piantedosi in Parlamento, in sostituzione
della premier che, malgrado le insistenti richieste dell’opposizione, ha
preferito non presenziare.
Già
questa assenza è stato oggetto di aspre polemiche. Eddy Schlein ha accusato la
Meloni di vigliaccheria e l’ha definita “presidente del coniglio”,
invece che del Consiglio. Ma anche le relazioni del ministro della Giustizia e
di quello degli Interni, più che criticate, sono state ridicolizzate.
Da
parte loro, il governo e la stampa che lo sostiene hanno minimizzato la vicenda
e hanno parlano di «sceneggiata» e di «show» propagandistico della sinistra,
finalizzati a nascondere episodi di corruzione legati al fenomeno migratorio,
come quello del tesoriere di PD in Campania, a loro avviso ben più
gravi.
Forse
in poche occasioni come in questa la mancanza di dialogo tra la maggioranza e
la minoranza è stata così radicale, rendendo l’immagine di due Italie non
comunicanti, come neppure al tempo del duello tra DC e PC. Don Camillo e
Peppone in fondo si rispettavano e parlavano tra loro.
La
virulenza dei toni è stata bene espressa dalla vignetta di Giannelli sul
«Corriere della sera». I due ministri sono rappresentati mentre, in piedi,
dietro il banco del governo, cercano di ripararsi dalla pioggia di mele e uova
marce proveniente dall’aula.
Al
centro, fra di loro, la sedia vuota della premier, che però in realtà è
rannicchiata, nascosta dietro di essa, mentre risponde al telefono spiegando, a
chi le chiede una dichiarazione, «Mi dispiace, ora non posso».
Le
ragioni del governo e i loro punti deboli
Ma
veniamo al merito. Il ministro Nordio ha spiegato la sua scelta di non
confermare l’arresto del generale libico con le gravi imprecisioni contenute
nel mandato emesso dalla Corte penale internazionale.
«Non
sono un passacarte», ha detto, rivendicando il suo diritto di chiedere
chiarimenti alla Corte prima di dare esecuzione al documento. Le precisazioni
sono arrivate, ma nel frattempo il ricercato era stato rimpatriato. Da parte
sua, Piantedosi ha spiegato questo rimpatrio del generale libico con la sua
evidente pericolosità, che rendeva urgente mandarlo fuori dal nostro paese il
più presto possibile.
«Né
Nordio né Piantedosi» – ha commentato un giornale certamente più vicino alla
destra che all’opposizione, come «Il Foglio», «hanno ricordato che, una volta
scarcerato Almastri per ragioni procedurali (…), vi era un’alternativa al
rimpatrio, che era un nuovo arresto in attesa dei chiarimenti della Corte».
Non
solo. Le due relazioni – come segnala un giornale, non sospetto di faziosità
pregiudiziale, «La Stampa» – si sono smentite a vicenda: «Nordio contraddice
Pantedosi», è il titolo di prima pagina del quotidiano torinese.
Perché,
se il problema era l’invalidità del mandato di arresto internazionale, che
senso ha tirare in ballo la pericolosità o meno dell’indiziato? E,
reciprocamente, quali che fossero le lacune formali di quel documento,
evidentemente era chiaro al governo che Almasri era pericoloso e che la
richiesta della Corte dell’Aja era tutt’altro che infondata.
Ma
anche in se stesse, le versioni dei due ministri hanno evidenziato dei
punti deboli che in aula sono stati oggetto di irrisione da parte
dell’opposizione. Per quanto riguarda quella di Nordio, la legge 237/2012
spiega molto chiaramente che non è il ministro della Giustizia a dover valutare
la fondatezza di un mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Non
si tratta di ridursi a “passacarte”, ma di rispettare un accordo internazionale
che l’Italia ha firmato.
Quanto
alla informativa di Piantedosi, è stato notato che la Corte d’appello di Roma
ha ordinato la scarcerazione di Almasri nella tarda mattinata del 21 gennaio,
ma il Falcon che doveva riportarlo a Tripoli era già ad attenderlo
all’aeroporto di Torino.
Peraltro,
la necessità di fare uscire il generale dai confini italiani, data la
pericolosità del soggetto, non spiga perché Almasri sia stato portato giusto in
Libia, l’unico paese dove gode di un’assoluta impunità. E l’unico dove
purtroppo è e sarà ancora veramente pericoloso, come dimostrano le notizie che
da più fonti sono arrivate e continuano ad arrivare sulla sua attività di
sadico torturatore dei reclusi dei lager libici.
Alla
base, una menzogna
Ma
forse la contraddizione più inquietante, che si impone allo spettatore
semplicemente desideroso di capire come siano andate le cose, è quella tra le
odierne dichiarazioni dei ministri e la versione sostenuta dal governo fino ad
ora, che esse hanno smentito.
«La
richiesta di arresto della Corte Penale Internazionale» – aveva dichiaro
Giorgia Meloni in uno dei video in cui si è rivolta ai suoi sostenitori, invece
che rappresentanti dei cittadini in Parlamento – «non è stata trasmessa al
Ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla legge, e per
questo la Corte d’Appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida.
A
questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, piuttosto che
lasciarlo libero noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente per
ragioni di sicurezza con un volo apposito come accade in altri casi analoghi.
Questa è la ragione per la quale la procura di Roma oggi indaga me, il
sottosegretario Mantovano e due ministri».
La
tesi sostenuta dalla Meloni e fatta propria per giorni dal governo e dai
giornali di destra è stata dunque che «Almasri è stato liberato su disposizione
della Corte d’Appello di Roma non su disposizione del Governo».
Ora,
da quanto lo stesso Nordio ha riferito in Parlamento, non è vero che la Corte
Penale Internazionale non ha informato il governo italiano, e in particolare il
ministro della Giustizia, del mandato di cattura pendente su Almasri. Il
ministro, nella sua relazione, ha perfino sottolineato come abbia costituito un
ostacolo alla sua recezione la difficoltà di tradurlo, visto che era scritto in
inglese (!!!).
E
poiché, come abbiamo visto, la legge non gli attribuiva alcun potere
discrezionale, avrebbe dovuto subito mettersi in contatto con la Procura
di Roma, che sollecitava una risposta e che invece, dopo tre giorni di
silenzio, mancando ogni riscontro dal Ministero, è stata costretta a rilasciare
Almasri.
Meloni
perseguitata?
La
bugia sul ruolo del governo è servita alla premier per legittimare, agli occhi
dell’opinione pubblica, la sua vibrante indignazione per quella che ha chiamato
«avviso di garanzia», ricevuto a causa di un “pasticcio” che, a suo dire, era
solo colpa della magistratura.
E
presentando tutta la vicenda – in una serie di video che hanno avuto un enorme
impatto sull’opinione pubblica e fatto volare i consensi verso la premier
“perseguitata” – come un attacco dei giudici per screditarla. «La
magistratura dichiara guerra alla Meloni», ha titolato un giornale online di
destra. Ma è il succo di quello che tutti i giornali governativi hanno
scritto.
In
realtà, come l’Anm ha subito precisato in una nota, quello ricevuto dalla
presidente del Consiglio non è un avviso di garanzia, che si inserisce in
un’indagine, ma solo la comunicazione che c’è stata una denuncia, su cui la
Procura, nel caso del premier e dei ministri, non può condurre alcuna indagine
e che può solo trasmettere al Tribunale dei ministri.
Sull’obbligatorietà
o meno di questo atto si è aperta una polemica infinita che ha visto pareri
opposti anche di seri giuristi. Quel che è certo, è che esso, anche se non
fosse stato dovuto, rientrava nella normale discrezionalità della Procura.
La Meloni non ha esitato a presentarlo come un complotto nei suoi
confronti, facendone il trampolino per esaltare la propria immagine come quella
di una donna intrepida, decisa a tirare dritto per il bene del paese: «Non sono
ricattabile, non mi faccio intimidire. Ed è possibile che per questo sia invisa
a chi non vuole che l’Italia cambi e diventi migliore», ma «intendo andare
avanti per la mia strada» a «testa alta e senza paura».
I
“ricattatori”, evidentemente, sono, come sempre, i magistrati, accusati di
invade la sfera politica: «Se i giudici vogliono governare, si candidino», ha
detto la premier. Una frase a cui, garbatamente, l’Anm ha risposto con una nota
la cui sostanza era che, a loro volta, se i politici vogliono amministrare la
giustizia, devono prima studiare il diritto e vincere un concorso, come prevede
la Costituzione.
In
questa arringa di accusa, i giudici sono stati additati dalla Meloni come
nemici dell’Italia: «L’avviso di garanzia da parte del Procuratore della
Repubblica, Francesco Lo Voi, per i reati di favoreggiamento e peculato per il
caso Almasri è un danno alla nazione, alle sue speranze, opportunità e
occasioni».
Contestualmente
i consiglieri “laici” (non magistrati) di destra del Consiglio superiore della
magistratura, hanno chiesto di aprire un‘inchiesta su Lo Voi, volta a “punirlo”
con un provvedimento disciplinare.
Ma
non sono solo i tutori del diritto italiani ad essere contestati: in coro la destra
adesso accusa anche la Corte Penale Internazionale. Il nostro ministro
degli Esteri, Tajani, ha proposto addirittura di aprire un’inchiesta nei suoi
confronti (senza chiarire da chi dovrebbe essere svolta, visto che la Corte è
il più altro tribunale internazionale).
Un
caso emblematico della caduta delle differenze
Difficile,
davanti a questa vicenda, non essere sgomenti. Non soltanto per la posta
in gioco, che comunque è tutt’altro che irrilevante – quante persone Almasri
potrà ancora torturare, stuprare, uccidere? – , ma anche, e forse soprattutto,
per il suo significato. Essa indica il venir meno dei confini tra verità e
menzogna, tra diritto e potere, tra Stato e governo.
Le
bugie – inconfutabilmente emerse da questo racconto – sono state accolte e
ripetute come verità, anche quando erano addirittura in contraddizione fra di
loro. I giudici, preposti alla tutela del diritto, sono stati messi sul
banco degli imputati dai potenti a cui contestavano l’illecito uso del
loro potere, come se il solo criterio del giusto e dell’ingiusto fosse
l’investitura elettorale (vox populi, vox Dei).
Ogni
rilievo nei confronti del capo dell’esecutivo – un organo dello Stato, come lo
è, peraltro, la magistratura – è stato presentato come una minaccia alla
nostra nazione e al popolo italiano.
Ritengo
ridicola la questione se la Meloni sia o no nostalgica del fascismo. I fenomeni
storici non si ripetono mai uguali. Quello che è certo è che, procedendo su
questa strada, della democrazia, in Itali, resterà solo il nome.
*Scrittore ed editorialista Pastorale Cultura Arcidiocesi Palermo
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