- di Giuseppe Savagnone*
I cattolici
sembrano scomparsi dalla scena politica. Dopo essere stati per cinquant’anni,
nella Prima Repubblica, alla guida del Paese, si sono dissolti, nella Seconda,
risucchiati dai due poli del centro-sinistra e del centro-destra, dove la loro
influenza è ormai invisibile. Questo, malgrado il PD sia nato, sulla carta, con
l’intento di coniugare l’anima sociale del cattolicesimo italiano con il
socialismo post marxista e da parte degli esponenti della destra – si pensi a
Salvini – si siano moltiplicati i riferimenti espliciti al vangelo e alla
tradizione cristiana.
Per un certo
periodo il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il card. Camillo
Ruini, si è fatto carico di colmare questo vuoto con le sue prese di posizione
pubbliche sui «valori non negoziabili». Un tentativo discutibile e molto
discusso anche dal punto di vista cattolico, stando alla dottrina del Concilio
Vaticano II sull’autonomia dei credenti in ambito politico: «Dai sacerdoti i
laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori
siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a
quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a
questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria
responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione
rispettosa alla dottrina del Magistero» (Gaudium et Spes, n.43).
Sono parole
che escludono drasticamente ogni delega alla gerarchia ecclesiastica, da parte
dei cittadini credenti, nella gestione del bene comune. In ogni caso, con papa
Francesco, anche questa stagione si è conclusa. I pastori sono stati richiamati
a evidenziare innanzi tutto la forza salvifica del messaggio cristiano,
rinunziando a gestirne le applicazioni nell’ambito politico. Il vuoto di
presenza laicale, fino ad allora mascherato da una sostituzione sostanzialmente
clericale, si è così manifestato in tutta la sua evidenza.
Per una più
incisiva presenza nei rispettivi schieramenti
La soluzione
non è certo il ritorno – peraltro impensabile – a un “partito dei cattolici”,
come al tempo della Democrazia cristiana. La sola via praticabile sembra
essere, oggi, quella di un impegno pluralistico, come previsto peraltro dal
testo della Gaudium et Spes che abbiamo appena citato, che continua: «Per lo
più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze,
a una determinata soluzione.
Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».
Il Vangelo
non è un programma politico, come non lo è l’insegnamento sociale della Chiesa
che ad esso si ispira e nessuno ha il diritto, in politica, di appropriarsene.
Neppure, però, lo si può sbandierare a piacimento per sostenere qualsiasi
posizione, come talvolta si tenta di fare. Vi sono dei princìpi, impliciti
nella Rivelazione, che devono guidare il credente, sia di destra che di
sinistra, nella sue scelte di fondo, pur lasciandogli la responsabilità di
tradurle in misure concrete.
Princìpi che
si possono ridurre, in ultima istanza, a due – il primato della persona e
quello del bene comune – e che i padri costituenti, molti dei quali
sinceramente cristiani, hanno posto a base della nostra Carta costituzionale.
Ciò che rende irrilevante la presenza dei cattolici in entrambi gli
schieramenti non è l’essere “di sinistra” o “ di destra”, ma il fatto che tanto
la sinistra che la destra, pur appellandosi formalmente a questi valori, si
muovono all’interno di un orizzonte intellettuale molto diverso, che, paradossalmente,
le accomuna, pur dando luogo ad esiti opposti. In questo orizzonte la persona è
stata sostituita dall’individuo e il bene comune dal potere dello Stato.
La persona
letta alla luce della proprietà privata
È il caso
della sinistra, che, dopo la fine del marxismo, non ha trovato di meglio che
aggrapparsi alla visione liberale fondata nel Seicento da Locke e dominante
nella società borghese. In questa visione ciò che caratterizza l’essere umano è
l’essere proprietario di se stesso, del proprio corpo, delle proprie facoltà e
di poterne disporre a proprio piacimento, a patto di non invadere la sfera
altrui. Una visione insulare, nata storicamente all’epoca in cui le “terre
comuni” (open field) in Inghilterra venivano vendute e recintate (enclosures),
segnando il trionfo della proprietà privata.
Questa
visione, che sta alle origini del capitalismo ed è ovviamente “di destra”, è la
base delle battaglie combattute dalla “sinistra” in Italia e negli altri Paesi
occidentali per una rivendicazione dei diritti sganciati dalle relative
responsabilità. Emblematico lo slogan delle femministe al tempo della battaglia
per il diritto di aborto: «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio».
Un’analoga
filosofia sta oggi sotto la rivendicazione del diritto al suicidio assistito e
all’eutanasia. L’individuo è autonomo, autosufficiente, e non deve rispondere a
nessuno delle sue scelte. Purché, naturalmente, non valichi il confine che
difende lo spazio degli altri individui. «La libertà di ciascuno finisce dove
comincia quella degli altri». Prima di questo limite, è assoluta.
È appena il
caso di dire che, in una simile prospettiva, non c’è più un bene comune, se non
la reciproca tolleranza che rende compatibili tra loro queste diverse sfere di
libertà. Se viene meno l’idea che la persona sia intessuta nella sua struttura
più profonda da relazioni che la legano agli altri e la rendono responsabile
nei loro confronti di ogni sua scelta, anche la più “privata”, non c’è più
neppure un fine comune da perseguire.
Esso viene
sostituito da una semplice somma di interessi particolari, con l’inevitabile
conclusione che i più forti alla fine prevalgono sui più deboli. Ma questa è
anche la prospettiva della “destra”. La sua strenua ostilità nei confronti
delle tasse, secondo lo slogan che le identifica con un «mettere le mani nelle
tasche degli italiani», si fonda sulla stessa visione insulare del cittadino,
proprietario di se stesso e dei suoi averi, che non ha alcun legame, se non
quelli liberamente scelti volta per volta, e che non deve nulla a nessuno.
L’individuo «si fa da sé».
La comunità,
anche qui, è un arcipelago di isolotti autonomi l’uno dall’altro. In assenza di
un bene comune, per evitare il rischio dell’anarchia viene valorizzato e posto
in primo piano lo Stato, un ente burocratico, il cui potere e il cui prestigio
prescindono dalle persone e possono implicarne il sacrificio, come è sempre
avvenuto in tutti i totalitarismi.
Nessun uomo
è un’isola
Ad entrambe
queste posizioni – peraltro espressione di un unico orizzonte culturale – si
oppone radicalmente, in nome del vangelo, l’insegnamento della Chiesa. La
potrebbe esprimere bene un testo del poeta inglese del Seicento John Donne (1573-1651)
a cui si ispira il titolo di un famoso romanzo di Hemingway: «Nessun uomo è
un’isola, completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una
parte del tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa
ne è diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la
tua stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte
dell’umanità./ E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/
essa suona per te».
Identificare
la persona con l’individuo significa – come è avvenuto anche per l’homo
oeconomicus – ridurla a un a suo aspetto, reale ma non esclusivo. La persona è,
per sua intima struttura, individuale, ma anche portatrice di una fitta rete di
relazioni che la vedono debitrice e responsabile nei confronti degli altri e
della società di cui fa parte.
Senza di
essi sarebbe – lo dice l’esperienza dei baby lupo, smarriti nella foresta e
ritrovati dopo anni – un povero essere incapace perfino di parlare e di stare
eretto (facoltà acquisite nella società). Perciò non è vero che la sua libertà
finisce dove comincia quella degli altri: fin dall’inizio esse si compenetrano
intimamente. Perciò non ha senso una battaglia per i diritti individuali che
prescinde dalle responsabilità verso la società e verso le persone.
Non siamo
proprietari di noi stessi e meno che mai possiamo credere che le nostre scelte
private riguardino solo noi. Anche il diritto di proprietà è solo un mezzo per
contribuire al bene comune. La terra è di tutti. Lo ricordava Paolo VI nella
Populorum progressio (1967), appellandosi alla costante tradizione dei padri
della Chiesa: «“Non è del tuo avere”, afferma sant’Ambrogio, “che tu fai dono
al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è
dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a
tutti, e non solamente ai ricchi”.
È come dire
che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e
assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera
il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario» (n.23). Ben lungi dal «mettere le mani nelle tasche»
dei legittimi possessori, le tasse non fanno che redistribuire la ricchezza
che, in una certa misura, si è acquisita sempre grazie alla società, e non solo
per merito proprio.
Un Paese
come l’Italia, che ha creato cinque milioni e mezzo di persone in condizione di
povertà assoluta, non ha nulla a che vedere con l’idea di bene comune. È
indispensabile oggi, per il rinnovamento della politica, che i cattolici
prendano coscienza del carattere rivoluzionario della loro visione e si battano
per darle un peso, all’interno dei rispettivi schieramenti, rispetto a quella
dominante. Si obietterà che è un’impresa disperata.
E tuttavia
vale la pena di tentare, perché non sono in gioco solo le prossime elezioni, ma
il futuro del nostro Paese.
Scrittore ed Editorialista.
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