NOMINARE
LA MORTE
- “I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di ‘morte’, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù…”. Su il Libraio la riflessione del biblista Alberto Maggi.
È
sempre doloroso e difficile annunciare la morte di una persona cara. Storditi
dall’evento, tanto più se improvviso, i pensieri e i sentimenti vengono come
inghiottiti in un vortice di dolore e di pianto, si appanna non solo la vista
ma anche l’intelletto. C’è però nel contempo l’impellente necessità di
informare del decesso e trovare le parole adatte con cui si possa esprimere il
lutto. Allora ci si affida a quanto già sperimentato, collaudato, a frasi
stereotipate, perlopiù banali, che però non riescono a esprimere il sentimento
e non sono adatte per manifestare il dolore.
È
scomparso
I
modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non
credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di
“morte”, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non
pronunciare quel termine che ormai è un tabù. Ciò può essere verificato usando
uno dei tanti motori di ricerca che si trovano su Internet e digitare “Annunci
funebri”. Sono decine, ma in nessuno di essi si dice chiaramente che la persona
è morta. Non si muore più, ma si avvisa che il tale “ci ha lasciato”, o “si
annuncia la scomparsa…”, o “la dipartita”, o che “è venuto a mancare…”, oppure,
in modo alquanto originale, che “è partito per il suo ultimo viaggio…”, o che
“è passato a miglior vita…”. Per molti viene anche indicata la modalità della
loro uscita dalla scena terrena, avvenuta senza creare troppo scompiglio:
“andato via in silenzio, in punta di piedi…”.
Un
angelo in Paradiso
Per
i credenti, poi, c’è una vasta gamma di scelta, tra chi annuncia che il loro
caro “è stato trasferito in un luogo di pace…” e che, finalmente, “riposa in
pace eterna”. Poi ci sono quelli che, sicuri interpreti della volontà divina,
sono certissimi che “Il Signore l’ha chiamato…”, o che “l’ha preso…”, o
“tolto”, e, dando per scontato che “i più buoni il Signore li vuole con sé”,
non esitano ad annunciare che il defunto era “già maturo per l’aldilà…”, o, in
caso di persone in giovane età, che “I fiori più belli li vuole il Signore…” o
anche “c’è ora un angelo in più in paradiso” (come se al Padreterno non
bastassero quelli che già ci sono…). Ciò che accomuna gli annunci funebri, sia
laici che religiosi, è il concetto di separazione e distacco: i morti se ne
sono andati, scomparsi, o si trovano in un’altra dimensione, sia essa il cielo
o altro, che in ogni caso li rende lontani e distanti.
È
tornato alla casa del padre
Attualmente
al primo posto tra le persone religiose l’annuncio più amato e gettonato è
indiscutibilmente: “è tornato alla casa del Padre…”. Questa pia formula
pretende di essere cristiana, ma in realtà non lo è, in quanto ha le sue radici
nella filosofia greca secondo la quale le anime, che vivevano beate in cielo,
venivano obbligate a scendere sulla terra, in una condizione, quella umana, che
vivevano come una prigionia dalla quale desideravano al più presto liberarsi
per poter, con la morte, tornare finalmente beate alla loro casa, il cielo
appunto. Ma questo non è un messaggio cristiano. Gesù lo ha espresso
chiaramente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e
noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Con la morte non
si torna alla casa del Padre, perché il credente è la casa di Dio, o in altre
parole, con la morte non si va in cielo, perché il cielo è già nella persona
che ha accolto Gesù.
Che
la terra ti sia lieve
Negli
ultimi anni è tornata di moda, anche tra i cristiani, come omaggio al defunto,
usare l’espressione di origine pagana “che la terra ti sia lieve”. Questa
formula poetica, in auge soprattutto nel mondo protestante anglosassone, dove i
presenti al rito funebre usano gettare una zolla di terra sulla bara calata
nella fossa, in realtà per un credente è una contraddizione. Tale espressione,
tratta dal latino “sit tibi terra levis”, si trova infatti nei monumenti
funebri pagani come affettuoso ossequio verso il morto, ma non ha nulla a che
vedere con la certezza cristiana di una vita eterna, cioè di una qualità che la
rende indistruttibile e che la morte non interrompe. Per questo i credenti
chiamavano il giorno della morte il “giorno della nascita” (“dies natalis”),
perché erano certi che non si moriva mai ma si nasceva due volte, e la seconda
per sempre.
Ovunque
tu sia
Tutti,
immancabilmente, anche nonni e bisnonni, se ne “sono andati troppo presto” e
hanno “lasciato un vuoto incolmabile”, il che, se fosse vero, sarebbe alquanto
preoccupante. E il ricordo o il saluto, che in questi casi viene rivolto
direttamente al defunto, è angosciante: “Ovunque tu sia…”, espressione che dà
l’idea di uno smarrimento, come se l’anima fosse spersa e vagasse disorientata
nell’immensità dell’universo e chissà dove è andata a finire… Anche questa
espressione non può essere considerata appartenente alla spiritualità
cristiana. Il credente, quando ricorda o prega la persona cara, non la pensa
“ovunque sia”, ma, al contrario, afferma: “tu che sei ovunque!”. Questa è la
fede del credente.
Sorella
morte
Con
la morte, non più condizionati dalla fisicità, dalla carne, si creano
nell’individuo nuove possibilità di relazione che consentono, questo sì, al
defunto di essere sempre presente con un amore che non è venuto meno con la
morte (“è mancato all’affetto dei suoi cari!”), ma che si è potenziato, perché
ora viene trasmesso con la stessa forza dell’amore divino, come il Cristo
risorto, che i discepoli non pensavano lontano nei cieli, ma che sperimentavano
presente, perché “operava insieme con loro” (Mc 16,20). Per un’autentica
spiritualità evangelica occorre riscoprire il valore della morte, che una
teologia nefasta presentava in passato come castigo divino per il peccato della
prima coppia. Bisogna, come Francesco d’Assisi, collocare invece la morte nella
sua giusta dimensione, tra i doni del Signore che, come l’acqua, il sole e la
terra, consentono la vita delle persone, per cui anche la morte diventa una
sorella. La morte, infatti, non è una privazione, ma al contrario una
beatitudine, come scrive l’autore dell’Apocalisse, che proclama addirittura
“Beati” i morti (Ap 14,13). La visione evangelica della morte va pertanto
sintonizzata con l’insegnamento del Cristo, che annunciando la sua fine arriva
ad affermare “È bene per voi che io me ne vada…” (Gv 16,6). La morte di Gesù
non significa la sua assenza, ma una presenza ancora più intensa, resa
possibile dallo Spirito che dona la capacità d’amare come lui ha amato,
permettendo di sperimentare così la sua vivificante vicinanza in modo ancora
più potente di quello si è potuto conoscere quando Gesù era in vita.
Non é più
I morti non sono assenti
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