- di Alessandro D’Avenia
Qualche giorno fa mi ha scritto un padre:
«Il nostro primogenito, 9 anni, non fa altro che leggere e scrivere. Legge
mentre fa colazione, mentre fa pipì e mentre si veste, in auto, in piedi
appoggiato al muro o infilandosi le scarpe. L'altra sera mi fa: "Facciamo
un gioco: inventiamoci a turno titoli di libri non ancora scritti!”. E scrive.
Tutto ciò che gli passa per la testa: romanzi d'avventura di una facciata;
storie di mistero; racconti-gioco in cui si sceglie come andare avanti; scrive
e disegna fumetti. Scrive dietro fotocopie sbagliate; sulla mezza pagina che ho
strappato per fare un aeroplanino al fratello. Quando proprio va male, scrive
sui post-it. Da sei mesi ci tortura perché il suo più grande desiderio è
pubblicare un libro. Chiede come si contatta una casa editrice o se il libro
debba avere un numero minimo di capitoli. Quando apprende che qualche
conoscente è bravo a disegnare, gli s'avvinghia addosso e sussurra: “Vorresti
diventare il mio illustratore, per favore?”. Non sono un genitore convinto che
i propri figli siano prodigi, ma cerco di osservare i nostri con gli occhi del
cuore». La lettera, che si chiude con la richiesta di qualche consiglio,
contiene già le risposte che io cercherò solo di far emergere, a partire dal
fatto che il tempo per riflettere e scriverla è già tutto: l'educazione si dà
solo come «ascoltazione», ascolto da cui nasce l'azione. Perché?
Vocazione
Nella
nostra cultura il termine «vocazione» sembra esser diventato eccessivo, e viene
sostituito dai meno precisi: istinto, centro, desiderio, passione,
attitudine... che perdono però il carattere di incontro e relazione con il
mondo, perché vocazione (da voce) implica una chiamata: il mondo ci interpella,
la vita ci chiede qualcosa che solo noi possiamo essere e fare. Per questo
nelle culture tradizionali si trova quasi sempre un «custode» (angelo, spirito,
genio, animale...), mentre noi «moderni» siamo convinti di dover fare da soli.
Come spiega lo psicanalista James Hillman: «I bambini costituiscono la miglior
dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza. Non mi riferisco a
interventi miracolosi, piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il
marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la
bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare» (Il codice dell'anima).
Prodigio
Per
questo amo la parola «prodigio», usata nella lettera con pudore, perché non
significa «straordinario», così come «fenomeno» non significa «eccezionale» ma
semplicemente «ciò che appare». In origine prodigio era un «segno», un evento
più o meno raro (dal volo di un uccello a un'eclissi), che un esperto
(indovino, profeta, sacerdote...) interpretava come suggerimento divino
all'azione.
Lo
esprime il padre nella metafora «occhi del cuore», una vista capace di scorgere
in un segno la «profezia», il futuro. Infatti, come dice la lettera, emerge il
«desiderio» (termine usato spesso in psicanalisi come sinonimo di vocazione),
una spinta che - dice la lettera - «tortura» gli adulti perché accolgano un
«venire al mondo». Le «inclinazioni» spiccate sembrano «storture» («inclinato»
significa «storto» e per questo amiamo la torre di Pisa), infatti spiega
Hillman: «I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con
la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono
nati... E la voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle
voci repressive dell'ambiente. La vocazione si esprime in capricci e
ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino
contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli
porta con sé».
Insomma,
ogni bambino è un prodigio, un segno profetico, un fenomeno, un apparire nuovo,
purché lo si guardi così. Alle elementari ho passato molto tempo fuori
dall'aula perché parlavo troppo: «chiacchierone» è una parola che, di maestra
in maestra, mi si è appiccicata addosso. Ma era solo la mia vocazione a
narrare, raccontare, farmi sentire... cosa che, in una scuola in cui devi star
zitto, ascoltare e poi ripetere, non sempre era gradita. Per fortuna quella
«inclinazione» ha resistito grazie a chi invece ha saputo «vederla» e
«interpretarla». Questo non significa far diventare l'inclinazione una
professione da subito (logica adulta che purtroppo spesso trasforma il fenomeno
in fenomeno da baraccone), ma farne il centro del gioco del bambino, che
infatti ne propone uno meraviglioso: inventare i titoli dei libri non ancora
scritti. Questo gioco porta a esplorare il mondo, e infatti con il bambino
della lettera farei una specie di caccia al tesoro che dalla carta risale sino
all'autore, passando per albero, inchiostro, libreria, stamperia, casa
editrice...
Osservare
Osservare
le reazioni del bambino all'incontro con questi «mondi» offrirà ulteriori segni
(prodigi) da interpretare. Ho un amico che a Natale ha regalato al figlio «Il
libro dei mostri», una bellissima edizione cartonata, sulla cui copertina
compare il nome del figlio come autore. Non è infatti un libro in vendita, ma
la raccolta di tutti i mostri che il bambino ha disegnato nel tempo, insieme ai
genitori e alla babysitter (il mio preferito è il Mostro Rutto).
Per
questo comincerei a raccogliere le «opere» del bambino per edizioni
«casalinghe», sempre come un gioco, con distribuzione e lettura tra parenti, ma
soprattutto tra amici del bambino, perché senta che il suo è un dono per il
mondo. Insomma, si tratta di «stare al gioco», perché è in quella dimensione
che un bambino allena la vocazione e si apre al mondo; se invece quel segno
viene subito ingabbiato in una carriera si rischia di perderne la gioia (quanti
attori precocissimi si sono poi trovati prigionieri...).
Farei
parlare il bambino con chi del leggere e dello scrivere ha fatto un mestiere,
perché possa porre le sue domande liberamente. Ricordo ancora la chiacchierata
con una bambina delle elementari considerata «particolare» perché «fissata» con
i miti.
La
mamma voleva che parlassi con lei: mi sono trovato di fronte una bambina che,
per affrontare il mondo e i suoi lati oscuri, usava i miti e voleva che
qualcuno glieli spiegasse senza sconti. I bambini sono prodigi, e gli educatori
interpreti di segni: invece di riempire le loro giornate di attività e impegni
che soffocano la loro unicità sulla base del nostro modo di vivere performante,
bisognerebbe capire qual è il «grande gioco» a cui stare e da fare, come fecero
i Dalla: «Su una sola cosa tutte le testimonianze concordano perfettamente.
Lucio era un fenomeno già da piccolo.
A
tre anni mamma e papà lo portano a passeggio e, passando davanti a un
caffè-concerto, lui scappa e sale sul palco per cantare una filastrocca, tra
gli applausi del pubblico divertito da questo impudente bimbetto. A quattro
anni era già un piccolo comico, faceva ridere perché strimpellava polche e
mazurche con una fisarmonica più grande di lui, era un esibizionista nato e i
genitori erano permissivi, non cercavano di scoraggiarlo, sapevano di avere un
figlio che aveva poco in comune con gli altri bimbi della sua età... gli
consentirono qualcosa che per i bimbi suoi coetanei sarebbe stato impensabile:
stare in una vera e propria compagnia di operette» (E.Assante - G.Castaldo,
Lucio Dalla).
Non
vale solo per il cantautore, tutti i bambini hanno poco in comune con gli altri
perché sono unici e, come Lucio anni dopo, potrebbero dire: «Facevo tutto
questo senza rendermene conto, come tutti i bambini», perché il bambino quando
gioca lavora. Non tutti però riescono a manifestare i segni in modo così
spiccato, e richiedono quindi più attenzione e ascolto.
Sarei
felice di parlare con questo bambino che inventa titoli di libri e scrive sui
post-it, perché abbiamo delle «stranezze» in comune. Vorrei dirgli che, se
continuerà a esser «storto», molti non lo capiranno, ma avrà una vita
bellissima.
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