È il pomeriggio dopo il primo scritto della maturità. Mi godo, orgoglioso, le scelte della mia quinta: 19 su 23, cioè l’83%, ha scelto la prova di letteratura (analisi di una poesia di Pascoli o di stralci da una novella di Verga), in Italia appena il 19%. Ottimo segnale, l’esperimento ha funzionato. Quale? Leggere per cinque anni classici in versione integrale, dall’Odissea alle Operette morali, dall’Inferno agli Ossi di seppia. Liberi dalla paragrafite, adesso non hanno bisogno di rifugiarsi nella tipologia C, il covo delle tracce per disperati, dove è risaputo che basta scrivere quattro luoghi comuni sul Covid o su internet: in Italia l’ha scelta il 35%, qui nessuno.ation 0:57
Vanno avanti per sei ore, e alla fine
nessun compito somiglia a un altro. La piattezza dei quesiti ministeriali viene
spazzata via dalla familiarità con i testi letterari e con il libro
dell’esperienza. Non sciorinano discorsi precotti sul verismo, ma scoprono
differenze fra gli occhi “neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino” eppure
“offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria” di Nedda e quelli “ridenti e
fuggitivi” di Silvia; non essendo ostriche abbarbicate allo scoglio del
manuale, si salvano dalla fiumana delle frasi fatte sulla società siciliana
dell’Ottocento e, quando la protagonista piange dando “alla luce una bambina
rachitica e stenta”, intercettano, al bordo dell’amarezza per la sua sorte
d’infelicità, il segno di un immenso amore; si chiedono anche se a qualcuno
importi di quelle remote lacrime e delle loro più fresche, perché il dolore ti
stravolge i lineamenti ma “in fondo è bello avere un cuore”. Su questi fogli
non duellano un paragrafo e uno studente, ossia due avatar, ma si incontrano
due soggetti reali: questo testo e questo ragazzo.
La sera fra la prima e la seconda prova
il concerto a Bari di Vasco Rossi mi mette in testa, oltre all’adrenalina
di Siamo solo noi, un altro refrain: “Voglio trovare un
senso a questo esame / anche se questo esame un senso non ce l’ha”.
Mi sfugge, per esempio, quale sia il senso del colloquio orale: interrogare ancora?
Sei insegnanti interni non dovrebbero aver già verificato e straverificato per
un anno o due o tre o perfino cinque? Fino all’ultima ora dell’ultimo giorno
dell’ultimo anno si sbaverà dietro un’ultima domandina, tre minuti a testa?!? O
il senso sarà forse dimostrare chissà a chi quanto uno studente sa?
A sentir balbettare di fascisti alleati con i nazisti e di atomiche su
Hiroshima, l’impressione è che l’asticella si assesti a poco più che a
un’infarinatura da camionista, che stride con il pallore di un mese lontano dal
mare; quanto al latino, diplomarsi allo Scientifico equivale a uscire da
Scienze applicate.
Da qualche tempo l’orale verte sui “nodi concettuali”: il rapporto
uomo-natura, la crisi del soggetto, il progresso eccetera. Qual è la prassi? In
italiano di progresso parla Verga, in inglese ne parla Dickens, in storia la
rivoluzione industriale. A mancare è la semplice domanda: tu, a proposito del
progresso, cosa dici? Perché “progresso” è l’argomento, ma la tua tesi quale
sarebbe? I monologhi oscillano fra la ripetizione dei paragrafetti e qualche
sventolata di opinionismo da bar, entrambi nemici della conoscenza affettiva, ossia di un giudizio personale non
dopo ma dentro quello che si studia. Forse nessuno, a questi ragazzi, ha
insegnato ad argomentare. C’era sempre da interrogare sul paragrafetto. Bastava
poi che si aggiungesse un qualsiasi slogan posticcio del tipo “bisognerebbe
rispettare l’ambiente” oppure “al giorno d’oggi i giovani vivono attaccati al
cellulare mentre i veri valori sono altri” perché se ne elogiasse lo spirito
critico.
Eppure l’ordinanza ministeriale parlava
chiaro: “argomentare in maniera critica e personale”, “interdisciplinare”,
“evitando una rigida distinzione” tra materie. Ci vorrebbe un discorso
compatto, che attraverso passaggi logici documentati sviluppi una tesi. Ma dopo
anni di steccati invalicabili fra le discipline, ci si illude di una miracolosa
improvvisazione in extremis?
Qualche esempio di interdisciplinarità:
l’ipersfera del Paradiso dantesco nella lettura del fisico Patapievici;
Heisenberg e il Titanic come punti di collisione del positivismo comtiano; il
rapporto fra verità e bellezza nello Zibaldone come
sintesi fra la geometrizzazione illuminista e la sensibilità poetica:
differenze rispetto a Keats.
In assenza di tale habitus, non resterà
che delirare tra collegamenti strampalati, che sono la tomba di ogni serio
percorso disciplinare e interdisciplinare. A molti ragazzi hanno già messo nero
su bianco, in largo anticipo, non solo quali saranno i nodi, ma anche quali
argomenti per ogni materia e in quale ordine dovrà esporli: ritagliarsi un
angolino per sé è un’eventualità non contemplata.
Almeno oggi, invece, le domande
andrebbero ribaltate: più che “lo sai questo?”, “cosa pensi?”; più che “cosa
farai dopo?”, “chi sei tu, adesso?”. Nessun ragazzo intelligente risponderebbe
alle seconde prescindendo dalle prime. Eppure, dopo una vita dietro i banchi di
scuola, non li riteniamo capaci di orizzonti così ampi. Infatti i corridoi si
annuvolano di diciannovenni alti un metro e novanta che il minuto prima
dell’orale ripetono nervosamente qualche paragrafetto dal quadernetto. Forse
non hanno trovato scritto su nessun libro che la cultura è ciò che rimane
quando hai dimenticato tutto quello che hai imparato, e che perciò l’obiettivo
del sapere è vedere e, più che memorizzare, capire.
Abbiamo avuto tredici anni per dirglielo
ma non c’è stato tempo. Adesso rimaniamo fedeli alla linea, investigando
un’ennesima volta sulle informazioni che ha ingurgitato ed espelle. Impensabile
che la palla della conoscenza venga arroventata da un pensiero fondato e
originale. Sottovoce mormoro un’altra canzone, di Niccolò Fabi: “non vorrei che
tu dicessi quello che so, ma quello che non so dire”. Perché nella didattica
l’alternativa rimane radicale, tra informazioni e conoscenza: ammaestriamo a
sapere, come doppioni di internet, oppure insegniamo a vedere, come nessun
altro?
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