martedì 11 febbraio 2025

INSEGNARE A SPERARE

 


 "La più bella sfida per la scuola 

è riuscire 

a insegnare la speranza"

 

-         di Mariapia Veladiano 

 

I giovani studiano per qualcosa che hanno scelto sulla base del desiderio, ma devono avere lo spazio dell’autonomia, la solitudine buona, che elabora la distanza e ricostruisce il proprio

Qual è, oggi, la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?

 

Non si nasce disperati. E diventarlo non è un destino già scritto. La letteratura scientifica ci racconta di bambini e bambine che crescono in contesti di disagio anche estremo e che, quando è permessa una socialità fra pari anche minima, ad esempio lo stare insieme, il giocare, il dormire insieme, continuano a fare progetti, a vivere una vita che ancora porta le promesse immaginate. Anche i bambini gravemente malati non sono disperati. Manuela Trinci, psicoterapeuta che da una vita lavora all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, in un libro bellissimo ( Il mio letto è una nave, edizioni La nave di Teseo/Fondazione Meyer 2024) racconta i modi, tutto sommato molto semplici, che permettono di non far spegnere la speranza e con lei la gioia e la vita nei bambini impegnati in malattie lunghissime e cure complesse. Nessuno vuole essere disperato ma non si può comandare la speranza come non si può comandare l’amore. Però, senza amore che vita è? E senza speranza che vita è? E allora, come si fa? 

 Prendiamo la scuola. In effetti fra i banchi di scuola arrivano a volte anche bambini e bambine, ragazzi e ragazze (già) disperati. Cos’è capitato in mezzo, fra la nascita e la scuola non lo sappiamo, spesso non abbiamo proprio idea. Però in un punto la loro storia incrocia le nostre vite di insegnanti, collaboratori, operatori e presidi. Adulti, in una parola. Quando si dice che a scuola arriva il mondo così com’è si intende proprio questo, che arriva anche la sua mancanza di speranza. Speranza che a scuola ha almeno due facce. Quella dei genitori e quella dei figli. Una buona parte dei genitori è insieme ambiziosa e disincantata. Vogliono il meglio assoluto per i figli, e protestano, non accettano la minima mancanza dall’insegnante o dalla scuola, chiedono la lingua straniera in più, l’Erasmus perfetto, i corsi di ArchiCad e SketchUp, le certificazioni linguistiche e informatiche. 

 Se salta l’indirizzo scelto fanno petizioni, minacce, barricate, scrivono all’ufficio scolastico e ai giornali. Vogliono il meglio come forma di protezione, perché hanno paura del futuro e il meglio è quello che immaginano come più sicuro in termini di lavoro e denaro. Sono convinti che dare tutte le opportunità protegga dalle incertezze del futuro. Poi però c’è anche la speranza dei ragazzi che, pur vivendo dentro la paura dei genitori continuano a sentire la forza della propria originalità. Chi insegna è consapevole ogni giorno di trovarsi in mezzo fra le aspettative della famiglia e la speranza, il desiderio fondato dei figli. Per esperienza noi donne e uomini di scuola sappiamo quanto sia difficile vedere noi stessi. 

Abbiamo figli e figlie, abbiamo faticato esattamente come i genitori che abbiamo davanti ai colloqui, e non vedono. Ma da professionisti competenti abbiamo il compito di proteggere il diritto a sperare che i ragazzi rivendicano per sé. Il diritto di diventare quello che davvero sono. 

 La domanda è: si può imparare a sperare? Il filosofo Ernst Bloch nel suo monumento al diritto di sperare ( Il principio speranza, Garzanti 1994) diceva di sì e anzi, è proprio un compito. Perciò è il caso di interrogarci su come gli studenti possono a scuola trovare un contesto in cui la speranza c’è. Perché a scuola ci vanno tutti, per tante ore al giorno e per tanti anni. 

Ci vanno in un’età in cui è più facile cambiare, in cui sono nuovi e pieni di energie. Escono dalla famiglia e cercano una nuova appartenenza. Non c’è vita senza appartenenza ma le appartenenze possono essere chiuse, ferocemente identitarie, esclusive ed escludenti. Dolorosamente narcisistiche. Non a scuola, però. Dove arrivano tutti, appunto. E la scuola è luogo di educazione e anche se di sicuro la speranza non è materia di studio, è in qualche modo il respiro di ogni progetto educativo. Non si va a scuola per restarci ma per realizzare un progetto immaginato, futuro, ci si vede da grandi più capaci, più colti. Più felici, si deve poter dire più felici, perché i ragazzi e le ragazze studiano per qualcosa che hanno scelto sulla base del desiderio e della passione. In questo movimento c’è lo stesso movimento della speranza virtù teologale, che a partire da quel che siamo e dal mondo in cui abitiamo, ci muove ad alzare lo sguardo e a non desistere mai dalla fiducia di poter costruire un mondo migliore. È chiaro che non bastano i buoni risultati scolastici a coltivare la speranza, serve qualcosa che il Vangelo conosce bene. L’annuncio che tu vali, niente mai va perduto, ogni capello del capo è contato e non perduto. Sentire riconosciuto che quel desiderio di essere unico per il solo fatto di esistere, è bello, giusto e vero per il mondo degli adulti che lavorano nella scuola. 

 «Ogni persona è una persona che vale, quali che siano i risultati scolastici» è l’incipit del progetto educativo di alcune scuole. Si può. A scuola i ragazzi possono sperimentare che esattamente quello che non vedono realizzato fuori, può essere vissuto proprio da loro. Ad esempio la convivenza e l’amicizia con i figli di quelle persone che il mondo stigmatizza per la provenienza, o l’aspetto, o la condizione sociale, o la disabilità. La possibilità di dialogare ordinatamente e motivare le proprie opinioni senza offendere, aggredire o emarginare. L’assunzione di responsabilità attraverso la possibilità di fare proposte, essere ascoltati, agire praticamente. Sperimentare un mondo in cui ancora l’offesa e il turpiloquio non sono legittimati. Vivere l’accettazione della fragilità, che non diventa vergogna e stigma come troppo spesso nel mondo fuori. E poter aiutare ed essere generosi senza essere derisi. Sentire profondamente che la diversità è fraternità. E poi c’è quella cosa meravigliosa e oggi così difficile da custodire, il cuore luminoso della Fede, che è la distanza fra il desiderio e la sua realizzazione: il tempo dell’attesa. 

Non tutte le religioni sono religioni dell’attesa. Ebrei e cristiani sono fratelli nell’attesa. Sanno esattamente che cosa vuol dire aspettare il compimento. E gli uni e gli altri lo aspettano, in modo diverso. Ma anche tutta la vita sta, laicamente, dentro un’attesa, sempre. Quando ce ne dimentichiamo dissipiamo il presente, devastiamo le risorse, annientiamo le relazioni dentro il dualismo mi piace ora, non mi piace ora, prendo tutto, il resto non conta niente. 

 Manuela Trinci racconta che per un po’ di tempo il bambino solo riesce a sopravvivere senza fare riferimento alla madre esterna, reale. Gioca, si dimentica, è felice, e poi dopo un po’ cerca con gli occhi la madre, si rassicura e poi torna a giocare. «Si crea uno spazio nuovo... che darà l’avvio al processo psichico di interiorizzazione dell’affidabilità della presenza materna». In analogia a quanto accade al bambino che deve fare l’esperienza della mancanza della presenza del genitore per poter tenere viva in modo autonomo la connessione fra di loro e non “cadere” ad ogni pur minima assenza, ad ogni difficoltà, così è per i ragazzi a scuola (e in famiglia. Questo lo diranno altri più esperti sul tema).

 Gli adulti devono esserci. Ma i ragazzi e le ragazze devono avere lo spazio dell’autonomia, la solitudine buona. Quella che elabora la distanza, vive l’assenza, ma ricostruisce il proprio valore malgrado l’assenza (non aspettiamo il valore dall’altro che ce lo attribuisce, non aspettiamo il like e il riconoscimento immediato) e attiva la speranza. Perché ho interiorizzato che non sono solo, sola.

Ci vogliono tante buone energie per questa educazione alla speranza. Papa Francesco in un documento bellissimo ma in qualche modo ingoiato dall’emergenza del Covid scrive che ci vuole un «villaggio dell’educazione» (Messaggio per il lancio del Patto educativo, 12 settembre 2019). Ci vogliono adulti competenti. Che non è una parolaccia tecnica, vuol dire adulti che non si appiattiscono sulla deriva del tempo presente. In questo modo anche i ragazzi e le ragazze che arrivano disperati perché la vita li ha già pestati, possono sperimentare il respiro della speranza. 

 Uno può dire, sono miracoli questi. Forse, ma sono miracoli che a scuola accadono senza tanto chiasso. Esiste una teologia della speranza che ha una lunga bella storia, c’è addirittura una diplomazia della speranza, come ha detto Papa Francesco ai diplomatici di tutto il mondo un mese fa. Di sicuro c’è la possibilità di lavorare insieme in una scuola della speranza.

 C’è una sacralità della scuola. Sacralità vuol dire qui “buona separatezza”, un luogo in cui non si insegue la parabola triste di un mondo che vorrebbe i ragazzi già disillusi, realisti, ben progettati a riprodurlo, questo mondo. Li sa meravigliosamente pieni di valore.

 www.avvenire.it

Mariapia Veladiano

Mariapia Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside. Collabora con la Repubblica e con la rivista Il Regno.

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