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di Giuseppe Savagnone*
Dal cambio del pilota a quello della barca
Se i sondaggi non saranno
clamorosamente smentiti, queste elezioni sembrano destinate a registrare la
vittoria a valanga della coalizione di destra. Anche perché la scelta del PD,
il maggiore partito di sinistra, di escludere ogni alleanza elettorale con i
5stelle, ha reso molto improbabile il successo della sinistra nei 221 collegi
uninominali (147 alla Camera e 74 al Senato).
A questo punto, secondo
le previsioni, non è impossibile che Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia,
uniti, raggiungano il traguardo di una maggioranza in Parlamento dei due terzi.
Il che comporterebbe la possibilità, per loro, di cambiare, da soli, la
Costituzione.
Non è un’ipotesi
peregrina. Questo cambiamento rientra esplicitamente nel loro programma, in cui
figura la proposta di un presidenzialismo che affiderebbe al popolo l’elezione
diretta del capo dello Stato, accrescendo al tempo stesso enormemente i poteri
di quest’ultimo e ridimensionando quelli del Parlamento. Che la si consideri o
no con favore, si tratta di una novità che rende queste elezioni diverse da
tutte quelle che l’hanno preceduta, sia nella Prima che nella Seconda
Repubblica.
Perché qui non è in gioco
soltanto la maggioranza politica che governerà nei prossimi cinque anni e che,
per la normale dialettica democratica, prevista dalla nostra Costituzione, può
essere vista con favore da alcuni e avversata da altri. Qui si tratta della
stessa Carta costituzionale. A cambiare non sarebbero i piloti della barca,
come finora è avvenuto nell’avvicendarsi dei governi di destra e di sinistra,
ma la barca.
Urge una presa di coscienza
Questo significa che gli
italiani il 25 settembre faranno una scelta che non ha precedenti, se non nelle
elezioni del 1946, quando, dopo gli anni del fascismo e della guerra, votarono
per eleggere i loro rappresentanti nell’Assemblea Costituente. Solo che allora
erano consapevoli di stare scegliendo i partiti e le persone che avrebbero
deciso non solo del loro futuro immediato, ma della forma definitiva che
avrebbe assunto la loro vita politica. Un regime era caduto, in circostanze
drammatiche, e si trattava di inventarsene un altro. Ai “padri costituenti”
veniva esplicitamente affidato questo compito delicatissimo.
Oggi la maggior parte
delle persone sembra invece convinta di stare partecipando a una normale
tornata elettorale e di potersi affidare, come per il passato, a orientamenti
più o meno estemporanei, dettati da motivazioni contingenti. Tutto sembra
confermare questa impressione. Le solite polemiche tra i leader, i soliti siparietti
nei talk show televisivi, le solite promesse elettorali, fatte apposta per
illudere gli ingenui e per essere opportunamente ridimensionate o del tutto
disattese dai vincitori, alla prova della cruda realtà, nella concreta gestione
del potere. Tutto come sempre.
E invece no. Perché
questa volta si profila la possibilità concreta che venga cambiata la
Costituzione. Il nuovo Parlamento potrebbe assumersi il ruolo di una nuova
Costituente e decidere di ridiscutere non solo il modo di giocare la partita,
ma le stesse regole del gioco. È quanto del resto il centro-destra, nel suo
programma, promette di fare, in caso di vittoria: «Elezione diretta del
Presidente della Repubblica» è uno dei quindici punti di questo programma. Se
avrà, come dai sondaggi appare possibile, i due terzi dei voti, potrà
realizzarlo. E presumibilmente lo farà, visto che a caldeggiare questa proposta
è soprattutto Giorgia Meloni, la leader più “forte” dello schieramento di
destra.
Opposte prospettive
Naturalmente si può
essere disposti, secondo le proprie propensioni politiche, a sottolineare più
le luci oppure le ombre di questa prospettiva. Si potrà guardare ad essa con la
speranza di un profondo rinnovamento della vita politica, oppure con il timore
di un suo imbarbarimento. L’importante è essere coscienti che, se si
realizzasse, costituirebbe una cesura rispetto a cui quella tra Prima e Seconda
Repubblica risulterebbe irrilevante.
La nostra attuale
Costituzione è nata dalla catastrofe di un regime dittatoriale che aveva
affidato il potere alle mani di un uomo solo. Essa, perciò, è tutta incentrata
sull’esigenza di evitare un simile esito, distribuendo e bilanciando i ruoli in
modo che nessuno abbia da solo una funzione decisionale assoluta.
C’è un capo dello Stato,
eletto dal Parlamento, ma è solo il garante della vita democratica e non può
sostituirsi né al potere legislativo, affidato alle Camere, né a quello
esecutivo, esercitato dal governo. A sua volta il Parlamento, oltre ad eleggere
il presidente della Repubblica, ha il compito decisivo di fare le leggi e di
votare la fiducia al governo, che quindi ne dipende, ma non può governare
direttamente. Così come il governo non può prescindere dal voto di fiducia del
Parlamento e non può fare leggi, ma solo decreti che devono essere comunque
approvati dalle Camere.
Inutile dire che questo
sistema di pesi e contrappesi ha dei difetti di cui è testimone la storia
politica della Repubblica. Il pluralismo dei poteri risulta a volte
paralizzante. E la dipendenza dei governi dal Parlamento li espone a una
continua instabilità. Una persona sola al comando può fare a meno di dipendere
dagli altri soggetti coinvolti nella gestione dell’apparato dello Stato. Con
l’elezione diretta del presidente e con il conseguente rafforzamento del suo
potere, molte lentezze, molte fragilità del sistema parlamentare potrebbero
così essere definitivamente evitate.
Nel programma del
centro-destra non si specifica se il presidenzialismo proposto sia quello di
tipo americano o di tipo francese. Nel primo caso, il presidente eletto dal
popolo sostituisce direttamente il primo ministro; nel secondo, lo nomina, e
può anche destituirlo. In entrambi i casi, è lui che governa.
Essendo eletto dal
popolo, non può essere delegittimato dal Parlamento. Quest’ultimo continua ad
avere un certo controllo sul suo operato – come avviene negli Stati Uniti, dove
alcune scelte presidenziali devono passare attraverso l’approvazione del
Congresso – , ma in definitiva è il presidente il soggetto principale dello
scenario politico. Ovviamente con i problemi e i rischi che questo
accentramento del potere comporta per le libertà civili e politiche.
Tuttavia, non si può
assolutamente identificare il presidenzialismo con il fascismo. Abbiamo appena
citato due nazioni che adottano il primo senza essere sospette di cadere nel
secondo. Certo, i critici fanno notare che la storia italiana non è quella
degli Stati Uniti, né quella della Francia, che non hanno conosciuto il
fascismo, da cui invece la nostra storia unitaria è stata profondamente segnata
per ben vent’anni.
Indizio evidente della
presenza, in quei Paesi, di anticorpi culturali e politici che in Italia non
c’erano e forse non ci sono neppure oggi. Dove il problema non è se sia
possibile una riedizione del fenomeno politico storicamente definito come
fascismo – cosa assai improbabile (la storia non si ripete mai identica) – , ma
se non si corra il rischio, assumendo una struttura costituzionale che vede una
persona sola al comando, di favorire l’insorgenza di derive autoritarie
analoghe ad esso, come per esempio quelle che si sono affermate in Polonia e in
Ungheria.
La dichiarata simpatia
della Meloni per il regime di Orbán non è, da questo punto di vista,
rassicurante. Per contro, però, ci può essere chi, pur non essendo fascista,
preferisce correre il rischio dell’autoritarismo e del sovranismo che rimanere
in balìa del gioco dei partiti nel costruire e disfare maggioranze parlamentari
sempre esposte a tutti i ricatti e a tutti i ripensamenti (come dimostra con
particolare evidenza la triste storia di questa ultima legislatura).
Una perplessità
Non è questa la sede per
dire quale dei due sistemi sia preferibile. L’importante è che, andando a
votare il 25 settembre, ci si renda conto di stare facendo una scelta radicale
e probabilmente irreversibile tra i due. Andiamo forse verso una nuova
Costituente.
Resta la domanda se il
personale politico che dovrebbe procedere all’elaborazione di questa nuova
forma costituzionale sia all’altezza di quello che, tra il 1946 e il 1948, ha
scritto la nostra Carta costituzionale. Quelli erano uomini e donne che si
erano forgiati nella lotta contro la dittatura, nelle persecuzioni,
nell’esilio, a volte nella prigionia.
Molti erano persone di
grande cultura. La loro statura morale e civile era la garanzia della loro
affidabilità politica. Possiamo dire la stessa cosa dei nostri futuri padri
costituenti? Certo, bisogna tenere conto del cambiamento dei tempi e del
costume.
Tuttavia, senza voler
offendere nessuno, bisogna riconoscere che la storia personale dei principali
leader della coalizione destinata alla vittoria non sembra contrassegnata dallo
stesso spessore etico e culturale. Ma, se gli italiani li stanno chiamando a
governare, vuol dire che si riconoscono in loro. È la regola della democrazia.
* Pastorale della Cultura Diocesi di
Palermo
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