sabato 15 febbraio 2025

SANREMO E L'ITALIA


 Il Festival di Sanremo e l’Italia reale

 






-di Giuseppe Savagnone 


 Un grandioso spettacolo

Basta dare un’occhiata alle prime pagine dei quotidiani di questa settimana per constatare che un evento rimane presente, nell’inevitabile variare delle notizie: il Festival di Sanremo. Tutto passa, Sanremo resta.

E non solo sui giornali: ormai un tripudio di interviste, commenti, gossip televisivi precede e segue ogni tappa di questa kermesse canora. Non vengono votate solo le canzoni, ma anche l’abbigliamento di cantanti, presentatori/presentatrici e ospiti, le loro battute più o meno felici. Si discute animatamente delle presenze, ma anche delle assenze, si fanno confronti, si costruiscono contrapposizioni.

Alla base di questa efflorescenza c’è un dato innegabile, che è l’impatto del Festival sugli italiani. I più di dodici milioni di spettatori della prima serata sono indicativi di un interesse appassionato che sembra coinvolgere senza rilevanti differenze tutte le fasce d’età, tutti i generi, tutte le categorie sociali.

Questo spiega perché papa Francesco, nel suo slancio missionario, abbia voluto  esser presente anche lui con un video in cui sottolineava il ruolo della musica come strumento di pace.

La maggior parte dei testi parla, come sempre, d’amore, anche se a volte in un modo decisamente originale, come nel caso della canzone di Cristicchi dedicata a sua madre, che ha commosso tutti. Mentre mancano, quest’anno quei riferimenti alla dimensione politica che nella precedente edizione suscitarono – si pensi alla canzone di Ghali – forti polemiche.

E poi c’è la scenografia dell’Ariston, grandiosa, impressionante, che già da sola  costituisce uno spettacolo, con le sue luci e i suoi colori, fatti apposta per ipnotizzare gli spettatori.

Un mondo alternativo al grigiore e alla routine in cui si svolgono le giornate di tanti italiani, che perciò si lasciano incantare, per cinque lunghe serate – si fanno le ore piccole! – immergendosi in questa finzione lasciandosi alle spalle una realtà  spesso logorante.

Davanti a tutto ciò si può semplicemente farsi trascinare e stordire, ma si ci si può anche fermare a riflettere e fare alcune considerazioni, pur nella consapevolezza che alla maggior parte degli italiani esse non interesserebbero più di quanto interessassero a Pinocchio quelle del Grillo parlante.

Una liturgia senza trascendenza

La prima nasce da ciò che si diceva adesso sul bisogno di “fuga dalla realtà” che, cinque giorni l’anno, spinge tanti a restare incollati, alla tv per molte ore. Qualcuno potrebbe cinicamente osservare che, nella misura in cui viene meno la pratica religiosa, con i suoi riti collettivi pieni di luci e di suoni, Sanremo è l’esempio perfetto di una nuova liturgia, non più, però, veicolante un mistero trascendente, bensì fine a se stessa.

Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli. Qui – come in altre analoghe forme di eventi spettacolari di massa – l’oppio delle fantasmagorie spettacolari del Festival diventa una religione, la sola via d’uscita dalla pesantezza del mondo quotidiano.

Con la differenza, però, che il senso della trascendenza religiosa non era, come ha creduto Marx, quello di una fuga dalla vita reale, bensì di una ricerca del suo senso ultimo, per affrontarla in modo più umano, mentre il sostituirsi dello spettacolo alla religione esprime precisamente la rinunzia a questa ricerca.

La liturgia, che nella tradizione cristiana è una via verso l’Oltre, qui diventa solo uno stordimento che consente, come scriveva secoli fa Pascal, di distrarsi dal nulla e dalla morte.

In questo senso, il Festival, con i suoi ritmi stressanti, i suoi effetti visivi e acustici, non è altro che una forma particolarmente di quella frenetica corsa senza meta che caratterizza la nostra vita quotidiana.

Una società che ha smarrito le ragioni per essere unita

Una seconda considerazione riguarda più direttamente il rapporto tra il Festival e la realtà italiana. Quello che colpisce, nell’evento sanremese, è la capacità di raccogliere intorno a sé persone delle più diverse estrazioni sociali e politiche. Un miracolo che non ha riscontro a nessun livello della nostra vita pubblica.

Nel Chiaroscuro precedente, a proposito della seduta parlamentare sul caso Almasri, scrivevo: «Forse in poche occasioni come in questa la mancanza di dialogo tra la maggioranza e la minoranza è stata così radicale, rendendo l’immagine di due Italie non comunicanti, come neppure al tempo del duello tra DC e PC. Don Camillo e Peppone in fondo si rispettavano e parlavano tra loro».

Ormai dal tempo di Berlusconi la dialettica politica in Italia si è impoverita di idee e si è incattivita nei toni. I democristiani che polemizzavano aspramente con gli avversari comunisti non potevano però dimenticare che alcuni di loro erano stati per anni chiusi nelle prigioni fasciste e altri avevano rischiato la vita sulle montagne come partigiani per difendere la libertà.

Reciprocamente, le accuse della “sinistra” ai democristiani non impedivano che ci fosse la consapevolezza di esigenze ideali comuni, sostenute a caro prezzo anche dai cattolici nella loro lotta contro il fasci-nazismo, e poi espresse nella fase finale della Resistenza dal Comitato di Liberazione Nazionale.

L’esperienza della Costituente, di cui è nata la Costituzione, è stata quella di un dialogo tra diversi, capaci tuttavia di incontrarsi e dar vita a un documento ammirevole per il suo equilibrio e la sua ricchezza.

La Seconda Repubblica ha visto il tramonto di questa eredità democratica condivisa – purtroppo già oscurata in parte dal declino della Prima – e l’avvento di un populismo che, col pretesto di smantellare la “casta”, ha finito per fare il gioco di chi manipolava il consenso in funzione dei propri interessi, grazie anche alla crisi di una sinistra orfana del marxismo e incapace di trovare altre prospettive che quelle di un libertarismo pannelliano.

Oggi assistiamo agli sforzi di partiti, le cui radici sono estranee alla storia che ha dato vita alla nostra Repubblica, per screditare questa storia, con una ricostruzione unilateralmente centrata sugli aspetti oscuri che essa effettivamente contiene, ma che non può e non deve fare dimenticare che l’Italia democratica uscita dalle rovine del ventennio fascista e dalla guerra ne è il frutto. E che le violenze perpetrate dai partigiani non sono minimamente paragonabili a quelle delle forze politiche e delle ideologie a cui questi stessi partiti fino a poco tempo fa hanno continuato a guardare con stima e ammirazione.

Dall’altra parte, dalla ex “sinistra”, si è continuato a insistere sul tema univoco della difesa dei diritti individuali, centrati su una visione insulare che valorizza la  proprietà del proprio corpo e della propria vita.

Un tema tradizionalmente “di destra”, che non può certo esprimere le esigenze dei cinque milioni e mezzo di italiani che vivono al di sotto della soglia minima di povertà.

Il Festival come «surrogato» del paese?

Il risultato è un vuoto di idee e di etica che, come dicevamo, ha origine con Berlusconi – non a caso beatificato, in occasione della sua morte, come “padre” dell’Italia di oggi – , ma che si è andato sempre più accentuando. E, in mancanza di idee e di valori di riferimento, diventa impossibile il dialogo. Le parole perdono il loro significato, diventano solo armi per sovrastare l’altro – anche sfruttando le risorse mediatiche, come ha fatto recentemente la presidente del Consiglio, per diffondere una versione del caso Almasri poi rivelatasi totalmente falsa per ammissione dei suoi stessi ministri.

E, se le parole diventano solo suoni, non ci si deve stupire troppo che recentemente, nel corso di un dibattito televisivo, la deputata di Forza Italia Montaruli, invece di provare a rispondere con argomenti a quelli degli altri convenuti, si sia messa, in diretta, per oltre un minuto, ad abbaiare.

La comunicazione, diceva Aristotele, è la base della cittadinanza. Perché, diceva, ciò che differenzia il branco da una comunità è il fatto che il linguaggio degli esseri umani, a differenza di quello animale, è in grado di veicolare valori morali quali il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto.

C’è da stupirsi se nel gioco di menzogne, di parole vuote e di rinunzia, addirittura, alla parola, che caratterizza oggi la comunicazione a livello pubblico, la comunità civile si è dissolta? Se si può dire a gran voce il contrario della verità senza che nessuno se ne scandalizzi, se basta l’apparenza a garantire il consenso, se ciò che calla fine conta sono gli interessi individuali e non il bene comune, che cosa dovrebbe unire gli italiani?

E allora ben venga la falsa unità del paese che emerge dal Festival e che, pur essendo un «surrogato», come lo definisce giustamente Marcello Veneziani, di quella reale, che non c’è, serve a darcene l’illusione.

Scrive Veneziani: «Sanremo non è più lo specchio dell’Italia ma l’Italia è lo specchio di Sanremo (…). Il Paese è evaporato, resta la sua rassegna musicale che ne sostituisce l’identità raccogliendone l’eredità. L’Italia perde giorno dopo giorno la sua identità collettiva, il senso della comune appartenenza; su piazza resta solo Sanremo, anche se la sua apoteosi dura una settimana e la sua comunità è in ogni senso aleatoria».

Marx chiamava questo meccanismo di proiezione delle proprie esigenze, che fa illudere sulla loro realtà, “alienazione”. È un termine con cui designano anche i più gravi disturbi mentali. A volte, per sopportare la vita, bisogna rifugiarsi nella pazzia.

 www.tuttavia.eu

 *Editorialista e scrittore



 

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