- di Giuseppe Savagnone
La rottura dei 5stelle in Sicilia
L’improvvisa
decisione dei 5stelle di rompere l’alleanza che li legava al PD, in vista delle
elezioni regionali siciliane (fissate per il 25 settembre insieme a quelle
nazionali), è solo l’ultima di una serie di scelte politiche, fatte da diversi
partiti, che stanno caratterizzando questa vigilia elettorale e che non sembra
esagerato definire suicidi annunciati.
Cominciamo
dall’ultimo in ordine di tempo. In Sicilia, da tempo, i pentastellati e il
Partito Democratico avevano progettato di affrontare uniti la battaglia per
l’elezione del presidente della regione. Una scelta imposta dalla necessità di
unire le forze per far fronte alla tradizionale prevalenza della destra
nell’isola, ancora accresciuta dal progressivo emergere di Fratelli d’Italia in
questo ultimo scorcio di legislatura. Tanto più che i partiti di destra, dopo
alcuni dissensi, si stavano compattando, trovando alla fine un accordo sul nome
di Renato Schifani, ex presidente del Senato e senatore di Forza Italia.
In vista
della prossima scadenza elettorale erano state organizzate addirittura delle
primarie comuni, allo scopo di scegliere un candidato su cui sia 5stelle che Pd
potessero convergere. Aveva prevalso Caterina Chinnici, figlia di Rocco
Chinnici, già magistrato ed attualmente europarlamentare con il PD. La rottura
dell’alleanza è avvenuta, appena qualche giorno fa, per volontà dei 5stelle ed
è stata definita, da qualche giornale, uno «schiaffo» al PD.
Ne vedremo
fra poco la ragione. Quello che è certo è che si tratta di una scelta che rende
estremamente probabile il successo della destra. Anche se la Chinnici ha
dichiarato di non voler rinunciare alla candidatura, per rispetto a coloro che
l’hanno votata alle primarie, è chiaro che ora la strada per lei è tutta in
forte salita. Né ha migliori prospettive Nuccio Di Paola, capogruppo all’ARS
dei 5stelle, sul cui nome il movimento ha ripiegato dopo la decisione di
«correre da soli». Uno scontro, insomma, in cui non ci sono vincitori e vinti,
ma solo perdenti.
La rottura
di Letta con i 5stelle
Dicevamo
delle motivazioni dello «schiaffo». Anche se Enrico Letta si è detto
«esterrefatto» per il «voltafaccia» dei pentastellati, si deve proprio a lui la
mossa, a livello nazionale, che ha provocato la stizzita risposta di Conte in
Sicilia.
Il
segretario del PD, dopo il ritiro dei 5stelle dal governo Draghi, che ne ha
causato la caduta, ha dichiarato che da quel momento ogni possibilità di
collaborazione tra i due partiti era irrimediabilmente esclusa. La drasticità
di questa presa di posizione, da parte di un leader che aveva insistito molto,
negli ultimi tempi, sulla necessità di convergere in un «campo largo», ha
spinto qualche commentatore a parlare di una vera e propria fatwa, il termine
usato per indicare la condanna a morte in contumacia a suo tempo emanata da
Komeini nei confronti dello scrittore Salman Rushdie, ritenuto reo di
sacrilegio verso la religione musulmana.
La rottura
di Calenda col PD
Per la
verità Letta ha cercato di restare fedele alla sua idea del «campo largo»
cercando un’alleanza al centro col partito di Carlo Calenda e sembrava pure
esserci riuscito. Non sarebbe stato un compenso, dal punto di vista numerico,
alla perdita di quella con i 5stelle (Azione, il partito di Calenda, anche dopo
essere stato potenziato, ora, dalla fusione con Italia viva di Renzi, nei
sondaggi si aggira sul 5% dei consensi), ma avrebbe avuto un notevole
significato politico, perché avrebbe segnato l’apertura del PD verso il centro,
con la speranza di attirare gli elettori della destra diffidenti verso l’ala
estrema di Fratelli d’Italia.
Anche questa
prospettiva, però, è inopinatamente sfumata, appena pochi giorni dopo la firma
dell’accordo, per il ripensamento di Calenda, che sembra essersi
improvvisamente accorto, in ritardo, del fatto che col PD correva anche
l’estrema sinistra. Da qui un’altra rottura.
Così, come
ha osservato con una battuta qualcuno, il «campo largo» si è trasformato nel
giro di poche settimane in un “camposanto”. Senza che peraltro Calenda,
l’autore della marcia indietro, se ne sia molto avvantaggiato: ha perso la
speranza di avere eletti dei suoi rappresentanti con l’appoggio dei voti del PD
e non sembra avere guadagnato consensi, almeno stando agli ultimi sondaggi.
Ancora un suicidio.
Un sistema
elettorale che mortifica la democrazia
Ma, a
proposito di suicidi, ce n’è un altro, questa volta più grave, che riguarda lo
stesso sistema elettorale. Mai come in questa tornata la partecipazione
democratica rischia di ridursi a uno slogan vuoto. Colpevole già il
“Rosatellum”, che, per il proporzionale, esclude i voti di preferenza e prevede
liste bloccate, impedendo all’elettore di scegliere il candidato che realmente
preferisce.
Si vota non
una persona, ma un partito. I nomi della lista risulteranno eletti nell’ordine
stabilito dalla segreteria di quel partito. Ci sono, è vero, sia alla Camera
che al Senato, i collegi uninominali. Là in primo piano non c’è il partito, ma
la persona, con la sua identità, la sua storia, il suo maggiore o minore legame
col territorio. Solo che, essendo escluso il voto disgiunto, chi vota la lista
di un partito nel proporzionale non può votare per un candidato di un partito
diverso nell’uninominale.
I meccanismi
partitici bloccano, così, anche le possibili sorprese che potrebbero venire
determinate dal “fattore umano”, là dove, sulla carta, esso dovrebbe essere
decisivo. Si aggiunga a questo quadro desolante il fatto che la drastica
riduzione dei parlamentari – voluta con grande determinazione dai 5stelle e da
essi sbandierata come una vittoria rispetto alla logica della casta – sta
avendo come effetto la quasi totale esclusione dalle candidature che contano
(quelle, cioè dove c’è una speranza di successo) dei rappresentanti della
società civile, a favore dei notabili dei vari partiti, che anzi hanno dovuto
litigare anche fra loro per accaparrarsele. Una riforma voluta per colpire la
logica della casta, l’ha invece portata alle estreme conseguenze (a proposito
di suicidi…).
Il suicidio
della Seconda Repubblica
Insomma,
queste elezioni hanno tutta l’aria di segnare il de profundis della Seconda
Repubblica e soprattutto, del sistema politico liberal-democratico che essa,
con le sue contraddizioni ha portato alla decadenza, facendo ampiamente
rimpiangere la Prima.
Peraltro,
paradossalmente, a collaborare alla sua definitiva crisi – sostenendo un
partito di estrema destra, per molti versi eterogeneo rispetto alle loro
posizioni (soprattutto di Forza Italia), qual è Fratelli d’Italia – sono due
personaggi come Berlusconi e Salvini, la cui storia è inscindibile da quella di
questa Seconda Repubblica e che hanno l’aria di stare segando allegramente il
ramo su cui sono seduti (anche questo, in fondo, è un suicidio).
L’unica che
non si è suicidata è la Meloni. Anche perché, nel delineare la sua linea
politica, è rimasta così vaga – a parte l’ostilità verso i migranti e la
rivendicazione del presidenzialismo – da rendere difficile rendersi conto di
quello che farà quando salirà al potere (l’unica cosa che di sicuro
fortissimamente vuole). I consensi nei suoi confronti sono cresciuti in modo
esponenziale soprattutto per i suoi “no” (in ultimo, al governo Draghi).
Vedremo solo
quando governerà, quali sono i suoi “sì”. In uno dei miei recenti chiaroscuri
paragonavo queste elezioni a un uovo di Pasqua. La Meloni è la sorpresa. Non
sappiamo se e quanto la sua ascesa possa essere paragonata a quella del
fascismo. Ma nei libri si storia c’è scritto che, ovunque esso è andato al
potere, lo ha potuto fare per la debolezza e talora lo stato confusionale dei
suoi avversari. Questa sì, mi sembra una sicura analogia con quanto sta
accadendo oggi in Italia.
* Pastorale della
Cultura Diocesi Palermo
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