Basta
dare un’occhiata alle prime pagine dei quotidiani di questa settimana per
constatare che un evento rimane presente, nell’inevitabile variare delle
notizie: il Festival di Sanremo. Tutto passa, Sanremo resta.
E
non solo sui giornali: ormai un tripudio di interviste, commenti, gossip
televisivi precede e segue ogni tappa di questa kermesse canora. Non vengono
votate solo le canzoni, ma anche l’abbigliamento di
cantanti, presentatori/presentatrici e ospiti, le loro battute più o meno
felici. Si discute animatamente delle presenze, ma anche delle assenze, si
fanno confronti, si costruiscono contrapposizioni.
Alla
base di questa efflorescenza c’è un dato innegabile, che è l’impatto del
Festival sugli italiani. I più di dodici milioni di spettatori della prima
serata sono indicativi di un interesse appassionato che sembra coinvolgere
senza rilevanti differenze tutte le fasce d’età, tutti i generi, tutte le
categorie sociali.
Questo
spiega perché papa Francesco, nel suo slancio missionario, abbia voluto
esser presente anche lui con un video in cui sottolineava il ruolo della musica
come strumento di pace.
La
maggior parte dei testi parla, come sempre, d’amore, anche se a volte in
un modo decisamente originale, come nel caso della canzone di Cristicchi
dedicata a sua madre, che ha commosso tutti. Mentre mancano,
quest’anno quei riferimenti alla dimensione politica che nella precedente
edizione suscitarono – si pensi alla canzone di Ghali – forti polemiche.
E
poi c’è la scenografia dell’Ariston, grandiosa, impressionante, che già da
sola costituisce uno spettacolo, con le sue luci e i suoi colori, fatti
apposta per ipnotizzare gli spettatori.
Un
mondo alternativo al grigiore e alla routine in cui si svolgono le giornate di
tanti italiani, che perciò si lasciano incantare, per cinque lunghe serate – si
fanno le ore piccole! – immergendosi in questa finzione lasciandosi alle spalle
una realtà spesso logorante.
Davanti
a tutto ciò si può semplicemente farsi trascinare e stordire, ma si ci si può
anche fermare a riflettere e fare alcune considerazioni, pur nella
consapevolezza che alla maggior parte degli italiani esse non
interesserebbero più di quanto interessassero a Pinocchio quelle del Grillo
parlante.
Una
liturgia senza trascendenza
La
prima nasce da ciò che si diceva adesso sul bisogno di “fuga dalla realtà” che,
cinque giorni l’anno, spinge tanti a restare incollati, alla tv per molte ore.
Qualcuno potrebbe cinicamente osservare che, nella misura in cui viene meno la
pratica religiosa, con i suoi riti collettivi pieni di luci e di suoni,
Sanremo è l’esempio perfetto di una nuova liturgia, non più, però,
veicolante un mistero trascendente, bensì fine a se stessa.
Marx
diceva che la religione è l’oppio dei popoli. Qui – come in altre analoghe
forme di eventi spettacolari di massa – l’oppio delle fantasmagorie
spettacolari del Festival diventa una religione, la sola via d’uscita dalla
pesantezza del mondo quotidiano.
Con
la differenza, però, che il senso della trascendenza religiosa non era, come ha
creduto Marx, quello di una fuga dalla vita reale, bensì di una ricerca del suo
senso ultimo, per affrontarla in modo più umano, mentre il sostituirsi dello
spettacolo alla religione esprime precisamente la rinunzia a questa
ricerca.
La
liturgia, che nella tradizione cristiana è una via verso l’Oltre, qui diventa
solo uno stordimento che consente, come scriveva secoli fa Pascal, di distrarsi
dal nulla e dalla morte.
In
questo senso, il Festival, con i suoi ritmi stressanti, i suoi effetti visivi e
acustici, non è altro che una forma particolarmente di quella frenetica corsa
senza meta che caratterizza la nostra vita quotidiana.
Una
società che ha smarrito le ragioni per essere unita
Una
seconda considerazione riguarda più direttamente il rapporto tra il Festival e
la realtà italiana. Quello che colpisce, nell’evento sanremese, è la capacità
di raccogliere intorno a sé persone delle più diverse estrazioni sociali e
politiche. Un miracolo che non ha riscontro a nessun livello della nostra vita
pubblica.
Nel Chiaroscuro
precedente, a proposito della seduta parlamentare sul caso Almasri,
scrivevo: «Forse in poche occasioni come in questa la mancanza di dialogo tra
la maggioranza e la minoranza è stata così radicale, rendendo l’immagine
di due Italie non comunicanti, come neppure al tempo del duello tra DC e PC.
Don Camillo e Peppone in fondo si rispettavano e parlavano tra loro».
Ormai
dal tempo di Berlusconi la dialettica politica in Italia si è impoverita di
idee e si è incattivita nei toni. I democristiani che polemizzavano aspramente
con gli avversari comunisti non potevano però dimenticare che alcuni di loro
erano stati per anni chiusi nelle prigioni fasciste e altri avevano rischiato
la vita sulle montagne come partigiani per difendere la libertà.
Reciprocamente,
le accuse della “sinistra” ai democristiani non impedivano che ci fosse la
consapevolezza di esigenze ideali comuni, sostenute a caro prezzo
anche dai cattolici nella loro lotta contro il fasci-nazismo, e poi espresse
nella fase finale della Resistenza dal Comitato di Liberazione Nazionale.
L’esperienza
della Costituente, di cui è nata la Costituzione, è stata quella di un dialogo
tra diversi, capaci tuttavia di incontrarsi e dar vita a un documento
ammirevole per il suo equilibrio e la sua ricchezza.
La
Seconda Repubblica ha visto il tramonto di questa eredità democratica condivisa
– purtroppo già oscurata in parte dal declino della Prima – e l’avvento di un
populismo che, col pretesto di smantellare la “casta”, ha finito per fare
il gioco di chi manipolava il consenso in funzione dei propri interessi, grazie
anche alla crisi di una sinistra orfana del marxismo e incapace di trovare
altre prospettive che quelle di un libertarismo pannelliano.
Oggi
assistiamo agli sforzi di partiti, le cui radici sono estranee alla storia che
ha dato vita alla nostra Repubblica, per screditare questa storia, con una
ricostruzione unilateralmente centrata sugli aspetti oscuri che essa
effettivamente contiene, ma che non può e non deve fare dimenticare che
l’Italia democratica uscita dalle rovine del ventennio fascista e dalla
guerra ne è il frutto. E che le violenze perpetrate dai partigiani non
sono minimamente paragonabili a quelle delle forze politiche e delle ideologie
a cui questi stessi partiti fino a poco tempo fa hanno continuato a
guardare con stima e ammirazione.
Dall’altra
parte, dalla ex “sinistra”, si è continuato a insistere sul tema univoco della
difesa dei diritti individuali, centrati su una visione insulare che valorizza
la proprietà del proprio corpo e della propria vita.
Un
tema tradizionalmente “di destra”, che non può certo esprimere le esigenze dei
cinque milioni e mezzo di italiani che vivono al di sotto della soglia minima
di povertà.
Il
Festival come «surrogato» del paese?
Il
risultato è un vuoto di idee e di etica che, come dicevamo, ha origine con
Berlusconi – non a caso beatificato, in occasione della sua morte, come “padre”
dell’Italia di oggi – , ma che si è andato sempre più accentuando. E, in
mancanza di idee e di valori di riferimento, diventa impossibile il dialogo. Le
parole perdono il loro significato, diventano solo armi per sovrastare l’altro
– anche sfruttando le risorse mediatiche, come ha fatto recentemente la
presidente del Consiglio, per diffondere una versione del caso Almasri poi
rivelatasi totalmente falsa per ammissione dei suoi stessi ministri.
E,
se le parole diventano solo suoni, non ci si deve stupire troppo che
recentemente, nel corso di un dibattito televisivo, la deputata di Forza Italia
Montaruli, invece di provare a rispondere con argomenti a quelli degli altri
convenuti, si sia messa, in diretta, per oltre un minuto, ad abbaiare.
La
comunicazione, diceva Aristotele, è la base della cittadinanza. Perché, diceva,
ciò che differenzia il branco da una comunità è il fatto che il linguaggio
degli esseri umani, a differenza di quello animale, è in grado di veicolare
valori morali quali il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e
l’ingiusto.
C’è
da stupirsi se nel gioco di menzogne, di parole vuote e di rinunzia,
addirittura, alla parola, che caratterizza oggi la comunicazione a livello
pubblico, la comunità civile si è dissolta? Se si può dire a gran voce il
contrario della verità senza che nessuno se ne scandalizzi, se basta
l’apparenza a garantire il consenso, se ciò che calla fine conta sono gli
interessi individuali e non il bene comune, che cosa dovrebbe unire gli
italiani?
E
allora ben venga la falsa unità del paese che emerge dal Festival e che,
pur essendo un «surrogato», come lo definisce giustamente Marcello
Veneziani, di quella reale, che non c’è, serve a darcene l’illusione.
Scrive
Veneziani: «Sanremo non è più lo specchio dell’Italia ma l’Italia è lo specchio
di Sanremo (…). Il Paese è evaporato, resta la sua rassegna musicale che ne
sostituisce l’identità raccogliendone l’eredità. L’Italia perde giorno dopo
giorno la sua identità collettiva, il senso della comune appartenenza; su
piazza resta solo Sanremo, anche se la sua apoteosi dura una settimana e la sua
comunità è in ogni senso aleatoria».
Marx
chiamava questo meccanismo di proiezione delle proprie esigenze, che fa
illudere sulla loro realtà, “alienazione”. È un termine con cui designano anche
i più gravi disturbi mentali. A volte, per sopportare la vita, bisogna
rifugiarsi nella pazzia.
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