è riuscire
a insegnare la speranza"
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di Mariapia Veladiano
I giovani studiano per qualcosa che hanno scelto sulla base del
desiderio, ma devono avere lo spazio dell’autonomia, la solitudine buona, che
elabora la distanza e ricostruisce il proprio
Qual è, oggi, la
speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro?
Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la
società, a che speranza collettiva attinge?
Non
si nasce disperati. E diventarlo non è un destino già scritto. La letteratura
scientifica ci racconta di bambini e bambine che crescono in contesti di
disagio anche estremo e che, quando è permessa una socialità fra pari anche
minima, ad esempio lo stare insieme, il giocare, il dormire insieme, continuano
a fare progetti, a vivere una vita che ancora porta le promesse immaginate.
Anche i bambini gravemente malati non sono disperati. Manuela Trinci,
psicoterapeuta che da una vita lavora all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze,
in un libro bellissimo ( Il mio letto è una nave, edizioni La nave di
Teseo/Fondazione Meyer 2024) racconta i modi, tutto sommato molto semplici, che
permettono di non far spegnere la speranza e con lei la gioia e la vita nei bambini
impegnati in malattie lunghissime e cure complesse. Nessuno vuole essere
disperato ma non si può comandare la speranza come non si può comandare
l’amore. Però, senza amore che vita è? E senza speranza che vita è? E allora,
come si fa?
Abbiamo
figli e figlie, abbiamo faticato esattamente come i genitori che abbiamo
davanti ai colloqui, e non vedono. Ma da professionisti competenti abbiamo il
compito di proteggere il diritto a sperare che i ragazzi rivendicano per sé. Il
diritto di diventare quello che davvero sono.
Ci
vanno in un’età in cui è più facile cambiare, in cui sono nuovi e pieni di
energie. Escono dalla famiglia e cercano una nuova appartenenza. Non c’è vita
senza appartenenza ma le appartenenze possono essere chiuse, ferocemente
identitarie, esclusive ed escludenti. Dolorosamente narcisistiche. Non a
scuola, però. Dove arrivano tutti, appunto. E la scuola è luogo di educazione e
anche se di sicuro la speranza non è materia di studio, è in qualche modo il
respiro di ogni progetto educativo. Non si va a scuola per restarci ma per
realizzare un progetto immaginato, futuro, ci si vede da grandi più capaci, più
colti. Più felici, si deve poter dire più felici, perché i ragazzi e le ragazze
studiano per qualcosa che hanno scelto sulla base del desiderio e della passione.
In questo movimento c’è lo stesso movimento della speranza virtù teologale, che
a partire da quel che siamo e dal mondo in cui abitiamo, ci muove ad alzare lo
sguardo e a non desistere mai dalla fiducia di poter costruire un mondo
migliore. È chiaro che non bastano i buoni risultati scolastici a coltivare la
speranza, serve qualcosa che il Vangelo conosce bene. L’annuncio che tu vali,
niente mai va perduto, ogni capello del capo è contato e non perduto. Sentire
riconosciuto che quel desiderio di essere unico per il solo fatto di esistere,
è bello, giusto e vero per il mondo degli adulti che lavorano nella
scuola.
Non
tutte le religioni sono religioni dell’attesa. Ebrei e cristiani sono fratelli
nell’attesa. Sanno esattamente che cosa vuol dire aspettare il compimento. E
gli uni e gli altri lo aspettano, in modo diverso. Ma anche tutta la vita sta,
laicamente, dentro un’attesa, sempre. Quando ce ne dimentichiamo dissipiamo il
presente, devastiamo le risorse, annientiamo le relazioni dentro il dualismo mi
piace ora, non mi piace ora, prendo tutto, il resto non conta niente.
Gli adulti devono esserci. Ma i ragazzi
e le ragazze devono avere lo spazio dell’autonomia, la solitudine buona. Quella
che elabora la distanza, vive l’assenza, ma ricostruisce il proprio valore
malgrado l’assenza (non aspettiamo il valore dall’altro che ce lo attribuisce,
non aspettiamo il like e il riconoscimento immediato) e attiva la speranza.
Perché ho interiorizzato che non sono solo, sola.
Ci
vogliono tante buone energie per questa educazione alla speranza. Papa Francesco in un documento bellissimo ma in
qualche modo ingoiato dall’emergenza del Covid scrive che ci vuole un «villaggio
dell’educazione» (Messaggio per il lancio del Patto educativo, 12 settembre
2019). Ci vogliono adulti competenti. Che non è una parolaccia tecnica, vuol
dire adulti che non si appiattiscono sulla deriva del tempo presente. In questo
modo anche i ragazzi e le ragazze che arrivano disperati perché la vita li ha
già pestati, possono sperimentare il respiro della speranza.
C’è una sacralità della scuola. Sacralità vuol
dire qui “buona separatezza”, un luogo in cui non si insegue la parabola triste
di un mondo che vorrebbe i ragazzi già disillusi, realisti, ben progettati a
riprodurlo, questo mondo. Li sa meravigliosamente pieni di valore.
Mariapia Veladiano
Mariapia
Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di
trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside. Collabora con la
Repubblica e con la rivista Il Regno.
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