- Il Vangelo della XIX domenica C commentato da Paolo Curtaz.-
La Parola forte e rassicurante di Gesù, in
questa domenica, ci raggiunge nella nostra estate infuocata e rissosa,
lamentosa e banale, rassegnata e spensierata, e ci aiuta ad orientare la vita,
a ridarle senso, vigore, speranza.
Non temere piccolo gregge! Sì, siamo un piccolo gregge, siamo pochi, ma scegliamo di avere un pastore solo, il pastore bello che sa dove condurci, che, diversamente dai mercenari, è interessato a noi per ciò che siamo, non per ciò che produciamo.
Non temere piccolo gregge! Non abbiamo paura, anche se facciamo fatica (quanta!) nel non perdere la speranza. Ma ci fidiamo, abbiamo fede, come padre Abramo, come Sara, perché ci siamo scoperti agapetoi, amati, e abbiamo scelto di amare. La fiducia nasce dall’esperienza: abbiamo conosciuto quanto il Signore Gesù ci ama.
Perché Dio è così: dona. E dona sé. Il Regno è là dove Dio regna, là dove dimora la sua presenza di luce e di pace.
Ma per accorgerci della sua presenza, per
non lasciarci travolgere dalla paura, per scoprire davvero che il Regno è in
mezzo a noi, è già qui, dobbiamo vivere da persone libere e dobbiamo vegliare.
Facciamoci due conti in tasca, serenamente e seriamente. Guardiamo per cosa vale la pena di vivere, dove stiamo investendo tempo ed energia, risorse e qualità, nella nostra vita. Se il Vangelo è solo un’appendice (sana e santa) all’interno della nostra quotidianità o se, invece, ha cambiato il nostro modo di vedere. Il tempo che stiamo vivendo è un tempo di mezzo, nell’attesa che il Signore della gloria torni.
A noi, qui e ora, Dio affida la gestione
del Regno, per renderlo presente, per vivere come figli di Dio. Le nostre
comunità, allora, diventano succursali del Regno, pagine pubblicitarie
dell’umanità nuova perché riconciliata, profezia di un mondo nuovo.
Anche se non siamo capaci, anche se non siamo degni, anche se zoppichiamo. Perciò facciamo Sinodo: per chiederci con franchezza evangelica se il modo che abbiamo di annunciare sia il miglior modo, oggi, per dire di Dio.
Estote parati
State pronti, ammonisce Gesù. Pronti a viaggiare, pronti a mettere in discussione ogni risultato, ogni certezza, tanto più se derivante dalla fede e dalla religiosità. Se abbiamo capito che il nostro cuore è fatto per l’infinito e l’infinito cerchiamo, stiamo pronti a cercare all’infinito. È il salubre atteggiamento del discepolo, la consapevolezza del “già e non ancora”. Già conosco Dio, eppure non lo possiedo ancora.
Già ho vissuto una splendida esperienza affettiva, eppure so che nessun amore colma il mio cuore definitivamente. Già ho scoperto, alla luce del Vangelo, quanta grazia e luce interiore ricolmano il cuore, ma ancora vivi momenti di sconforto e di buio. Già ho capito chi sono, ma ancora non so chi sarò.
Una tensione sana, bella, che ci conduce
all’essenziale, che ci stacca dalla pesantezza della quotidianità, che ci
restituisce al realismo.
State pronti, ci chiede il Maestro. E noi vegliamo nella notte. Questa notte della Storia. Ogni notte. Scrutando l’Oriente, aspettando l’aurora. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Nomadi
Come Israele, le cui gesta, enfatizzate e mitizzate, abbiamo letto nella prima lettura, anche noi siamo chiamati ad uscire dalla schiavitù, da ogni schiavitù, per imparare, nel deserto, a fidarci di Dio. Schiavi dell’idea che abbiamo di noi stessi, schiavi e preoccupati dell’immagine che dobbiamo restituire agli altri, schiavi dei finti bisogni che la pubblicità ci suscita, possiamo riscoprire, alla luce della parola, che o l’uomo è cercatore o non è, o l’uomo è mendicante o non è. O l’uomo è in cammino interiore o non è. Che la vita, che ogni vita, è progressiva liberazione interiore. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Abramo ascolta la sua voce interiore.
Non è un giovane preso da deliri mistici:
è un uomo realizzato, non travolto da impetuose passioni. Egli è l’uomo provato
dalla vita, disilluso e che – pure – sente un appello irrefrenabile
all’interiorità. Vai, sente nel cuore, Vai a te stesso.
Folle Abramo che lascerà ogni certezza e
ruolo sociale per seguire un istinto interiore, per ritrovare se stesso! E
questo suo gesto sarà immensamente fecondo: egli è il padre di tutti i
cercatori di Dio.
Vai a te stesso, amico lettore, scopriti
viandante, sul serio. Anche se pensi di avere vissuto a sufficienza, o troppo
sofferto, o fatto le tue scelte. Siamo tutti straordinariamente liberi, resi
capaci di iniziare percorsi nuovi anche quando tutto sembra deciso, sbagliato, irremovibile.
Vai a te stesso.
L’Attesa
La vita, allora, diventa inquieta (e felice) attesa, l’attesa del ritorno, l’attesa dell’incontro del padrone che torna dalle nozze. Attesa: la mia vita, la tua vita è attesa.
Di un senso, del superamento del tuo
dolore, della chiave per capire la tua vita, di una persona da amare, di un
figlio da stringere e baciare, di un mondo migliore, della luce infinita che
illumini le tue paure, di Dio.
Attesa. L’uomo è l’unico essere vivente capace di
attendere, di vegliare, di insistere, di credere. Nella notte, spesso, nel lungo e corposo
silenzio della notte, sentiamo crescere la nostra fede, abbandonarsi il nostro
cuore, capiamo cosa ci è essenziale. Nella notte, come le sentinelle che
aspettano l’aurora, diventiamo dei credenti, dei discepoli. Quando le ginocchia vacillano, quando la
fatica è tanta, quando ci sembra di non farcela ad attendere, quando la
disperazione fa pressione alla porta del cuore, possiamo guardare ai testimoni,
guardare ai padri della fede, ai tanti, tantissimi che hanno, come noi creduto
nella notte, e visto la luce, infine.
La fede è questo misterioso già e non
ancora, questo silenzio assordante, questa notte luminosa.
Vegliamo, dunque.
Amati. amando.
Nessun commento:
Posta un commento