UN'ECOLOGIA DELLA PAROLA
- di Mauro
Magatti
Siamo
sommersi dalle parole.
Eppure, le
parole non valgono più nulla. È questo il paradosso nel quale ci troviamo e che
la campagna elettorale appena iniziata rende ancor più evidente. Promesse,
commenti, opinioni, accuse. Si dice una cosa e il suo contrario. Tanto nessuno
si ricorderà domani quello che è stato detto ieri.
Tutti
parlano, gridano, esagerano per richiamare l’attenzione. Parole in libertà che
non impegnano nessuno. La parola data non tiene più insieme le persone: quando
viene meno la convenienza, un impegno preso può essere cambiato. Le cose che si
dicono non implicano il rispetto della verità. Negli anni i cattivi maestri
hanno insegnato che è vero solo ciò che raggiunge l’effetto. A prescindere da
ogni referenza con il reale. Che cosa sono le fake news se non la traduzione
digitale dell’uso cinico e strumentale delle parole? Se si lancia sui social
una notizia falsa, caricandola di emotività e provocazione, il suo impatto
comunicativo sarà comunque superiore alla rettifica che seguirà. Perché non
provarci? Saper dialogare per arrivare a intendersi è un’arte sempre più rara.
E così si moltiplicano i litigi che alimentano l’estenuante conflittualità tra
chi si dovrebbe occupare del bene comune. Fino ad alimentare le tante guerre
che insanguinano il mondo.
Viviamo in
mezzo a un vero e proprio inquinamento comunicativo. Così, non sapendo più a
chi credere, c’è chi cede alla tentazione di rintanarsi in nicchie chiuse dove
si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo. Altri si fanno
ammaliare da slogan che semplificano troppo. O addirittura da parole cariche di
odio e di violenza. Nel flusso ininterrotto delle parole che, prive ormai di
significato, passano senza lasciare traccia è la stessa idea di sfera pubblica
il primo bene comune che viene perduto. Lo si vede in questi primi giorni di
campagna elettorale: Calenda che si rimangia il patto elettorale sottoscritto
due giorni prima. Azione e Italia Viva
che si devono alleare, ma non si fidano l’uno dell’altro. Il Pd che negozia
sottobanco con i 5S. Conte che parla come se non fosse stato parte del governo
Draghi. Berlusconi che, aggiornando il suo vecchio slogan, promette «un milione
di alberi». Salvini che se la prende con i migranti. Meloni che si dice pronta
a risollevare l’Italia, senza però dire come. I tre che con toni diversi
parlano di flat tax (al 23, al 15, incrementale), ma non spiegano quali servizi
taglieranno per finanziarla. La sensazione è che i programmi siano elenchi di
promesse che nessuno realizzerà mai. E dove le alleanze tra i partiti siano
facciate che nascondono gelosie, rivalità, antagonismi. Destinate a disfarsi
davanti alle prime curve della legislatura: come la coalizione di centrodestra,
che mentre si dichiara unita a Roma, affila i coltelli per la candidatura di
Palermo.
Nasce da qui
la sfiducia diffusa nei confronti della politica parolaia, che parla sempre, ma
combina poco. Le conseguenze possono essere molto pericolose per la democrazia.
Perché laddove si smette di credere al valore vincolante delle parole, di
assumersi la responsabilità di quello che viene detto, di condividere un senso
che permette di dare una direzione comune a quello che facciamo, è il potere di
fatto che alla fine si impone. Senza giustificazione e legittimazione. Dissolta
ogni critica nella confusione del flusso infinito delle opinioni equivalenti, è
il potere di fatto, nella sua brutalità, ad affermarsi. Non si trova forse qui
la ragione delle tante disuguaglianze, violenze, ingiustizie che sembrano
delineare situazioni immodificabili e che perciò sembra addirittura impossibile
mettere in discussione? È una malattia che si infiltra un po’ in tutte le
democrazie contemporanee.
A partire
dagli Stati Uniti d’America, che non sono mai stati così fragili. Ma che in
Italia, a causa della debolezza delle nostre istituzioni, è particolarmente
grave.
Logos
(parola) viene dal verbo greco legein – che significa raccogliere, rilegare. In
italiano questa radice etimologica la ritroviamo in legare, rilegare, ma anche
in religione. E infatti attraverso la parola che è possibile ricostruire un
senso, stabilire e mantenere delle relazioni, decidere di percorrere una strada
insieme agli altrimenti, ricomporre una divergenza. Senza la parola diviene
impossibile allearsi, promettere e persino intendersi. Il problema è che la
parola, per non essere vuota e così annichilire la realtà, esige disciplina.
L’idea che la parola sia puro strumento distrugge le relazioni, il senso, il
mondo. È invece la parola che ci fa esistere come persone e che ci costituisce
come società.
Per questa
ragione è indispensabile pretendere da coloro che si candidano a gestire la
cosa pubblica il rispetto dell’intimo legame che esiste tra le parole che si
dicono, quello che si conosce e quello che si fa. Ma anche noi come elettori
abbiamo delle responsabilità. Prima di tutto educandoci a non esporci a tutto,
a qualunque cosa. Prima di accendere la tv o entrare nei social, verifichiamo
le fonti. E impariamo ad alternare la confusione e il rumore con il silenzio e
la riflessione. E poi ricordandoci che è quando siamo isolati che siamo
perduti. Il discernimento è sempre il portato di una comunità di pratiche, di
una vita associativa, di una esperienza partecipativa. La realtà può essere
interpretata insieme. Solo con gli altri possiamo mettere alla prova le parole
che usiamo e che sono usate da chi, troppo spesso, ci vuole abbindolare.
Per salvare
la democrazia, occorre una nuova ecologia della parola.
www.avvenire.it
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